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Libreria digitale

Itinerary

Le vie per l’arcadia

BARI, CORFU: Pontikonissi, Benitses, ITAKA:Vathy, Anogì

Itinerario – Le-vie-per-l’arcadia

[Tedesco] 

[Spagnolo] 

Questo itinerario propone un viaggio tra la Puglia e la Grecia ionica sui passi di Lalla Romano ed Emilio Cecchi. Il titolo è liberamente ispirato al diario di viaggio di Cecchi Et in Arcadia ego e al saggio su Lalla Romana di Vincenzo Consolo Et in Arcadia Lalla.

Nella primavera del 1934 Cecchi aveva viaggiato, in compagnia del figlio, per le Isole Ionie e il Peloponneso, spingendosi fino a Creta. Da quell’esperienza nacque un libro edito nel 1936, i cui singoli capitoli erano già stati precedentemente pubblicati come articoli di reportage.

La Grecia di Cecchi è una terra in cui il passato mitologico della regione convive con il presente. L’autore ne coglie le caratteristiche attraverso una scrittura in cui la vena poetica ed elegiaca, riservata alla descrizione dei paesaggi e dei monumenti, diventa a tratti ironica e a volte dissacrate, quando si tratta di fotografare ‘il brutto’ stile neo-ellenico o l’edilizia moderna che, già all’epoca, cominciava a contaminare le città greche, in primis Atene. Ne emerge una rappresentazione visiva dei luoghi che ricorda le pitture impressioniste e in cui l’Arcadia, evocata nel titolo del suo libro, diventa la meta simbolica in cui riscoprire, non solo i caratteri universali della cultura greca, ma anche un po’ noi stessi. Similmente Lalla Romano nel suo Diario di Grecia — resoconto di un breve viaggio in compagnia del marito della durata di otto giorni, compiuto nella Pasqua 1957 (pubblicato nel 1960 e poi — in una versione più ampia — nel 1974), ci racconta una Grecia letteraria e mitologica vivificata dai suoi personali ricordi d’infanzia e dalla costante ricerca di momenti di verità, e per questa via il viaggio «si concretizza così in un’esperienza di attualizzazione di un mito lontano» (G. Dell’Aquila, L’Adriatico di Lalla Romano) tanto universale quanto intimo.

Emilio Cecchi e Lalla Romana diventeranno le guide letterarie di questo itinerario, invitando anche noi a vivere questa esperienza di viaggio come la ricerca del nostro angolo di Arcadia.

L’itinerario inizia in compagnia di Lalla Romano, a bordo del treno che condusse la scrittrice da Milano sino a Brindisi, dove si sarebbe imbarcata su una nave chiamata Angelika in direzione della Grecia.

Il viaggiatore, che oggi attraversi la Puglia in treno, potrà gustarsi le descrizioni paesaggistiche della scrittrice immaginandosi in un vagone di altri tempi, sicuramente privo dei moderni confort offerti dai convogli ad alta velocità, ma dotati di un loro peculiarissimo fascino, catturato dalle parole della Romano:

Il treno è foderato internamente in cuoio scuro, impresso a disegni floreali.

    • È di prima della guerra, – dice Stefano.

Prima dell’altra guerra! Quando c’era quell’eleganza ambigua (ma forse ogni eleganza lo è) che ha intravveduto nella nebbia dell’infanzia chi è nato prima del ’14.

Il nostro scompartimento è angusto, ammobiliato, vestito; tempestato di borchie, ganci, rampini lucidi di ottone. Anche la scaletta mobile, ridicolmente piccola, è interamente rivestita di panno blu a disegni.

[…] Accanto al lavabo c’è una saponetta verde piccolissima.

Continuo la perlustrazione. Apro lo sportellino in basso, e ne estraggo la coppa di maiolica. Ha un lunghissimo labbro, un lunghissimo manico: sembra uno strano animale o fiore esotico.

La rinfilo, e sale dal basso il vento e il rombo delle rotaie. La custodia in cui la coppa si incastra ha la sua forma precisa ed è rivestita di panno come gli astucci dei gioielli. (L. Romano, Diario di Grecia)

Quello che rimane immutato in un viaggio in treno lungo la costa pugliese, sia che il convoglio sia dei primi del Novecento o di ultima generazione, è la bellezza dei paesaggi che si alternano veloci dietro i finestrini: dal Gargano a Bari è un susseguirsi di improvvise visioni, che Lalla Romano cattura e ci restituisce sotto forma di veloci schizzi, abbozzati più con i colori della regione che con le parole.

Scrive:

Ogni campagna intravveduta all’alba dal buio e dal chiuso di un treno è una apparizione di purezza: esangue, fredda. Ma l’alba del Sud è calda, più che non sia nei nostri paesi l’aurora. Una dolcezza d’Oriente è in quell’aria, d’oro verde sono le foglie nuove della vite e del fico.

È la Puglia. Il monte Gargano già si allontana, di un azzurro poco più intenso del cielo. Si distingue ancora il profilo da cittadella crociata di Monte Sant’Angelo e la falcatura luminosa, celeste, del golfo di Manfredonia.

Trani. Cerco con gli occhi, riesco a vedere – alta, bianca – una fronte del Duomo, volta a guardare lontano sul mare.

Il treno si è fermato. La nettezza marina è nell’aria tra le case bianche. […]

In Puglia vedo i primi papaveri. Radi frammezzo ad altri fiori selvatici, di un rosso più intenso dei nostri; non solo di quelli chiari di montagna, anche di quelli emiliani, accesi, che ho visto infuocare intere distese di campi. Questi hanno un colore prezioso: non sensuale, mistico.

Le strade tra i campi, profilate dai muretti a secco di pietre tonde, bianche, sono polverose: strade buone a percorrersi a piedi scalzi o a dorso di mulo, al massimo in biroccio.

Nel mezzo di un campo, ogni tanto, una costruzione conica di pietra, un rozzo trullo non imbiancato: embrionale cupola, affine alle antiche tombe o tesori. (L. Romano, Diario di Grecia)

Paesaggio pugliese con papaveri
(Foto di Davide Roppo da Pixabay)

mmagine correlata

Bari vecchia, piazza Ferrarese

Scendiamo dal treno a Bari in compagnia della scrittrice per la prima tappa del nostro viaggio.

Appena fuori dalla stazione, la città appare nella sua veste moderna e ottocentesca, quella del borgo murattiano, un susseguirsi ordinato di grandi strade borghesi ed eleganti viali, che disegnano una maglia geometrica totalmente estranea e quasi giustapposta alla disordinata trama mediterranea di vicoli e vicoletti, che invece caratterizzano la città vecchia. È proprio lì che ci dirigiamo velocemente con Lalla Romano, lasciandoci alle spalle la città moderna: «troppo occidentale, «milanese», per la nostra ansia di Oriente». (L. Romano, Diario di Grecia)

Dopo aver percorso via Sparano e attraversato corso Vittorio Emanuele, due tra le principali arterie cittadine, quasi senza soluzione di continuità, si apre davanti a noi Piazza Ferrarese, vera anticamera di Bari Vecchia. A Lalla Romano appare «una piazza, lunga, ampia, calma. Mi riesce familiare – a me provinciale – quasi l’avessi davvero attraversata, tanti anni fa, un giorno di passeggiata scolastica, “in fila”».

La piazza, oggi uno dei luoghi notturni della movida barese, deve il suo nome a un mercante originario di Ferrara che visse e fece la sua fortuna a Bari nel XVII secolo. È ancora possibile osservare la pavimentazione della strada romana Appia-Traiana che in passato passava proprio in questo punto della città. Sulla sinistra c’è la sala Murat, un ambiente che ospita mostre di arte contemporanea e, poco più distante, si scorge la zona absidale di una piccola chiesa, chiamata La Vallisa, risalente all’XI secolo. Questo luogo, oggi adibito ad auditorium diocesano, era la chiesa della comunità di mercanti Ravellesi e Amalfitani presenti in città nel Medioevo.

Sulla destra della piazza c’è l’edificio che un tempo era l’antico mercato del pesce comunale.

Piazza Ferrarese ha sempre rappresentato l’elegante ingresso alla città vecchia che, attraverso viuzze, vicoli e larghi, introduce il viaggiatore nel suo ventre che riserva non poche sorprese.

Così in cerca della Bari più autentica seguiamo la scrittrice:

Penetriamo, per vicoli, nella città vecchia; viva e insieme remota, piena di infanzia.

Una piazzetta irregolare, strana, meravigliosa. Da un lato casucce in vario movimento e colori, un po’ come una scena (in terra sono sparsi resti di ortaggi, dopo il mercato), e di fronte la mole austera, semplice, chiara, di un castello di pietra. Castello svevo (o normanno: nomi che fanno sognare). Sulla prima rampa corrono giocando, gridando, bambini. Il Duomo incombe con la sua maestà su un’altra piazzetta paesana, piccola, allegra. (L. Romano, Diario di Grecia)

 

Siamo giunti in Piazza Federico II, incorniciata tra i due poli architettonici e simbolici della città, il Castello Svevo e in lontananza la Cattedrale di San Sabino, intitolata anche alla Vergine Odegitria o Madonna di Costantinopoli. Prima di riprendere il cammino consigliamo al viaggiatore una visita a questi due monumenti cittadini.

Alle spalle della Cattedrale si stende il labirintico dedalo dei vicoli di Bari Vecchia, che a molti viaggiatori potrà evocare le città del Medio-Oriente. Qui la gente vive per le strade, strade bianchissime e pulitissime, dove i bambini giocano e gli adulti conducono i loro affari quotidiani, botteghe improvvisate si alternano a banchetti, dove signore con le mani segnate dall’esperienza preparano la pasta fresca locale. Consigliamo un passaggio nella strada oramai nota come la ‘strada delle orecchiette’, in via Arco Basso, dove le massaie della città vecchia, sedute le une accanto alle altre sull’uscio di casa, impastano e confezionano le orecchiette, una delle eccellenze gastronomiche baresi.

Le stradine del centro storico brulicanti di vita destarono l’attenzione di Lalla Romano che, trovandosi in città nel periodo pasquale, ebbe modo di osservare le vetrine dei fornai, per l’occasione, ricche di prodotti tipici, come le scarcelle e i taralli pasquali chiamati anche occhi di santa Lucia.

Scrive:

Le strade sono così piccole che noi abbiamo l’impressione di essere giganti; tanto più che esse sono formicolanti di bambini piccoli, i quali ne portano in collo altri piccolissimi.

Qualcuno è incantato davanti a una vetrina; vetrina di panettiere, che espone ovetti per l’imminente Pasqua. Uova col guscio fissate a un disco di pasta che le attraversa. […]

Vi è povertà in queste strade, anzi, miseria; ma è miseria bianca, non nera. Le case sono tutte intonacate di fresco, candide.

Ai crocicchi, tavolinetti espongono mercanzia minuscola, quasi inesistente, uguale a quella con cui si giocava da bambine «a vendere»: boccette, polverine, qualche pizzico di semi. (L. Romano, Diario di Grecia)

ari
Bari, Piazza Federico II, Castello Svevo.
“Bari” by dmytrok is licensed under CC BY-ND 2.0
Bari, Cattedrale di San Sabino
(Di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=61448663)
Bari, Basilica di San Nicola
(author: Francesco9062 – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18279866)

La visita non può che concludersi nel luogo simbolicamente più importante di Bari vecchia, la piazza dove si erge maestosa la bella basilica romanica di San Nicola.

La Romano descrive con queste parole il suo incontro con la vivace umanità che si affolla intorno alla chiesa:

San Nicola, circondato di spazio, è immenso. Fa pensare a un Medioevo luminoso.

Dentro, monaci fraseggiano dal coro. Sopraggiungono anche qui bambini, entrano coi fratellini incollo, li fanno sedere, additano loro i monaci: li portano in chiesa per tenerli buoni.

