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Itinerary

Itinerario per viaggiatori incantati

Bari, Alberobello, Massafra, Taranto.

[Tedesco] 

[Spagnolo] 

Pier Paolo Pasolini nel 1951 compie un viaggio in Puglia da dove scrive un reportage che verrà pubblicato lo stesso anno sulla testata romana «Il Quotidiano». Dagli appunti del viaggio, che portò lo scrittore da Bari sino al basso Salento, sarebbe dovuto nascere un progetto editoriale più articolato, rimasto incompiuto, dal titolo Le Puglie per il viaggiatore incantato.

In questo itinerario suggeriamo al viaggiatore di vestire i panni di un moderno e incantato flâneur e di addentrarsi per le vie delle cittadine pugliesi come fece Pier Paolo Pasolini, quando nel 1951 arrivò in treno a Bari, una città «sconosciuta, distesa contro il mare».

Pasolini, attraverso il camminare, quasi raccogliendo l’eredità di Walter Benjamin – raffinatissimo viaggiatore incantato di città – si fa insieme archeologo, giornalista, regista capace di catturare scorci e punti di vista, sociologo attento a cogliere i segni della modernità e le tracce del passato che nelle città convivono.

Il flâneur Pasolini ha la capacità di leggere la città e trasformarla in racconto, come accade ne Le due Bari; riesce a far diventare poesia la luce, le pietre porose, le strade e i vicoli del borgo antico, come nella lirica Un biancore di calce viva, cattura immagini e inquadrature di Massafra e di altri centri pugliesi per trasformali nelle locations del suo capolavoro cinematografico Il Vangelo secondo Matteo.

Invitiamo dunque il nostro viaggiatore a praticare, seguendo i passi di Pasolini, la raffinata arte della flânerie, attraversando poeticamente le città pugliesi raccontate dal poeta, perdendovisi dentro per ascoltare le storie che possono narrare.

Il nostro viaggio inizia, come in un romanzo, in una stazione ferroviaria all’imbrunire, la stazione di una città di provincia che potrebbe essere uguale a tante altre, ma a dire di Pasolini, l’arrivo alla stazione di Bari è un’avventura kafkiana:

Kafka, ci vuole Kafka. Scendere dal rapido, non potere entrare in città né avanzare di un passo fuori dal viale della stazione, può accadere solo al personaggio di un’avventura kafkiana […], io ero rimasto solo, a tremare, nel piazzale rosso, verde, giallo della stazione: in me lottavano ancora la seduzione dell’avventura e un ultimo residuo di prudenza. (P. P. Pasolini, Le due Bari)

La sensazione di smarrimento provata dal poeta è la stessa che prova il viaggiatore che, arrivato alla stazione centrale del capoluogo pugliese, vede aprirsi davanti a sé un reticolato ortogonale a scacchiera di strade, frutto del progetto di restyling urbanistico del XIX secolo promosso da Gioacchino Murat. La nuova Bari, sviluppatasi fuori dalle sue vecchie mura medievali, secondo i canoni estetici ottocenteschi delle moderne città europee, è un susseguirsi ordinato di strade e viali che disegnano una maglia geometrica totalmente estranea e quasi giustapposta alla disordinata trama mediterranea di vicoli e vicoletti che caratterizzano la città vecchia.

Conviene imboccare una strada a caso, come fece Pasolini: «così senza aver deciso nulla, scelsi una strada, una delle tante, piena di scritte luminose e mi incamminai».

Il viaggiatore si troverà in una delle tante vie borghesi del centro murattiano: grandi strade che sembrano «boulevards o avenidas» dove «si sente sospesa l’euforia del progresso di questa città che in pochi anni, rotti i legami che imprigionavano i pugliesi con tutti i meridionali a un difficoltoso complesso, ha raggiunto il livello delle città del Nord meno vocate al silenzio». (P. P. Pasolini, Le due Bari)

Bari, stazione centrale
(Foto Di Haragayato – Photo taken by Haragayato using a FinePix40i, and edited., CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=909819)

Bari, Palazzo Atti, foto d’epoca.

Pasolini imbocca Corso Cavour, una strada costeggiata da aiuole e alberi oramai storici, soprattutto lecci che, nelle giornate estive, offrono riparo dall’afa e rendono piacevole la ‘passeggiata’ lungo questo viale movimentato da un’esuberante vita sociale e commerciale. Scrive Pasolini:

[…] quei salumai, droghieri, farmacisti e macellai aperti alle dieci di sera, e tutta quella luce vuota, sui passanti spinti qua e là in disordine come da un vento di periferia e i gridi dei ragazzi, superstiti nell’alta serata», che catturarono l’attenzione e la curiosità di Pasolini, oggi hanno lasciato il posto a negozi alla moda, gelaterie e ristoranti; permane identico l’andirivieni disordinato della gente e dei giovani che popolano questa strada e le vicine di quella «risonante allegria» di cui «è piena questa città. (P. P. Pasolini, Le due Bari)

In Corso Cavour si trovano alcuni dei più bei edifici della città nuova: il teatro Petruzzelli, Palazzo Atti, i monumentali palazzi della Banca d’Italia e della Camera di Commercio.

Percorrendo interamente questa strada in direzione nord si arriva al mare, qui, a conclusione scenografica del viale, si staglia, nelle sue eleganti forme liberty, il Teatro Margherita, oggi Polo delle arti contemporanee, prestigiosa sede di mostre ed esposizioni d’arte internazionali.