Fuori, altri bambini corrono, si radunano cheti, ripartono chiassosi. Su un parapetto uno piccolo, di un anno al massimo, già sicuro corre sui piedini nudi e ogni tanto, invece di cadere, fa un piegamento e poggia le palme davanti ai piedi, il culino in aria, nudo. (L. Romano, Diario di Grecia)

La Basilica che si specchia nelle acque dell’Adriatico fu per secoli punto di riferimento per naviganti, pellegrini e viaggiatori diretti o di ritorno dall’Oriente che approssimandosi al porto, immediatamente, si confrontavano con la sua sagoma. Per Lalla Romano, giunta sino a qui, il mare che bagna Bari vecchia e quasi lambisce le fondamenta di San Nicola annuncia l’imminente viaggio. Scrive:«Andiamo a guardare il mare. È celeste e luccica, presagio di favolosi viaggi».

La mattinata barese della scrittrice volge al termine, invitiamo il viaggiatore a seguirla mentre, di ritorno in stazione, riattraversa il centro murattiano, fermandosi davanti alla vetrina della Libreria Laterza in via Sparano:

Riattraversiamo la città nuova, così milanese c’è perfino «il Motta».

Lunga la via centrale Stefano mi mostra a dito l’insegna di un negozio. Leggo: G. Laterza e Figli. Dio mio! Come ho potuto scordarmene? Le edizioni Laterza sono state il latte, per noi. Vagheggiate, centellinate nelle biblioteche al tempo dell’adolescenza squattrinata, poi i primi gelosi acquisti: l’Estetica di Croce, la Nascita della tragedia.

Attraversiamo la strada, con la reverenza e la curiosità del caso. La vetrina è piena di Santi. Di statuine della Madonna del sacro Cuore. Dunque tradimento è l’anima del commercio! Ecco una buona signora col suo ragazzetto, vanno ad acquistare da Laterza un catechismo o una Piccola Filotea.

Giriamo l’angolo, e nelle vetrine di là i veri Laterza stanno allineati, distanziati signorilmente, nel sottile rarefatto silenzio del pensiero laico. (L. Romano, Diario di Grecia)

Oggi il bar della Motta, citato dalla scrittrice, per molti anni punto di riferimento per gli aperitivi domenicali dei baresi, non c’è più, mentre è ancora possibile entrare nella sede della storica libreria e casa editrice Laterza in via Sparano. Per oltre un secolo la Laterza ha animato la vita culturale di Bari, oggi quelle stesse vetrine che emozionarono la Romano, cresciuta sui libri pubblicati da questi editori meridionali, sono schiacciate e ridimensionate tra le vetrine luccicanti dei negozi di prestigiose marche di abbigliamento che ne hanno rilevato in parte i locali.

Lettera commerciale della ditta di Bari Giuseppe Laterza & Figli su carta intestata che riproduce lo stabilimento e il negozio, Bari 8 settembre 1920.
(Public domain)
Corfù, vista dal mare
(foto partner)

Lasciata Bari, la scrittrice prenderà un treno che la condurrà a Brindisi da dove s’imbarcherà alla volta della Grecia. Il viaggiatore invece oggi potrà optare per imbarcarsi direttamente dal porto di Bari che collega la città con le Isole Ionie.

Non resta che godersi il tempo del viaggio, approfittando della vista offerta dalla cabina della nave per osservare la Puglia in lontananza che alla scrittrice «pare già una memoria», con la «sua malinconia occidentale».

Scrive:

Il mare, calmo, è esso stesso elemento del silenzio, è uno spazio incorporeo, una eterea pianura che introduce a un viaggio al di là del tempo. […]

Ci stacchiamo dall’Italia.

Un tremito, un trapestio profondo, sussulti: la nave si muove. Ci troviamo nel salone di poppa e le vibrazioni, l’incipiente rullio sono sensibili, eccitanti.

Lo scenario dietro le vetrate si sposta: l’alta città murata, grigio-rosa, scivola all’indietro, s’inclina di sbieco, si allontana.

La nave raggiunge e supera un favoloso castello svevo ormai cupo, notturno, sul mare ancora chiaro, si scioglie dagli abbracci, dai lunghi tentacoli dell’immenso porto e scivola via nel crepuscolo.

A mano a mano che la nave si immerge nella solitudine delle acque e della notte, provo uno sgomento e insieme un’esaltazione: come se avessimo iniziato un viaggio supremo, verso una beatitudine difficile e incorporea. (L. Romano, Diario di Grecia)

La nave approda a Corfù la mattina del 18 aprile del 1957. L’isola si rivela alla scrittrice alla luce del nuovo giorno e la sua fantasia è immediatamente catturata dal Vecchio e dal Nuovo Forte veneziano che ne disegnano e proteggono le coste. Così li descrive:

Si profila una fortezza grigia e verde, a forti spalti, a zone dirupate, erbose: una fortezza antica, in abbandono. Ci devono essere sentieri costeggianti le mura, per le passeggiate domenicali delle famiglie; fossati e cunicoli per i giochi dei ragazzi, prati per le greggi e i loro pastori. Come nella fortezza che Redburn-Melville salutò salpando da New York.

Nel punto dove attracchiamo, abbiamo di faccia un’altra fortezza, meno antica ma non meno solitaria e dormente.

Ventosa, la vasta banchina è chiusa in fondo da un viale di tozzi platani come una piazza di paese. Vicino a riva, bancarelle di paccottiglia: minime anforette rosse e nere, rosari turchi di ambra gialla.

Autobus e jeeps ci porteranno a visitare l’isola. (L. Romano, Diario di Grecia)

Corfù vicolo del centro storico
(“Colour Wash” by kamshots is licensed under CC BY 2.0 )

Anche Emilio Cecchi, sofisticato viaggiatore e raffinato scrittore, circa venti anni prima, nel 1934, arrivò a Corfù di mattina e così ci racconta quell’esperienza nelle prime pagine del suo libro Et in Arcadia Ego:

È assai bello arrivare in un’isola ancora addormentata, e con appena qualche pagliuzza di sole in cima ai monti. Così dormiva Corfù. E dal molo appressandoci alle abitazioni, e forse a motivo di quelle persiane abbassate alle finestre sulla marina, si aveva un senso come a giungere di sorpresa, clandestinamente. […]

Nelle stradette era il silenzio della città che ha fatto tardi la notte fumando e chiacchierando; un odorino di cicche che macerassero nella guazza: lo stesso umido tanfo che all’alba si sente nei caffè appena aperti […]. Deserto era anche lo spiazzo del mercato, con intorno sbilenche baraccucce d’aspetto balneario. Soltanto usciti dall’abitato, e inoltrandoci velocemente nella campagna, si incominciò ad incontrare qualcuno: contadini sul loro asinello, donne che con una corda si tiravano dietro la capra; e accosto ad ogni casa colonica, legato al piuolo, un giovenco, come un monumento votivo.

E più s’andava avanti, più le ragazze e le donne diventavano belle. […]

Erano, queste, mistiche immagini bizantine: le immagini più bizantine che abbia mai veduto fuor che nei musei e nei mosaici. Pallidi i volti, incorniciati di panni neri, gli occhi stellanti, trapunte le vesti composte a pieghe ed angoli simmetrici. E in quell’avvallamento verde e senza sole, sotto la cupola del cielo bianchiccio, stavano con una grazia maestosa ed inutile di pitture bizantine mezzo scancellate. […] (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego.)

Corfù, Achilleion
(foto di Piotrus – Opera propria, CC BY-SA 3.0
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12187305)

Invitiamo il viaggiatore a seguire lo scrittore che sta lasciando il centro della città di Corfù per dirigersi nel villaggio di Gastouri dove si trova l’Achilleion, «la villa della povera Elisabetta d’Austria, poi di Guglielmo II, oggi passata al governo greco» (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego).

A Lalla Romano, anche solo il nome di questo monumento, esattamente come quello di Corfù, evoca immediatamente ricordi letterari e suggestioni romantiche. Ricorda la scrittrice:

Corfù. Da bambina mi piaceva ripetere questo nome; e il verso del Pascoli:

nel solingo Achilleo di Corfù

Inutile, adesso, ridurlo a quello che è; per me è ancora bello: pieno di silenzio, e di una lontana musica settecentesca. Ignoravo cosa fosse l’Achilleion, e quando seppi che era stato il rifugio di una regina infelice, il fatto non mi disturbò, ma non aggiunse nulla all’incanto di quel nome. (L. Romano, Diario di Grecia)

Con occhio più disincantato, a tratti dissacrante, Emilio Cecchi ci accompagna all’interno di questo palazzo dalle forme ostentatamente neo-classicheggianti, famoso per essere stato l’amata residenza di Sissi, l’imperatrice Elisabetta d’Austria. Ancora oggi è una delle attrazioni turistiche principali dell’isola. Scrive Cecchi:

Avete voglia a combinare esposizioni retrospettive di vita e costume dell’Ottocento, mettendoci ogni finezza di satira archeologica! Per fare un Achilleion occorsero niente meno che i sedimenti di due Imperi. Il cattivo gusto, la tristezza di due Imperi. A mezza costa. Fra palmette, bambù e viti americane, il prodotto di questa grandiosa collaborazione sta, sbreccato e spaesato, come il relitto di un mondo assolutamente estraneo, come un enorme polipaio lasciato in secco dal mare.

Lievemente, dinanzi alla villa, il giardino discende fino a una terrazza semicircolare, protesa sul panorama con l’aria di un ponte di comando d’una nave ammiraglia. […]

Fra le aiuole, un nudo di Frine, dozzinali frammenti di scavo, bassorilievi di donne scarmigliate e ploranti che vorrebbero sembrar greche, ma il liberty si sente lontano un miglio. Per vialetti e pergole inselvatichiti, s’arriva al ponte di comando, sul quale pavoneggia un altissimo Achille di marmo grigio, stile Thorwaldsen. […]

Presso la villa, altra scultura bavarese del Pelìde, ma questa volta moribondo, e intorno disseminati marmi e bronzi d’Amori, Muse e Lottatori: il più trito repertorio ellenistico che va a gran tiratura sulle cartoline illustrate. (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego.)

Con Cecchi continuiamo la nostra visita all’interno dell’Achilleion:

[…] Finalmente s’entra. C’è di tutto. Divani rococò. Stipi moreschi, intarsiati d’ebano e madreperla. E in bella cornice, scialbe istantanee eseguite dall’imperatore. […]

Quanto ad Elisabetta [Elisabetta II d’Austria, l’imperatrice Sissi], vestigia del suo gusto personale sono nella cappella a pianterreno. E la cappella sembrerebbe quasi romanica, se il catino dietro l’altare non portasse un affresco floreale, se alle pareti non fossero murate riproduzioni di terracotte della Robbia, e i candelieri di ottone e varia suppellettile non provenissero dalle lontananze d’ancor altre civiltà: nel complesso, un bazar triste e meticoloso. […]

Sulle brezze ioniche, Elisabetta ascoltava echi della canzone di Heine. Ma Guglielmo, rimirando Achille, pensava che con pochi ritocchi si poteva benissimo presentarlo come Sigfrido. Böcklin ebbe la prima, primissima idea dell’Isola dei Morti. (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego.)

La statua di Achille descritta da Emilio Cecchi
(Foto di Ava Babili is licensed under CC BY-NC-ND 2.0 )

Lo scrittore ironizza sull’identificazione, assolutamente fittizia e priva di reali prove, dell’isolotto di Pontikonissi con il soggetto del quadro del maestro simbolista Böcklin. Questo luogo, indiscutibilmente suggestivo, è poco più di un’alta scogliera sul mare circondata da un boschetto di cipressi, raggiungibile in barca dal molo su cui sorge il Monastero della Vlacherna, dove arriva anche Lalla Romano e fa tappa il nostro itinerario.

Visto da lontano, il bianco monastero sembra alla scrittrice anch’esso un’isola circondata dal mare:

Un mare liscio come un lago, e come un lago cinto di colli ondulati vicini e lontani, in una luce specchiante di miraggio, nel sentore amarognolo della primavera. Nel mare due piccole isole, sorprendenti: una bianca e una nera. Quella bianca – bianchissima, di calce – è un convento, ha un campanilino piatto e due campane; è unita alla terra da un pontile di sassi. L’altra, un po’ più indietro, nero-azzurra di cipressi e di pini. Quale sia la più misteriosa, non so.

[…] Il sentiero mi par familiare, uguale a quelli che scendono su Punta Chiappa di Camogli. Ora si vede che oltre al breve pontile dell’isola bianca, a destra corre un lungo molo o gettata di cemento che raggiunge l’altra riva e racchiude così un’ampia laguna.

Mentre trottiamo sul sottile cammino a fior d’acqua verso il convento bizantino, vediamo sfilare lentamente sul molo a lato un asinello col suo basto, e sopra un bambino; dietro ad esso un uomo che si appoggia a un bastone. La povertà e gentilezza «umbra» di quelle figure fa sembrare preziosa la pace del bianco convento.

Quando si entra è diverso. Nell’intimità questa pace è vera. La chiesa, piccola, nera dentro, è per me montanara col suo pavimento di legno, coi suoi ex voto vecchi e naïfs. I quadri sono icone.

Usciamo. Il mare fa specchio. […] Qui veniva a pregare la regina infelice dell’Achilleion. (L. Romano, Diario di Grecia)

Dal piccolo bianco monastero ortodosso, dove l’imperatrice Sissi andava a pregare, Lalla Romano si sposta sull’isolotto di Pontikonissi, che secondo un’antica leggenda, oltre ad essere stato d’ispirazione per il quadro di Böcklin, sui cui ironizzava Cecchi, altro non sarebbe che la nave dei Feaci trasformata in pietra da Poseidone per vendicarsi dell’aiuto offerto ad Ulisse. Le emozioni e i ricordi che in lei suscita il luogo sono affidate a queste parole:

L’isola nero-boscosa è vicina, pare debba mettersi a navigare, come una nave mimetizzata. È il contrappasso del mito, perché quell’isola è la nave dei Feaci. Mentre risaliamo il sentiero «ligure», incantevoli bambini ci porgono rametti fioriti che odorano fresco, dolce. Bambini scalzi, muti e sorridenti come i nostri di montagna quando sono davanti a forestieri. Sono insistenti come ospiti, non come mendicanti. Non chiedono infatti, offrono. Distribuiamo soldini, soldini greci, fin che ce n’è. Quando non ne abbiamo più ci mettono lo stesso in mano i rametti. (L. Romano, Diario di Grecia)

Pontikonissi, veduta
[author: Alinea CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)]
Pontikonisi_Island_05-06-06.jpg
Corfù, isolotto di Pontikonissi
[author: Sascha Askani, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=204175]
Arnold Böcklin, L’isola dei morti (terza versione)
Corfù, centro storico
Author: Lao Loong [CC BY-SA 1.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/1.0)]

In compagnia delle nostre guide letterarie, l’itinerario prosegue per la città di Corfù, in cui l’eleganza veneziana delle architetture e delle strade si combina felicemente con il fascino dell’Oriente mediterraneo di chiese ortodosse e di usi e costumi delle popolazioni locali. Scrive Lalla Romano:

[…] attraversiamo a piedi la città. Non so se sia veneziana come dicono, certo è occidentale, genovese direi, con le sue case alte, bianche e rosa.

[…] guardo le bottegucce. Si piomba nella più remota infanzia, per chi l’ebbe paesana come me. Bottegucce povere, polverose, buie; per entrare si salgono – o scendono – scalini. Odore di carrube, di canfora; vi si vendono ceri, cartoline, ogni cosa. (L. Romano, Diario di Grecia)

Ci sono luoghi e momenti a Corfù in cui è possibile immergersi totalmente in questo felice connubio tra stile italiano, occidentale, latino e cultura ortodossa che caratterizza la cittadina, come quando, ad esempio, si celebra un battesimo ortodosso nella chiesa di San Spiridione, eretta nel XVI in forme veneziane. Questa fortuna toccò ad Emilio Cecchi che ce ne lascia una vivida descrizione, grazie alla quale anche il viaggiatore potrà gustarne l’atmosfera. Entriamo in chiesa con lo scrittore:

[…] nella chiesa ortodossa di San Spiridione, genti accorrevano vociferando, quasi ci fosse, che so, un tentativo rivoluzionario. Scontrandosi come le formiche, si davano attorno con gialli candelini accesi. Ma poiché nessuno accennava a manomettere le lampade d’oro e d’argento a modello di barca, e d’argento anch’esso il sepolcro del santo, faceva presto a chiarirsi che, nonostante le stride, forse non stava succedendo niente di male.

Era infatti un battesimo. E la ressa e l’entusiasmo dei parenti fino al settimo grado; […] cantando le preci, il prete cercava di soperchiar quegli strilli; ma intanto gli si scioglievano, sulla nuca e le orecchie, crollando sotto la stola, grosse pesanti trecce brune, vere trecce da donna, da donna anzianotta; che a noi, non abituati, vedendole in testa ad uomini, fanno un effetto un po’ discostante. A leggerne negli storici, è così poetica la vita nella chiesa cristiana, i primi decenni dalla vita di Gesù. […] Eppoi, guardandoli meglio, si vede che sono della stessa pasta della gentuccia che popola certe pagine di Aristofane, di Teocrito; ma diventati più gravi, pudichi, eroi. Il senso di questo greco cristianesimo, casalingo, primordiale, è fra le più delicate e commoventi intuizioni che subito s’incontrano dall’altra parte dello Ionio. […]

Dalle pareti di San Spiridione, dorate pitture venezianeggianti (con i fortilizi, i marmi, la lingua, fra le tante nostre testimonianze su queste rive) guardano quella agitazione, quella dolorosa vivacità di stirpi urtate, confuse, consunte, quel disordine che in Corfù già sente di turchesco e carovaniero: guardavano con la serena dignità dell’occhio latino. (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego)

Lasciamo Emilio Cecchi, San Spiridione e Corfù e proseguiamo il nostro itinerario, imbarcandoci nuovamente in compagnia di Lalla Romano, in direzione di Itaca.

La traversata in nave, per raggiungere la più omerica fra tutte le isole, regalerà al viaggiatore paesaggi mediterranei di incredibile bellezza che non lasciarono indifferente la scrittrice che racconta:

Scivoliamo tra isole bianche e petrose, nel sole. Danno un’impressione quasi cruda di nudità.

Forse consiste, l’essere isole, in quella leggerezza di uccello appena posato, e in quell’irremovibilità, insieme, di statue che si debbono aggirare. Appaiono con nostro stupore; con nostro rimpianto dileguano. […]Stiamo costeggiando Itaca, ci dirigiamo verso un porto. Le rive sono vicine. Aspre, montuose, carsiche. Poco sopra l’orlo del mare corre un sentiero che sembra però naturale, non tracciato dall’uomo. Silenzio e deserto. Luce pomeridiana, un poco più calda ma non meno chiara della mattinale. La terra che traspare tra la pietra bianca, è rossa. Lo strano sentiero non è mai stato calpestato, o chissà? (L. Romano, Diario di Grecia)

L’arrivo a Itaca suscita nella Romano le stesse emozioni che ancora oggi provano molti viaggiatori che raggiungono quest’isola collinosa, dove, come cantato nell’Odissea, dopo lunghissime peripezie e molte avventure, infine approdò Ulisse. Itaca, per la scrittrice, è più di un’isola del mar Ionio, non è solo la patria dell’eroe omerico, ma in qualche misura è l’isola di ogni viaggiatore, «è la patria, la casa di tutti», dove riconoscere il senso profondo della nostra civiltà e cultura.

Scrive Lalla Romano:

Itaca. Commuove che sia davvero petrosa. Del resto, prima è stata un’isola come le altre, un’isola senza nome; e dopo, la patria di Ulisse. Anzi, la patria, la casa di tutti noi. Non più Itaca di un’altra, dunque. (L. Romano, Diario di Grecia)

Ithaca
(foto partner)

Rivolgendosi alla sua guida la scrittrice comincia a raccogliere informazioni sui luoghi cantati nell’Odissea:

Il Mitropulos [Mitropulos è il nome fittizio della guida greca di Lalla Romano], interrogato se la città che vediamo sia nel posto di quella di Ulisse, dice che no, che la baia di Ulisse era un’altra e indica una valletta profonda, in ombra e boschiva. – Là, – dice era l’approdo di Ulisse –. Stiamo già passando oltre, ma ho veduto – o sognato di vedere? – un filo di fumo, azzurrino. Eppure la valletta appariva disabitata. Lo straordinario del resto è che esista, intravveduta in qualche parte quaggiù. (L. Romano, Diario di Grecia)

Ancora oggi a Itaca numerosi sentieri escursionistici conducono nei luoghi veri o presunti, legati alla tradizione omerica. Non sempre si tratta di strade semplici da seguire e, ironia della sorte, cercarli potrebbe diventare un’impresa epica, sia per le grandi distanze da percorrere esclusivamente a piedi, sia per la scarsa segnaletica. Si tratta ovviamente di siti leggendari, su cui gli archeologi si sono spesso schierati su posizioni contrapposte. Con questa consapevolezza, giunti nell’isola per eccellenza, consigliamo al viaggiatore di non negarsi il piacere di una visita alla Fonte Aretusa. Questa sorgente naturale, a circa dieci chilometri da Vathy – il principale centro abitato di Itaca – è il luogo dove, secondo l’Odissea, Eumeo, il porcaro di Ulisse, portando i maiali ad abbeverarsi incontrò l’eroe che era da poco finalmente sbarcato sull’isola.

Nei pressi del piccolo villaggio di Stavròs, nella parte settentrionale, tra colline coperte di ulivi e coltivate a viti, si trova un piccolo museo archeologico e i resti di un palazzo dalle mura ciclopiche che oggi, sulla base di recenti scavi archeologici, è stato identificato come la possibile reggia di Ulisse, quella stessa reggia che invece l’archeologo Heinrich Schliemann, colui che portò alla luce i resti della città di Troia con i poemi di Omero come guida, aveva collocato nei pressi di Alalkomenés, vicino il monte Aetós.

Itaca, oltre a questi luoghi dal fascino mitologico e letterario, offre al viaggiatore anche altre attrattive: bellissime insenature naturali e spiagge, il villaggio portuale di Vathy e altri piccoli borghi, incastonati tra le colline. Scrive la Romano:

[…] nella rada ben chiusa dalle colline la nuova Itaca bianca, rosa, piccolo borgo sul mare.

Dopo, guarderò uomini e case. Ora guardo le colline in cerchio. Piene di forza e povere. Dolci. Dolci nelle linee ferme e calme, prive di ogni vaghezza di alberi o prati o coltivi. Qualche albero c’è, a piccoli gruppi, radi, due o tre, anch’essi di natura aspra, non sognante. Non è dolcezza. È ritmo, severo. È un senso, concluso, di unità. (L. Romano, Diario di Grecia)

Zona archeologica di Alalkomenés
Resti di mura nei pressi di Stavròs

Consigliamo al viaggiatore di perdersi nei villaggi e nelle colline che emozionarono Lalla Romano. Merita una visita l’antica capitale di Itaca, Anogí, situata a 500 metri di altitudine e a circa quattordici chilometri di distanza da Vathy. Qui è possibile ammirare l’antica chiesa dell’Agia Panagia con i suoi pregevoli affreschi bizantini. Il nostro itinerario si conclude in questo luogo e oramai non ci resta che lasciare l’isola all’imbrunire, come fece Lalla Romano che con queste parole si congeda da Itaca:

Partiamo verso sera. L’isola è più misteriosa, più solitaria. […]

Non c’è spiaggia né scogliera, il mare lambisce la roccia carsica, come se avesse sommerso una valle. Ciò dà l’impressione di un evento recente, in quest’aria senza tempo.

E del resto, perché questo luogo è antico? Immemoriale è la storia dei monti e dei mari, e questo mare non è più antico di un altro.

Ma questa è la Grecia: vale a dire siamo noi, uomini, antichi. (L. Romano, Diario di Grecia)

Noi, invece, ci congediamo dal viaggiatore e dall’isola condividendo l’augurio e i versi del poeta greco Kostantìnos Kavafis:

[…] Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

(K. Kavafis, Itaca)

Anogi
Anogí, Agia Panagia, iconostasi.
Itinerary

Passeggiando con Sissi

Corfù: monte Pantokrator, Kanoni, Benitses, Paleokastrizza, Lakones, Agia Kiriaki, Evropouloi

Itinerario – Passeggiando con Sissi
[Tedesco]
[Spagnolo] 

In questo itinerario proponiamo al viaggiatore di scoprire le bellezze di Corfù passeggiando idealmente a fianco dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, la sovrana, conosciuta come Sissi, che amò profondamente la Grecia e in particolare quest’isola, nella quale trascorreva lunghi periodi di vacanza in cerca di quella pace interiore che sembrava mancarle nella corte imperiale di Vienna.

La Principessa Sissi, part., Franz Xaver Winterhalter, 1865

Durante i suoi soggiorni sull’isola l’imperatrice amava fare lunghe passeggiate ed escursioni, che il viaggiatore potrà ripercorrere attraverso i fogli di diario del suo mentore e maestro greco, Constantin Christomanos, che fu spesso suo compagno di strada e di viaggio. I ricordi delle gite e delle passeggiate in compagnia della sovrana, nelle pagine scritte da Christomanos, sono proiettati in una dimensione dagli scenari fiabeschi, in cui le suggestioni classiche e omeriche convivono con l’accentuata sensibilità romantica dell’autore. Iniziamo il nostro itinerario seguendo il viaggio dell’imperatrice che il 15 marzo 1892, in compagnia del maestro Constantin, s’imbarca da Pola, sul panfilo imperiale Miramare, per raggiungere Corfù. La navigazione attraverso le acque del mar Adriatico è tranquilla, per la sovrana un momento quasi idilliaco, come confida al suo mentore:

La vita sulla nave è qualcosa di più che un semplice viaggiare. È una vita migliore, più vera. […]. È come trovarsi su un’isola da cui sono banditi tutti i fastidi e i rapporti umani. È una vita ideale, chimicamente pura, cristallizzata, in cui sono assenti i desideri e si perde il senso del tempo. Avere la percezione del tempo è sempre doloroso perché ci trasmette la percezione della vita. […]. La vita sulla nave è molto più bella di qualsiasi sponda. Le mete di un viaggio sono desiderabili soltanto perché tra noi e loro si frappone il viaggio. […] Sapere che devo presto ripartire mi emoziona e mi fa amare qualsiasi luogo. E così, ogni volta, io sotterro un sogno che svanisce troppo in fretta, per inseguirne un altro. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Il 17 marzo, il panfilo raggiunge il Mar Ionio e all’alba entra nello stretto canale che si apre tra la punta settentrionale di Corfù e le catene montuose dell’Epiro. Il viaggiatore, che ancora oggi raggiunge le Isole Ionie in nave dall’Adriatico, potrà ammirare dal ponte il paesaggio descritto da Christomanos:

I monti neri come pece, spiccavano sul pallido verde-grigio del cielo. Le rotonde colline rocciose della riva di Corfù erano coperte da una bassa sterpaglia, nera anch’essa, che si disegnava con incerti contorni su quel fondo scuro. Molti di quei cespugli dovevano essere in fiore, poiché di tanto in tanto arrivava alla nave un profumo intenso, come di miele frammisto, frammisto all’odore che esalava dalle rocce bagnate. Là dove le colline assopite erano cinte dal mare spumeggiante, si scorgevano macchie scure che facevano pensare a caverne insondabili. Una fascia appena increspata lambiva quietamente la riva sassosa, quasi la baciasse nel sonno. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

 

Lo sguardo di Sissi è catturato dal monte Pantokrator che con i suoi due corni gemelli, che s’inarcano, ricordano la posa di una statua greca. Avvicinandosi all’isola, con l’avanzare del mattino, il viaggiatore, come la bella imperatrice, potrà osservare le cime dei monti che cominciano a brillare alla luce dell’aurora che conferisce al paesaggio una dimensione mitologica.

Scrive Christomanos:

[…] un’atmosfera sovrannaturale fatta di rosea polvere d’oro, nella remota distanza e nel fulgore di una mitica età degli dei. Anche a non saperlo s’intuiva che qui era la patria della «dea dalle dita rosate» e di Febo dai bianchi destrieri. Poi le rose sono cadute sul torso di pietra del Pantokrator. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

 

Guido Reni, Aurora, Casino Pallavicini, Roma

La nave imperiale prosegue in direzione della baia di Garitsa, una «lingua di terra tutta ricoperta di vegetazione», e all’epoca del passaggio di Sissi, «come da una cornucopia gli alberi e i fiori si rovesciavano sul litorale; aloe e palme levavano alte le loro chiome nell’azzurro». Oggi, lungo questa insenatura, corre un incantevole lungomare dal quale si può godere di una vista molto suggestiva che spazia dal Vecchio Forte Veneziano al faro.

Veduta di Corfù, sulla sinistra la baia di Garitsa

Foto di Corfu Town R02.jpg: Marc Ryckaert (MJJR)derivative work: ויקיג’אנקי – This file was derived from: Corfu Town R02.jpg:, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=31692771

Questo luogo, così suggestivo, non lasciò indifferenti la sovrana e il suo compagno di viaggio che lo descrive con queste parole:

Era un angolo appartato, come se facesse parte di un altro mondo, ancora immerso in un pallido sopore sotto un involucro di seta luccicante. Ma in mezzo alle acque assopite si levava un fascio di neri cipressi che cingevano una chiesetta bianca; e dove la rupe che reggeva i cipressi si tuffava nel mare, questo si tingeva di rosso per il riflesso dei rossi gerani. Quell’isola mi sembra il modello dell’Isola dei morti di Böcklin […]. Quei cipressi laggiù somigliano a sogni cupi, e i fiori rossi che si specchiano nell’acqua con i loro riflessi sono sacri a Persefone. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Christomanos non è l’unico ad aver voluto identificare l’isolotto greco con il luogo ritratto dal famoso pittore simbolista. Su Pontikonissi, che più prosaicamente i Greci chiamano «l’isola dei topi», fantasie e suggestioni letterarie e artistiche sono proliferate. La leggenda vuole che quello scoglio altro non sia che la nave dei Feaci trasformata in pietra dalla vendetta di Poseidone, e ancora, secondo altri, potrebbe essere l’isolotto su cui William Shakespeare immaginò di ambientare la Tempesta.

Il 17 marzo 1892 la scialuppa imperiale tocca riva e approda nella baia di Benítses, nei pressi dell’omonimo villaggio. Oggi, questo ameno borgo, a soli quattordici chilometri dalla città di Corfù, è una popolare meta turistica e un’apprezzata località balneare, per la sua bella spiaggia di sabbia e ciottoli. Tra le colline boscose che circondano la zona sono ancora visibili le rovine di un’antica villa romana.

Pontikonissi, veduta
[foto di Alinea CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)]
Pontikonisi_Island_05-06-06.jpg
Corfù, isolotto di Pontikonissi
[foto di Sascha Askani, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=204175]
Arnold Böcklin, L’isola dei morti (terza versione)

Corfù, Achilleion

Author: No machine-readable author provided. Tasos Kessaris assumed (based on copyright claims). – No machine-readable source provided. Own work assumed (based on copyright claims)., CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1173278

Nella parte meridionale dell’isola di Corfù, tra Benítses e Gastouri, in cima a una collina, sorge l’amata residenza di Sissi: il Palazzo Achilleion, costruito alla fine dell’Ottocento. È in questo luogo che, una volta sbarcati, si dirigono l’imperatrice e il fedele Constantin che, nel suo diario, si dilunga nella descrizione di questa villa in stile pompeiano, oggi forse un po’ kitsch, ma ancora in grado di attirare numerosi turisti per la bellezza dei suoi giardini e per il fascino che continua ad esercitare la figura di Sissi.

Lasciamo ai fogli di Christomanos il compito di guidarci tra i lussuosi ambienti di questa dimora:

Il palazzo è incassato nella montagna. Il lato anteriore ha tre piani, mentre sul retro vi è un unico piano che dà su un’ampia terrazza a giardino con alberi secolari. La facciata guarda sulla strada maestra che da Corfù porta alla spiaggia di Benizze attraversando il bianco villaggio di Gastouri e passando davanti al castello. Un alto muro bianco e la cortina fronzuta degli ulivi fanno da riparo contro gli sguardi indiscreti. […] Sulla strada si apre un grande cancello di ferro con la scritta «AXIΛΛΕΙON». Una rampa sale dolcemente verso il portico antistante il castello: poderose colonne sostengono l’ampia veranda dei centauri. Il secondo e il terzo piano rientrano in modo da lasciare spazio a due logge, a destra e a sinistra della veranda dei centauri, con la quale comunicano; (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos).

Un peristilio accompagna il lato dell’edificio che si apre sul giardino pensile. La parte inferiore delle colonne è colorata di rosso cinabro; i capitelli, dipinti di azzurro e di rosso, con ricche dorature, si stagliano mirabilmente contro la parete retrostante, in rosso pompeiano, nella quale sono affrescati grandi medaglioni che rappresentano leggende classiche […] e paesaggi ispirati all’ Odissea. […] Di fronte a ogni colonna del peristilio è collocata una Musa di marmo, in grandezza naturale, con Apollo Musagete in testa. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Le statue, confida Sissi all’amico, sarebbero tutte antiche, acquistate a Roma dal principe Borghese, costretto a «vendere i suoi dèi» per non andare in rovina.

I giardini dell’Achilleion permettono al viaggiatore di godere di una incantevole vista, la stessa che conquistò l’imperatrice d’Austria, così è descritta nei fogli di Christomanos:

[…] il mare, che sembra quasi salire verso l’orizzonte, disegna sul marmo bianco una linea scura, color vino: una linea tracciata nell’immensità di segreti inespressi, aldilà di ogni comprensione…E ancora più alti si ergono nel pulviscolo dorato i monti violetti dell’Albania. Non lontano una fitta macchia di allori accentua la classicità dell’insieme. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

L’intera costruzione di questo palazzo ruota attorno al tema decorativo e simbolico dell’eroe omerico Achille. Una delle statue preferite dall’imperatrice rappresenta il Pelide morente. L’opera, caratterizzata da un certo patetismo romantico e da un’accentuata plasticità delle forme, si trova su una delle terrazze panoramiche che guardano il mare.

Corfù, Achilleion, esterno, peristilio
Foto di Thomas Schoch — own work at http://www.retas.de/thomas/travel/corfu2006/index.html, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=843512
Corfù, Achilleion, statua dell’Achille morente
Foto di Dr.K. – Own work, CC BY-SA 3.0
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25907139
Picture 6
Corfù, Paleokastrizza, (“DSC_6083” by almekri01 is licensed under CC BY-NC-ND 2.0)

Elisabetta confessa di aver consacrato il suo palazzo all’eroe omerico che ai suoi occhi «personifica l’anima greca, la bellezza del paesaggio e degli uomini. […] La sua volontà era l’unica cosa che avesse sacra. È vissuto solo per i suoi sogni, e per lui il suo dolore valeva più della vita intera».

Lasciamo l’Achilleion e seguiamo Sissi e il suo maestro di greco durante un’escursione lungo la costa occidentale di Corfù, che ancora oggi vanta le spiagge e i villaggi più belli dell’isola. Il 20 marzo, i due si dirigono a Paleokastrizza, per visitare un antichissimo monastero che sembra sorgere in mezzo al mare, su uno scosceso promontorio collegato all’isola da una sottile striscia di terra.

I fogli del diario di Christomanos descrivono con dovizia di particolari il monastero e l’itinerario percorso, che invitiamo il viaggiatore a seguire in ideale compagnia di Sissi.

Racconta il maestro greco:

Non appena si abbandonano le strade carrozzabili, ci si addentra ogni volta nel sacro bosco di ulivi. Tutta Corfù è un immenso uliveto selvatico che cresce, oggi come secoli e millenni fa, sempre sulle stesse zolle, sempre vicino al respiro del mare. […] Camminavamo nella calda, fremente penombra, in mezzo a tronchi contorti che sembrano avere un’anima, […] d’improvviso, attraverso le fronde tremolanti degli ulivi, abbiamo indovinato un luccichio, ancora più inebriante dell’azzurro del cielo o dello splendore del sole che abbracciava gli alberi: il mare! – l’altro mare, quello occidentale, che non si vede dalla costa feacica dell’isola ma di cui si avverte sempre la vicinanza. Ben presto, da un’altura, lo sguardo si perde su una distesa senza fine, inverosimilmente azzurra, più azzurra del cielo, più azzurra di qualsiasi idea di azzurro, più beata di ogni beatitudine. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

È arrivati a questo punto che si scorge il monastero di Palaiokastrìtsa che significa «Quella (la madre di Dio dell’antico castello», in riferimento all’antico kastron bizantino che sorge poco lontano: Angelokastron, il bastione più occidentale di Corfù.

Continua la narrazione di Christomanos:

Il monastero – un complesso di piccole costruzioni antiche, strette l’una all’altra sotto uno stesso involucro di intonaco bianco e sovrastate da una cupoletta rotonda di tegole, un piccolo cortile lastricato e, infondo a questo la chiesa con la porta spalancata. […] In fondo alla chiesa, un’antichissima iconostasi di legno con la doratura tutta annerita. Davanti alle cupe immagini dei santi, di cui si distinguevano appena gli occhi bianchi in mezzo ai grandi anelli delle aureole, lumini a olio verdi e rossi ardevano dentro lampade d’argento appese a catene. Le loro fiammelle, perdute in un sogno, si affievolivano a tratti per rianimarsi subito dopo. C’era un forte odore di ceri spenti, di vecchio legno tarlato, di polvere e muffa. In nessun altro luogo si aveva così netta l’impressione di essere trascinati indietro nel passato dell’anima. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

 

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Corfù, Monastero di Paleokastrizza
Lakones
Foto di User: Hombre at wikivoyage shared, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22695421

È arrivati a questo punto che si scorge il monastero di Palaiokastrìtsa che significa «Quella (la madre di Dio dell’antico castello», in riferimento all’antico kastron bizantino che sorge poco lontano: Angelokastron, il bastione più occidentale di Corfù.

Continua la narrazione di Christomanos:

Il monastero – un complesso di piccole costruzioni antiche, strette l’una all’altra sotto uno stesso involucro di intonaco bianco e sovrastate da una cupoletta rotonda di tegole, un piccolo cortile lastricato e, infondo a questo la chiesa con la porta spalancata. […] In fondo alla chiesa, un’antichissima iconostasi di legno con la doratura tutta annerita. Davanti alle cupe immagini dei santi, di cui si distinguevano appena gli occhi bianchi in mezzo ai grandi anelli delle aureole, lumini a olio verdi e rossi ardevano dentro lampade d’argento appese a catene. Le loro fiammelle, perdute in un sogno, si affievolivano a tratti per rianimarsi subito dopo. C’era un forte odore di ceri spenti, di vecchio legno tarlato, di polvere e muffa. In nessun altro luogo si aveva così netta l’impressione di essere trascinati indietro nel passato dell’anima. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Lasciamo il monastero e le sue icone bizantine e proseguiamo il nostro itinerario, seguendo Sissi e il suo compagno di viaggio, durante la loro gita a Lakones, località che sorge su un monte a ridosso dell’edificio sacro.

Così il pittoresco villaggio è descritto nel diario di Christomanos:

In alto, verso la metà del pendio rivestito di ulivi e cipressi, abbiamo visto il villaggio di Lakones – quasi un filo di perle bianche –, dietro il quale le rocce salgono ancora, costellate di fiori gialli e viola, a formare delle coppe rotonde come seni nudi. Il villaggio di Lakones è un insieme di povere casupole d’argilla imbiancate a calce e abbarbicate alle rocce come nidi d’uccello saldati tra loro. Sui tetti a terrazza garofani e gerani fiammeggiano dentro cassette di legno; davanti alle porte, tra pilastri segnati dal tempo, stanno accovacciate donne di rara bellezza; qua e là grassi maiali si godono il sole sulla strada; (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Dopo una passeggiata tra le vie di questo borgo, che ha conservato l’autenticità di un tempo e, dopo esserci concessi una pausa nei suoi caffè o nelle sue botteghe artigiane, proponiamo al viaggiatore un’altra delle passeggiate che l’imperatrice amava fare a Corfù.

Questo cammino ha inizio nel villaggio di Gastouri, nei pressi dell’Achilleion, e ha come meta la collina dell’Agia Kyriaki, «l’unico luogo in cui tutto mi piaccia davvero – confessa Elisabetta – qui potrei persino venire meno ai miei princìpi e fermarmi per sempre». Si tratta di una piacevole escursione, della durata di venti minuti circa, con numerosi punti panoramici. Alla fine della passeggiata, per lo più all’interno di una lussureggiante vegetazione, si arriva in una piccola cappella, eretta in cima a questo colle, da cui si gode della magnifica vista della costa orientale dell’isola e della pittoresca Pontikonissi.

Infine, concludiamo questo itinerario tra i luoghi dell’isola cari all’Imperatrice Elisabetta d’Austria, con una visita alla Villa Capodistria, oggi museo dedicato alla figura di Giovanni Capodistria, politico e diplomatico che diventò, nel 1828, il primo governatore della Grecia indipendente. La bella residenza dell’eroe nazionale greco sorge poco distante dalla città di Corfù, a circa 10 chilometri dal centro, in una località chiamata Evropouloi.

Per arrivarvi Sissi e il fedele Constantin dovettero camminare, come loro abitudine, per ore tra aranceti e ulivi. Scrive Christomanos:

Il mare splendeva nel sole ed era coperto di schiuma. Mugghiava stentoreo, senza riprendere fiato. […] Nella Villa Capodistria – l’antica proprietà del conte Capodistria, che fu il primo reggente greco, una residenza di campagna in stile veneziano, molto segnata dal tempo – ci sono venuti incontro il fattore e sua figlia. Una gigantesca magnolia, carica di calici di un lilla pallido, dava ombra al cortile. Due cipressi montavano la guardia davanti alle persiane verdi di una finestra chiusa. Il giardino era inselvatichito, invaso dalle confuse malinconie di piante avvezze a cure assidue per decenni e ormai lasciate a un solitario rigoglio. Dalla casa in gran parte disabitata, dal cortile col suo acciottolato a mosaico, dal giardino spirava l’ineffabile poesia dell’abbandono. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Questo giardino, ancora oggi una delle attrazioni principali del Museo Capodistria che consigliamo al viaggiatore di visitare, ha qualcosa in comune con la melanconia della bella sovrana, che come scrive E. M. Cioran, è diventata l’icona e il «simbolo di un mondo condannato».

Lasciamo questo luogo per congedarci da Sissi e dal nostro itinerario, che speriamo abbia permesso al viaggiatore, come accadde a Christomanos, di scoprire, grazie alle passeggiate proposte in questa magica isola, «i segreti delle montagne e delle onde […] i legami profondi tra gli uomini e le rose e i sogni». (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Una scena del film con Romy Schneider nei panni dell’imperatrice Sissi a Corfù.
Itinerary

Le storie del pellegrino

Canosa, Molfetta, Bari, Mottola, Corfù, Kassiopi.

Itinerario – Le storie del pellegrino

[Tedesco] 

[Spagnolo]

In questo itinerario invitiamo il viaggiatore a vestire idealmente il bordone del pellegrino o, più laicamente, a farsi viandante, per percorrere il tratto pugliese di quella strada ricca di storia, arte e cultura, nota come via Francigena del sud o Via Sacra Longobardorum. Seguendo quello che era il tracciato di una vecchia consolare romana mai totalmente abbandonata, la via Appia-Traina, raggiungeremo le città portuali della regione, da sempre importanti punti d’imbarco, lungo tutto il Medioevo, per pellegrini, crociati, templari o mercanti che volevano raggiungere il favoloso Oriente. Sui loro passi, guidati dai loro racconti e dai loro diari di viaggio, faremo infine rotta verso le Isole Ionie, tappa di passaggio quasi obbligata per chi, in passato, navigava in direzione o di ritorno dalla Terrasanta o dai ricchi mercati orientali.

Gli itinerari che dall’Occidente conducevano Oltremare, in particolare a Gerusalemme, hanno disegnato, nel corso del tempo, percorsi che sono insieme materiali, spirituali e culturali, un sistema di vie d’acqua e di terra che attraversano l’Europa e il Mediterraneo, al cui centro si trovano proprio la Puglia e le Isole Ionie, con i loro approdi e luoghi santi.

L’itinerario che ci accingiamo a percorrere lungo il tratto meridionale della Via Francigena non è solo un cammino di fede, ma il percorso di una delle principali rotte della cultura mediterranea; seguendola potremo scoprire come natura, storia e patrimonio artistico concorrono a rendere questo viaggio non un viaggio, ma tanti viaggi, come scrisse Cesare Brandi, raffinato viaggiatore, letterato, storico dell’arte, che con i pellegrini del passato, ci accompagnerà alla scoperta di queste terre.

Consigliamo al viaggiatore di iniziare il proprio cammino, come facevano i pellegrini medievali, in primavera, come scrive il celebre poeta inglese del XIV secolo Geoffrey Chauser, nel prologo dei Canterbury Tales:

San Marino, California, Huntington Library, The Ellesmere Chaucer
(MS EL 26 C 9) Ritratto di G. Chauser in veste di pellegrino, XV sec.
Quando pioggia d’aprile ha penetrata

l’aridità di marzo e impregnata

ogni radice e vena dell’umore

la cui virtù ravviva ogni foglia e fiore;

e in folto di brughiere e boschi spogli

Zeffiro ingemma teneri germogli

con mite soffio, e metà del corso

il sole nell’Ariete ha già percorso,

e quando gli uccelletti fan concerto

e tengono di notte l’occhio aperto,

così com’essi loro natura inclina,

[…] allor la gente viaggia pellegrina

e vanno a santuari, quei palmieri, in lidi anche remoti e forestieri […]

Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, Prologo

La Puglia, una lunga fascia di terra, incastonata tra l’Appennino e l’Adriatico, con i suoi 400 km di territori che alternano paesaggi e architetture straordinariamente diversificate e con 800 km di coste balneabili, è attraversata da un reticolo di vie che intersecano il tracciato principale della via Francigena del sud.

Tratto pugliese della via Appia e Appia-Traina, chiamata durante il Medioevo via Francigena del Sud. –pubblico dominio-
Canosa, Mausoleo di Boemondo

Il nostro itinerario inizierà percorrendo una di queste strade, quella che da Canosa portava i viaggiatori sino alla litoranea adriatica. Raggiungeremo la costa e faremo tappa a Molfetta per procedere in direzione di Bari, città famosa per la presenza del santuario di San Nicola. Infine, prima di imbarcarci alla volta della Grecia, ci concederemo una piccola deviazione, come facevano i pellegrini medievali che raggiungevano la costa pugliese dalla via per compendium, che collegava Taranto a Brindisi. Questo percorso, segnalato fin dagli itinerari più antichi, ci permetterà di visitare i santuari rupestri che sorgono lungo le gravine che caratterizzano questa zona.

Prima ancora del patrimonio artistico e delle emergenze monumentali, i pellegrini del passato e i viaggiatori moderni sono colpiti dalla bellezza naturale di questa terra, così la dipinge Cesare Brandi nel suo celebre libro di viaggio Pellegrino di Puglia del 1960:

La Puglia è un meraviglioso, austero, paese arcaico. L’unico dove si assiste ancora allo spettacolo incontaminato, e per interminabili distese, di una flora anteriore alla calata degli indeuropei: solo ulivi e viti, viti e ulivi, le piante che nel nome, tenacemente conservato e trasmesso, rivelano ancora di essere state trovate sul posto dagli invasori ariani. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Come il nostro raffinato viandante del XX secolo, molti pellegrini medievali riservano parole di ammirazione per il paesaggio pugliese. Due colti nobiluomini fiamminghi, Giovanni e Anselmo Adorno, di ritorno dalla Terrasanta approdano in questa regione nel XV secolo, nel loro affascinante diario di viaggio scrivono di non avere mai visto una terra altrettanto fertile, né boschi di ulivi altrettanto belli:

La Puglia o Apulia […] credo che sia la più fertile al mondo per la produzione di olio e di grano. Produce in abbondanza anche dell’eccellente vino, […] ci sono boschi di ulivi, che è piacevole attraversare. È possibile altrove, come in Siria, in Barberia, vedere boschi di ulivi, tuttavia questi ci sono sembrati più piacevoli a guardarli e più grandi. (A. Adorno, Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte)

Il verde dell’ulivo e della vite, il giallo oro del grano ci accompagneranno lungo il nostro cammino su quella strada che, tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, diverrà l’itinerario terrestre privilegiato non solo dai pellegrini, ma anche dai crociati che dovevano imbarcarsi verso la Terrasanta. Uno di questi crociati fu il principe Boemondo che amò sinceramente la Puglia, in particolare la città di Canosa, prima tappa di questo nostro itinerario.

Già importante centro di età romana, grazie alla vicinanza al fiume Ofanto e alla sua posizione strategica di raccordo fra le strade che provenivano dagli Appennini e la Puglia, divenne centro del potere normanno e sede di una prestigiosa diocesi. Proprio in questa cittadina possiamo visitare il mausoleo, dalle forme ispirate a quelle del Santo Sepolcro di Gerusalemme e all’architettura islamica, che fece costruire lo stesso Boemondo, a fianco della Cattedrale (La Cattedrale Di Canosa).

Il principe normanno, figlio di Roberto il Guiscardo, aveva partecipato alla conquista di Antiochia di cui divenne signore, condusse una vita avventurosa, ricca di amori, rapimenti e conquiste che lo trattennero molti anni in Oriente prima di rientrare in Puglia.

Canosa, Mausoleo di Boemondo (foto di “File:Paolo Monti – Servizio fotografico (Canosa di Puglia, 1970) – BEIC 6358124.jpg” by Federico Leva (BEIC) is licensed under CC BY-SA 4.0 )

Duomo di Molfetta e molo

Lasciamo che sia Cesare Brandi, il cui pellegrinaggio letterario e artistico ha fatto tappa a Canosa, a raccontarci qualcosa di più sul principe e a guidarci nella conoscenza di questo insolito monumento del XII secolo dalle pareti marmoree, decorate esternamente dal leggero scorrere di arcate cieche, e che, più che una tomba monumentale, sembra un prezioso scrigno o un reliquiario, come quelli che i pellegrini riportavano in patria dall’Oriente.

Come s’arriva là davanti, e sembra un cofanetto d’avorio, si penserebbe piuttosto alla cappella privata o alla tomba di una possente gentildonna sul tipo di Galla Placidia o a un marabutto arabo, mai al ricettacolo del più straordinario personaggio della Prima Crociata, a quel colosso di nome e di fatto che fu Boemondo, il figlio di Roberto il Guiscardo. Orlando fra i Paladini, e, nella Prima Crociata, Goffredo di Buglione e Tancredi, sono riusciti a sopravvivere per merito della Poesia. A Boemondo che, al suo tempo, fu di tutti il più famoso, non è toccata uguale sorte […] Boemondo è mezzo eroe e mezzo farabutto, e come farabutto riesce ad innalzarsi fino all’eroe: resta sempre il figlio di quella malaugurata razza di avventurieri senza un soldo a cui aveva appartenuto suo padre. Se la leggenda o la poesia l’avessero passato al filtro, a quest’ora, il bello scrigno marmoreo sarebbe famoso al mondo, e il nome di Canosa suonerebbe almeno come quello di Roncisvalle […]. Orlando sembra d’averlo conosciuto come una persona morta presto e di cui tutti in famiglia dicevano bene, con Tancredi siamo andati a scuola[…], questo Boemondo, cinico, traditore, insaziabile, ma nato capo con i capelli biondi, Boemondo non si arriva a vederlo. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Consigliamo al viaggiatore di visitare il suggestivo tempietto che la leggenda vuole conservi le spoglie di Boemondo; potrà ammirare la bella porta bronzea a due valve impreziosita da motivi decorativi di chiara origine islamica. Sul battente sinistro rimane leggibile parte di un’iscrizione celebrativa in onore del principe crociato: non hominem possum dicere, nolo deum. (non posso dirlo uomo, ma neanche Dio.)

Lasciamo Boemondo e la città di Canosa per proseguire in direzione di Molfetta, che come altri centri costieri pugliesi fu un importante tramite fra Oriente e Occidente, quando il suo vasto porto divenne approdo di velieri crociati e galee veneziane, che oggi hanno lasciato posto ad una vivace e colorata flotta di pescherecci che ne anima la vita.

Nel mare Adriatico di questo pittoresco porto si specchia la cittadina pugliese con le sue mura:

[…] vecchie mura che ancora cingono, ammansite e utilizzate a case, sopra a cui scorre una strada anulare, la città vecchia, minuscola e complicatissima città. Ancora più che a un labirinto o a un meandro, fa pensare d’essere entrati in una serratura: né solo per quella porta che può simulare il foro della chiave. Le straducole strettissime e alte seguono un itinerario proprio, e non hanno mai un punto d’arrivo preciso, una piazza, una chiesa. Si direbbe, se quelle ci sono, che la costeggiano, vi arrivano per la tangente: cunicoli scavati nella pietra tenera e chiara su cui arrivano i riflessi del mare. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Il pellegrino che giungeva qui nel Medioevo aveva due importanti punti di riferimento devozionali che diventeranno anche le tappe del nostro cammino: il Duomo e il Santuario della Madonna dei Martiri.

Tra il blu dell’Adriatico e del cielo, lungo le mura medievali e proteso verso il mare, si staglia il Duomo di San Corrado (Duomo Di Molfetta). Il santo, cui è intitolata la bella chiesa molfettese, era un nobile pellegrino germanico, giunto in città al ritorno dalla Terrasanta. La presenza delle sue reliquie e la fama dei suoi miracoli accrebbero il flusso di devoti viaggiatori in cerca di grazia e l’importanza di Molfetta e della sua chiesa. Entriamoci guidati dalle parole di Cesare Brandi:

[…] impossibile evitare il tono solenne per questo solennissimo monumento tagliato nella pietra a spigoli vivi come una pietra preziosa, estratto dall’Armenia si direbbe, e posato sulla sponda di un porticciolo vero e attivo, pieno di barche e bragozzi, che si carica e si scarica di pesce alle sue ore. […] [I riflessi del mare] danzanti e capricciosi rappresentano il fascino saltuario, ma indimenticabile della Cattedrale, […]. Le tre cupole non sono meno splendide all’interno, quando il rivestimento prismatico, con angoli così aguzzi, le fa parere tende tartariche issate sul tetto della Cattedrale. Dopo San marco a Venezia, è forse la chiesa dagli spazi più misteriosi: quel senso aspirante o da incubatrice che hanno le tre cupole, la cui presenza è davvero inscindibile e talmente preparata dalle volte delle navate laterali, a mezza botte, rampanti, che sembrano spalle curve a sostenere il peso superiore o ben piuttosto il volo aereo di un volteggio. Così le cupole si issano scavalcando la chiesa. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Una volta usciti dalla chiesa, il viaggiatore non può negarsi l’esperienza di una passeggiata nel centro storico di questa cittadina adriatica così descritta dalla nostra guida letteraria Cesare Brandi:

[…] e si vien presi nelle volute, nei giri viziosi delle viuzze, che sembrano come i fili, ma sempre lo stesso, di un gomitolo, ci si sente consegnati a uno spazio volubile, a un percorso interno alle cose, che mai ci consentirà una libera uscita, o, pur così tangente al mare, una veduta sul mare con borghese panchina. Il percorso diviene allora una segreta dimensione di spazio che non è più nostro: ed è in questo, che lo sviluppo delle vie diviene come un brancolare a mosca cieca. Ma un brancolare luminoso che la pietra tenera e bianca, d’un bianco leggermente livido e rosato, come la pelle di chi sta sempre vestito, restituisce con quel saltellio di luci marine, screziate dalle onde robuste e rovinose che stanno per inghiottirsi, un morso alla volta, questa meravigliosa città vecchia di Molfetta. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Attraversato il centro storico, sull’altro sprone che delimita la bocca del porto, si intravede il Santuario della Madonna dei Martiri, con l’annesso ospedale, dove trovavano accoglienza e cure sia i crociati che i pellegrini diretti o di ritorno dalla Terrasanta. All’indomani della prima crociata, il Mezzogiorno accolse un gran numero di ospedali, strutture adibite alla sosta dei pellegrini, affidati alla gestione di Ospedalieri, Templari e Cavalieri Teutonici.

Il santuario molfettese sorse nel 1162 e, poco dopo, fu costruito anche l’ospedale (L’ospadale Dei Crociati ). Uno dei pochi rimasti pressoché intatti. Ancora oggi il viaggiatore potrà visitare i suoi ambienti a sviluppo longitudinale, divisi in tre navate di pari altezza da robusti pilastri cruciformi. L’edificio è voltato a botte parallele, scandite da archi trasversali a tutto sesto. L’ambiente è illuminato da una serie di monofore che si affacciano sul mare.

Lasciato l’Ospedale dei Crociati, come i viandanti del passato, consigliamo di visitare il Santuario molfettese della Madonna dei Martiri, dove si può ancora ammirare l’icona considerata miracolosa e dai poteri taumaturgici che, secondo la leggenda, proveniva dalla Terrasanta, portata in salvo dai crociati nel 1188, all’indomani della caduta di Gerusalemme. Si tratta dell’icona della Madonna dei Martiri, una tavola in realtà di dubbia datazione, fortemente ridipinta, ma verosimilmente risalente al XIV, che rappresenta il tipo iconografico della vergine affettuosa.

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Molfetta, icona della Madonna dei Martiri
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Basilica di San Nicola
(Foto di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=61405024)

Questo luogo non poteva lasciare indifferenti i pellegrini, sempre alla ricerca di un segno divino, e, per questo, in poco tempo, Molfetta da tappa di pellegrinaggio ne divenne meta. La fortuna del Santuario era legata a quella dell’icona per la sua fama di oggetto miracoloso.

Il pellegrino Anselmo Adorno nel suo diario di viaggio si dilunga nel racconto dei prodigi operati dalla venerata immagine:

La Chiesa Nostra Signora dei Martiri è situata ad un miglio da Molfetta sul mare; è grande e frequentato luogo di culto. Sono sepolti numerosi corpi di martiri: perciò è chiamata Nostra Signora dei Martiri. Si trova isolata sul litorale con alcune case di pertinenza della medesima chiesa. I preti che amministrano la chiesa abitano nelle case vicine e danno accoglienza ai pellegrini in caso di bisogno. In essa c’è l’immagine di Nostra Signora, che compie molti miracoli, così come leggiamo in chiesa. Stando all’interno abbiamo ascoltato un prete di Barletta raccontare uno dei grandi miracoli compiuti sulla nave dove si trovava.

Questa nave era andata dispersa nella tempesta. Spinti dal padrone che promise la metà del suo bastimento a Nostra Signora dei Martiri, coloro che si trovavano a bordo e che speravano di salvarsi fecero un voto alla Vergine. Compiuto il voto, la Vergine apparve loro sulla prua della nave. Apparve anche un giudeo coperto di lebbra, che si mise ad adorarla, che chiedeva di essere liberato dalla malattia e dal pericolo del mare e si dichiarò subito cristiano. E grazie a tutto questo la nave giunse nel porto di Corfù. La Beata Vergine fece in questo luogo altri miracoli. Per questo motivo annualmente confluiscono molti pellegrini. (A. Adorno, Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte)

Nel XV secolo il santuario era una meta molto frequentata dai pellegrini e, ieri come oggi, poteva accadere che, in luoghi così affollati, si potesse diventare vittime di piccoli o grandi furti come racconta fra’ Mariano da Siena nel 1431, di ritorno dal suo pellegrinaggio in Terrasanta e di passaggio nella città di Molfetta.

[…] e venimo a rinfrescarci a Morfetto.[…]

e visitammo S. Maria de’ Martiri , e mentre che noi eravamo in Chiesa , fu tolta la tasca con molte coselline, che valevano parecchi fiorini , a uno de’ nostri compagni . Questa Chiesa è cosa

di grande devozione […] (Mariano da Siena, Del viaggio in Terra Santa fatto e descritto da ser Mariano da Siena nel secolo XV)

Lasciamo Molfetta e, proseguendo lungo la litoranea adriatica, ci dirigiamo verso Bari, che per i pellegrini medievali non è solo una semplice tappa del loro faticoso cammino, ma è soprattutto la città dove sorge uno dei santuari più popolari della cristianità medievale. Si tratta della Basilica di San Nicola, chiesa che riveste un’enorme importanza nella storia stessa dell’identità civica di Bari. Pur non essendo la cattedrale cittadina, bensì una chiesa di pellegrinaggio, è sicuramente l’edificio sacro più caro ai baresi, e quello più frequentato, nel corso dei secoli, dai ‘viaggiatori di Dio’ .

Il cammino dei pellegrini giunti a Bari conduce alla Basilica dove riposano le spoglie del santo venuto dal mare. Questo luogo divenne l’ideale punto d’incontro delle grandi vie di terra e d’acqua che portavano o venivano da Gerusalemme e a Santiago di Compostela, mete estreme dei grandi itinerari del pellegrinaggio medievale.

Il viandante di ieri e di oggi vi arriva solo dopo essersi addentrato nel tessuto urbano della città vecchia. Scrive Brandi:

Quasi a picco sul mare […]. Dal mare viene la sua vita e la sua morte, i commerci e le flotte piratesche dei Saraceni. Da questa apertura che deve essere al tempo stesso chiusura nasce il carattere asserragliato della città vecchia, le strade come cunicoli e le ampie oscure volte che le scavalcano. […]. Sembra che, prima delle strade, sia stata fatta una costruzione tutta di massello, e poi forata da strani, industri litofagi. […]. Bari vecchia è l’aggregato arabo, e quando non è Gerusalemme, è Damasco: le volte hanno il senso del mercato coperto, che sia Bazar o Suk. E sono anche le volte di un paese che vuole deviare e rompere i venti gelidi che vengono da Settentrione, e ripararsi dal sole che, d’estate, ossia otto mesi l’anno, calcina gli occhi e le pietre. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

In questo dedalo di vie, dopo aver costeggiato il castello (Il Castello Svevo) e la cattedrale (La Cattedrale Di Bari), e aver percorso l’attuale Via delle Crociate, si raggiunge l’attuale via Palazzo di città, una strada il cui nome antico era Ruga Fragigena, cioè strada Francigena. Questa via, che taglia il centro storico e conduce finalmente nella piazza della Basilica di San Nicola (La Basilica Di San Nicola), fin dalla toponomastica, ci ricorda che stiamo percorrendo esattamente il tratto dell’antico itinerario europeo di pellegrinaggio che attraversava Bari, per permettere ai pellegrini di far visita al santuario nicolaiano, venerare le reliquie e ottenere la benedizione per proseguire in sicurezza il resto del cammino.

I pellegrini del passato, come suggeriamo di fare anche al viaggiatore che sta seguendo questo itinerario, cercavano di far coincidere il loro arrivo a Bari con il giorno in cui si celebra il santo Patrono in città, l’8 maggio. Attraverso i loro scritti è possibile scoprire usi e costumi di questa festa religiosa e popolare che, ancora oggi, continua ad attirare devoti e turisti.

Un viaggio nel viaggio a ritroso nell’immaginario devozionale che ha inizio proprio nella cripta della Basilica: vi si accede ancora tramite una scalinata posta sulla navata laterale che conduce il fedele in una dimensione mistica, dal sapore orientale e bizantino, grazie alla profusione di icone, lampade, arredi in metalli preziosi, tessuti e ricami che concorrono a rendere estremamente suggestiva la vista delle reliquie di San Nicola, qui conservate. Ne parla nel suo diario medievale Anselmo Adorno:

Le spoglie riposano in un’arca di marmo sotto il grande altare della cripta. La parte anteriore dell’altare è istoriata con immagini sbalzate in argento. Sempre sul fronte dell’altare c’è una porticina attraverso cui, da un foro che penetra all’interno del monumento, ove una lampada accesa pende da una catena d’argento, si distinguono le reliquie di S. Nicola. Da esse dicono che scaturisca un olio santo, ovvero un liquido con cui vengono unti occhi e fronti delle persone nelle festività solenni, così come fu nel tempo in cui noi fummo a Bari, cioè nel giorno di S. Nicola. (A. Adorno, Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte)

Sono moltissimi i pellegrini del passato che visitano il santuario per procurarsi un miracoloso liquido, chiamato manna, che si dice stilli ancora dal corpo del santo.

Flussi interrotti di pellegrini, provenienti sia da Oriente che da Occidente, hanno continuato nel corso dei secoli ad affollare la tomba del santo barese, alla fine dell’Ottocento ne scrive anche lo storico dell’arte francese Emile Bertaux:

[…] sin dai primi giorni di maggio, la città vecchia, che con i suoi vicoli tortuosi stringe le mura della basilica fortificata dai re angioini, si agita e trabocca. I visitatori hanno preso d’assalto la chiesa; si sono stabiliti nelle navate laterali e persino nelle cappelle; sono lì accampati, dormono, mangiano. […] Così scendono fin giù nella cripta, con la testa che batte sugli scalini, e quando si rialzano vacillanti, vedono al di sopra della buia folla, tra le colonne annerite, la volta rivestita d’argento, tutta rutilante di luci, e il massiccio altare d’argento, dove il corpo di San Nicola, nell’ombra, stilla una miracolosa manna. […]. È necessario che ogni famiglia porti via la sua bottiglia piena del misterioso liquido che stilla dalle ossa di San Nicola come da fonte inesauribile. (E. Bertaux, Sur les chemins des pèlerins et des émigrantes, 1897)

La città, ancora oggi, per ben tre giorni, 7-8-9 maggio, si veste a festa e si consegna interamente alle celebrazioni, tra sacro e profano, del suo Santo. Invitiamo il viaggiatore giunto sin qui, seguendo questo itinerario, a prendere idealmente parte alle festività o a programmare il viaggio in modo da potersi immergere nel clima festoso che si respira a Bari durante i giorni di San Nicola, come fece il ‘pellegrino di Puglia’ Cesare Brandi, che con le sue parole ci introduce nella dimensione folklorica, allegra e caotica che regna in città:

[…] per i festosi viali di Bari, archi di lampadine a non finire, che rientravano l’uno nell’altro, come cerchi concentrici di un tiro a segno. La strada, fitta di popolo a contatto di gomito – e del resto – sembrava ridotta a un palcoscenico in lieve pendenza. […]

Gli archi luminosi non erano le sole luci, sotto le stelle compiacenti, della vigilia della festa: non potevano mancare i fuochi, quest’altro costoso lusso del Meridione, dei poveri che si danno allo scialo. E in quanto allo scialo, per San Nicola, i Baresi si sprecano. […] Si comincia, appunto, dalla sera della vigilia [il 7 maggio], quando una tremolante caravella a ruote, fra nubi di fumo e modeste crepitanti torce di fuoco greco, con un’immagine di San Nicola a bordo e alcuni vecchietti in costume da Cena delle beffe, passa tra la folla della città fino a trascorrere sotto gli archi luminosi. Questa rievocazione del famigerato furto perpetrato dai Baresi a Mira, in gara nobilissima coi Veneziani, è dunque una specie di Sacra Rappresentazione, senza preti e senza canti, dove la voce è messa solo dai botti dei fuochi d’artificio, […]. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

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Bari Vecchia, luminarie per la festa di San Nicola
(foto di just_jeanette is licensed under CC BY-NC-SA 2.0 )
Bari, la statua di San Nicola portata in processione a mare.
(Foto di daromeo76 is licensed under CC BY-ND 2.0 )

I festeggiamenti continuano il giorno successivo, l’8 maggio, «quando – continua Brandi – il Santo va in mare, sotto un sole, che, se anche è maggio, è già piena estate, in un cielo che è chiaro come in Africa», a bordo di un peschereccio che vuole ricordare il legame della città con il mare e l’arrivo, proprio da quel mare, delle reliquie di San Nicola, trafugate nell’XI secolo da Myra, in Turchia, da un gruppo di marinai baresi.

Scrive ancora Brandi:

Il Santo va in mare, vestito, sulla statua d’argento, di paramenti d’oro e circondato, invece che da torce e flabelli, da mazzi di fiori nuziali – garofani bianchi e calle – montati su lunghe aste d’argento, come quelle che reggono i baldacchini. Il Vescovo in persona, che comanda la processione, getta allora un’ampolla con la manna di San Nicola. […] Il mare, allora, questo eterno ricetto materno, la Teti antica e dell’inconscio, alla fecondazione nuziale risponde con l’urlo subitaneo e lacerante, discorde fino a raggiungere il più implacabile salasso elettrico, di non so quante sirene, dalle navicelle, dai trabiccoli, dai motopescherecci, raccolti attorno al motopeschereccio del Santo, come le api intorno all’Ape regina. […] Ora la fecondazione è avvenuta, il santo si riposa, la gente dalla terra esulta, perché il patto col mare, la parentela indissolubile, è per il bene della terra. […] Il pubblico straboccante, meravigliosamente nero e rosso, brulicava sul lungomare, fitto come puntini di un quadro di Seurat. Finché il Santo rimane in mare, il brulichio non cesserà.

(C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Il giorno dopo, la statua di San Nicola torna nella sua bella Basilica romanica, e il viaggiatore potrà decidere se imbarcarsi immediatamente, sotto la protezione del Santo, o proseguire il viaggio in Puglia ancora per un po’, prima di prendere uno dei traghetti che regolarmente collegano il capoluogo pugliese con le Isole Ionie greche.

Molti pellegrini del passato sceglievano spesso di imbarcarsi da Brindisi percorrendo il tracciato della via Appia-Antica, in particolare la deviatio che collegava Taranto alla città salentina fu molto praticata durante tutto il Medioevo.

Il territorio circostante questo tratto stradale è caratterizzato dal paesaggio lunare e a tratti metafisico delle gravine e delle lame pugliesi, dove si sviluppò una particolarissima forma di civiltà, nota come civiltà rupestre (La Civiltà Rupestre In Puglia): interi villaggi, santuari ed eremi scavati nella roccia introdurranno il viaggiatore in una dimensione mistica, dal fascino discreto e completamente diverso da quello delle maestose basiliche romaniche che abbiamo lasciato lungo la costa. Tra Massafra, Mottola e Castellaneta, in provincia di Taranto, si snoda una fitta rete di strade, dove il cammino del pellegrino si incontra con quello millenario della transumanza.

La nostra guida letteraria, Cesare Brandi, alla ricerca, come noi, delle cripte rupestri, giunge a Mottola. Questo paese, ci ricorda lo scrittore, sorge:

su un’altura che non è un’altura, ma per le Puglie lo diventa: e si vede di lassù uno dei paesi più armoniosi che vi siano, con in fondo il mare. Armoniosa è infatti la discesa degli ulivi corvini, densi come gomitoli, nel pullulare del primo verde delle viti […] armoniosi grani fitti, arditi, rigidissimi, come capelli a spazzola, accanto ai ricciuti boccoli di verde opaco e gagliardo delle fave. Non mi stancavo di guardarlo, quel paese, così scoperto e largo e disteso, che il mare quasi pareva appena l’orice di tanta morbida bellezza.

Invece bisognò staccarsi dal panorama e andare in cerca delle cripte. Naturalmente qui ce n’era un visibilio, volendo: ma a me interessava soprattutto quella di San Nicola, e speravo che trovandosi in aperta campagna, bisognasse cercarsela a piedi […]. Non fui deluso. A un certo punto si arrivò all’antico convento ridotto ad abbazia, e lì la strada campestre finiva.

(C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Mottola, gravine

La chiesa rupestre di San Nicola, una tra le più belle tra le «Mirabili Grotte di Dio» (Charles Diehl), è stata oggetto per secoli della devozione non solo degli abitanti del luogo, ma anche dei crociati e dei pellegrini, di cui stiamo seguendo il cammino, che si recavano a Taranto e Brindisi per imbarcarsi verso la Terrasanta.

La chiesa si trova sul ciglio di una piccola gravina ed è possibile accedervi attraverso scale ricavate direttamente nella roccia.

Questo santuario ipogeo presenta una pianta di tipo cruciforme inscritto all’interno di aula quadrangolare, il cui spazio interno si articola in tre navate, suddivise unicamente da due soli massicci pilastri, secondo una tipologia diffusa anche in area siriaca a partire dal VI secolo. La parte presbiteriale della chiesa, denominata bema, isolata dal resto dell’ambiente interno, grazie alla presenza di un’iconostasi, è suddivisa in tre diverse celle, ognuna con il proprio altare. L’interno, quasi interamente affrescato, presenta uno dei cicli pittorici più interessanti per qualità e per stato di conservazione della Puglia, databile tra l’XI e il XIII secolo. Questo insediamento è stato definito la Cappella Sistina della civiltà rupestre meridionale.

Al nostro viaggiatore, dopo questa deviazione, non rimane che proseguire il suo itinerario imbarcandosi su un traghetto per raggiungere le Isole Ionie, tappa di passaggio quasi obbligata per quanti, durante il Medioevo, navigavano in direzione dell’Oriente o della Terrasanta.

Non per tutti i viaggiatori il momento della partenza era un momento piacevole, soprattutto se a lasciare le coste pugliesi erano i cosiddetti pellegrini armati, cioè i crociati. Il poeta medievale tedesco Tannhäuser, crociato controvoglia, al seguito di Federico II nel 1228, rimpiange in una lirica le gioie che si sta lasciando alle spalle, abbandonando la bella terra di Puglia. I suoi versi ci permettono di tornare indietro nel tempo e immaginare quanto dovesse essere piacevole la vita di dame e cavalieri nelle residenze imperiali della regione. Nella cornice del paesaggio pugliese incontri galanti, tornei e battute di caccia rallegrano le giornate di chi, al contrario del poeta, non è costretto a partire.

Codex Manesse, MSC, Cod. Pal. germ. 848 Heidelberg, Universitätsbibliothek –pubblico dominio-
Codex Manesse, MSC, Cod. Pal. germ. 848 Heidelberg, Universitätsbibliothek –pubblico dominio-
Beato colui che ora può cacciare con il falcone sui campi di Puglia! […]

alcuni vanno alle fonti, gli altri cavalcano guardando il paesaggio ‒ questa gioia mi è tolta ‒ quelli caracollano accanto alle dame […]

io non caccio all'arco con i cani, io non uccello con i falconi, […], e nessuno mi può rimproverare di portare corone di rose […]

neanche mi si può attendere dove cresce il verde trifoglio, né cercare nei giardini accanto alle belle giovani […]

io fluttuo sul mare.

(Tannhäuser, in A. Martellotti, Il viaggio controvoglia del crociato Tannhäuser)

Corfù, baia di Kassiopi

(foto di Bejo, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3086242)

E fluttuando dalla costa adriatica si raggiungono Itaca, Cefalonia e Corfù, dove, per coloro che volevano proseguire il viaggio, attendeva minaccioso lo stretto di Butrinto, con le sue pericolose correnti. I pellegrini o i mercanti che passavano da queste parti preferivano sostare nel riparo naturale offerto dalla baia di Kassiopi, nella parte settentrionale dell’isola di Corfù. Il viaggiatore potrà oggi visitare questo grazioso villaggio di pescatori, le cui origini risalgono ai tempi romani, e potrà conoscerne la storia, scoprendone l’immaginario letterario, tramandato dai diari di pellegrinaggio che ci raccontano di draghi, lampade magiche, eremi, cappelle e di icone miracolose, come quella di cui si conserva ancora un lontano ricordo nella chiesetta della Vergine di Casopoli, protettrice di naviganti e viaggiatori.

I pellegrini medievali narrano che un tempo Kassiopi era una potente città, adesso del tutto deserta a causa di un drago che si era accanito contro la popolazione, dedita anticamente a pratiche sodomitiche. I marinai e i pellegrini iniziarono a frequentare assiduamente una cappellina perennemente illuminata da una lampada. L’olio prodigioso della lampada si diceva che guarisse da ogni febbre. Con il tempo si diffuse anche la leggenda della presenza, in questa cappella, di un’icona miracolosa della Vergine dipinta dall’evangelista San Luca, icona nota come la Vergine di Casopoli. (M. Bacci, Portolano sacro. Santuari e immagini sacre lungo le rotte di navigazione del mediterraneo tra tardo medioevo e prima età moderna)

La cappella, così famosa nel passato, subì gravi danneggiamenti nel corso del XVI secolo, a causa delle incursioni berbere, ma fu prontamente ricostruita dai Veneziani nel 1590. L’immagine considerata miracolosa è oggi scomparsa, ma è stata sostituita da un’icona votiva del XVII secolo che ne riproduce l’aspetto, ed è ancora oggi oggetto di devozione.

Ne parla, tra gli altri, il diario di viaggio del Marchese Nicolò d’Este, redatto dal fedele cancelliere Luchino dal Campo agli inizi del XV secolo. Così scrive:

Et andando il Signore al suo viaggio, la sira andò alla isola di Corfù, in uno porto chiamato Nostra Dona da Casopoli. E qui, gittato ferro e la barcha all’acqua, andò in terra a la giexia di Nostra Donna , ove li è una lampada denanti alla sua figura, la quale sempre arde e sempre sta piena di olio, ní mai se ne mette guzzo di olio; et fu dato de un certo legno bagnato del dicto olio a tucta la compagnia da uno calogiero che sta lì, e disse esser bono de guarir ogni febre. E, visitato questa figura la qual fa miracoli, andorono a vedere uno castello chiamato Casopoli, molto bello ma disabitato per uno serpente il quale habitava lì e avelenava tucto il paexe. (Luchino dal Campo, Viaggio del Marchese Nicolò d’Este al Santo Sepolcro, 1413)

Kassiopi, Cappella della Vergine di Casopoli, interno.

Il castello, di cui parlano i viaggiatori e i pellegrini medievali, è ancora oggi visitabile. Dalla via principale del villaggio parte una strada che s’inerpica su un’altura che domina la baia. In cima, in parte avvolte dalla vegetazione, si trovano le rovine di quella che originariamente era una fortificazione bizantina. Il castello fu conquistato nell’XI secolo da un personaggio che abbiamo già conosciuto lungo il nostro itinerario durante la tappa a Canosa, il principe Boemondo. La dominazione normanna di Corfù non durò troppo a lungo e il maniero passò nuovamente in mano agli imperatori bizantini sino all’arrivo degli Angioini nel 1266. Infine, il forte fu distrutto dai Veneziani nel XIV secolo, quando si impadronirono dell’isola. Fu solo agli inizi del XVIII secolo che, per arginare le incursioni ottomane, essi decisero di ricostruire il castello.

Il nostro pellegrinaggio alla ricerca della bellezza e alla scoperta di monumenti medievali, di storie e leggende, nate lungo le strade che abbiamo percorso e intimamente legate all’identità dei luoghi attraversati, si conclude su quest’isola, su questa rocca da cui è possibile dominare con lo sguardo lo stretto di Corfù, nella convinzione che la fine di questo viaggio possa diventare l’inizio di un nuovo itinerario o di un nuovo racconto.

Rovine del castello di Kassiopi
(By Dr.K., CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68635379)
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Di Lorentzo Mavilis

Author: Mavilis, Lorentzos Mavilis

Date of Birth: 1860, Ithaca

Gender: Maschio

Biografia: Lorenzos Mavilis è nato il 6 settembre 1860 a Itaca, dove suo padre, Pavlos Mavilis, di origini spagnole, è stato giudice. Sua madre, Ioanna Soufi, era una nipote del governatore Ioannis Kapodistrias. Mavilis terminò gli studi alle superiori a Corfù e studiò per un anno (1877-1878) presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Atene.

Leggi di più “Di Lorentzo Mavilis” →

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Di Aristotelis Valaoritis

Autore: Valaoritis, Aristotelis Valaoritis

Data di nascita: 1824, Lefkada

Genere: Maschio

Biografia: Aristotelis Valaoritis nacque a Lefkada nel 1824, figlio primogenito del senatore John Valaoritis e della nobildonna kefalina Anastasia della famiglia Tipaldus-Forrest. Visse a Lefkada fino alla sua infanzia nel 1838, quando si stabilì a Corfù per studiare all’Accademia Ionica come stagista con l’ellenista I. Economidis. Leggi di più “Di Aristotelis Valaoritis” →

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Di Jakovos Polylas

 

Autore: Polylas, Jakovos Polylas

Data di nascita: 1825, Corfù  

Genere: Maschile

Biografia: Jakovos Polylas è nato a Corfù nel 1825, figlio del laywer e studioso George Polylas ed Helen, figlio di Nicholas Voulgaris. Jakovos Polylas proveniva da un’importante famiglia di Corfù, ma le sue origini risalgono a Konstantinopolis. Leggi di più “Di Jakovos Polylas” →

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Di Andrea Kalvo

Autore: Kalvos, Andreas Kalvos

Data di nascita: Aprile 1792, Zante

Sesso: Maschio

Biografia: Andreas Kalvos è nato a Zante, il primo figlio del medico di Corfù Ioannis Calvos e la nobildonna di Zante Adrian Roukani. Dopo la rottura dei suoi genitori, suo padre partì per l’Italia e il poeta partì nel 1802 con suo fratello minore Nicolas per vivere con lui. Kalvos da studente è stato il primo a Zante e ha continuato i suoi studi nella comunità greca a Livorno e Firenze, dove è diventato amico di Andreas Louriotis (1808). Leggi di più “Di Andrea Kalvo” →

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