Bari, Teatro Petruzzelli

Nella Bari di Pasolini e del viaggiatore il mare adriatico è una presenza costante e si rivela nel suo splendore soprattutto la mattina:

Alzato il sipario del buio, la città compare in tutta la sua felicità adriatica.

Senti il mare, il mare, in fondo agli incroci perpendicolari delle strade di questa Torino adolescente: un mare generoso, un dono, non sai se di bellezza o di ricchezza. Davanti al lungomare (splendido), sotto l’orizzonte purissimo, una folla di piccole barche piene di ragazzi (i ragazzi baresi alti e biondi, coi calzoni ostinatamente corti sulla coscia rotonda, la pelle intensa, solidi) si lascia dondolare nel tepore della maretta. Nella luce stupita si incrociano i gridi dei giovani pescatori: e senti che sono gridi di soddisfazione, che il mare dietro la rotonda è colmo di pesciolini trepidi e dorati. E mentre il mare fruscia e ribolle, senti dietro di te con che gioia la città riprende a vivere la nuova mattina! (P. P. Pasolini, Le due Bari)

Consigliamo dunque di percorrere il Lungomare cittadino di mattina, quando i colori del cielo e del mare si riflettono l’uno nell’altro. Partendo dal teatro Margherita si procede in direzione sud verso la spiaggia cittadina chiamata Pane e Pomodoro. Il mare è sempre accanto al viaggiatore, fiancheggiato da un ritmico susseguirsi di lampioni di ghisa che lascia intravedere le forme della città, con le sue silhouette perfettamente riconoscibili, dal campanile della Cattedrale sino ai monumentali edifici fascisti.

Bari, Lungomare
(foto di Podollo at it.wikipedia, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3689140)

A poca distanza da Piazza IV Novembre, si apre l’antico bacino portuale di Bari che nella parlata dialettale è chiamato ‘’nderre alle lanze’, cioè a terra delle lance, con riferimento all’approdo delle piccole e tipiche barche dei pescatori che, ancora oggi, non sono troppo diverse da quelle che incantarono Pasolini. Qui il viaggiatore potrà assistere, come capitò al poeta, al colorato rito laico che si consuma ogni mattina: la vendita del pescato su bancarelle spesso improvvisate, la lavorazione dei polpi e le degustazioni di molluschi crudi prese d’assolto da turisti e cittadini.

Come un polpo

Come un polpo sbattuto ancora vivo contro lo scoglio 
si arricciolavano i miei pensieri 
a Bari fra le barche verdi e gli inviti 
favolosi dei venditori 
di quella iridescente pena; ma io 
non avevo che una moneta 
d’impazienza e di notte, 
una moneta nera dei paesi 
dell’interno, che soffoca le case 
fra orizzonti di corda su cui oscilla 
la tarantola – un’altra pena; e tu un’altra, 
quando dicesti: la pietà è più forte 
dell’amore. Più rapida è volata
che il mio odio la mano sulla tua guancia.

Vittorio Bodini (Bari, 1914-Roma, 1970)

Continuando la nostra passeggiata in direzione sud, la città sembra subire una metamorfosi, gli eleganti edifici di gusto liberty e i colori vivaci del porticciolo cedono il passo all’ostentata monumentalità dell’architettura fascista che, negli anni ’20 e῾30 del Novecento, ridisegnò questo tratto della costa barese. Quasi come una cortina, questi edifici, dal grande valore architettonico, nascondevano la realtà urbana retrostante, fatta invece dalle fatiscenti ed economiche costruzioni dei quartieri popolari, che ancora oggi si distendono alle spalle del Lungomare.

A conclusione della passeggiata, consigliamo al viaggiatore una visita alla Pinacoteca Provinciale Corrado Giaquinto che ha sede all’ultimo piano dell’ex Palazzo della Provincia, oggi sede della Città Metropolitana di Bari. Si tratta di uno degli edifici più rappresentativi dell’architettura barese del periodo fascista, caratterizzato dall’eclettica ripresa, in chiave monumentale, di elementi della tradizione civico-rinascimentale italiana e classico-romana. Lungo le sedici sale del museo cittadino si snoda un interessante percorso di arte meridionale che va dal Medioevo al Novecento. 

Passeggiando per la città, sarà facile apprezzare l’allegria dei baresi. Pasolini rimane affascinato dal carattere solare e spensierato di questa città adriatica e dei suoi abitanti:

[…] i baresi si divertono a vivere: ci si impegnano col cuor leggero, e col cuor leggero vanno discutendo di affari per le strade, prendendo il caffè, si recano a lavoro, senza avere nemmeno il sospetto che questo non rappresenti una piacevole avventura. […] E l’allegria dei baresi è seria, sicura e salubre: su queste teste solide il delicato biondo veneziano dei capelli (che è la carezza dell’Adriatico), perde in languore e acquista in chiarezza. Qui tutto è chiaro: anche la città vecchia, dalla chiesa di San Nicola al castello svevo, pare perennemente pulita e purificata, se non sempre dall’acqua, dalla luce stupenda. (P. P. Pasolini, Le due Bari)

Bari, veduta sul molo vecchio
(foto di Battlelight di Wikipedia in italiano, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48156362)
Bari, Lungomare, Palazzo della Provincia, sede della Pinacoteca Corrado Giaquinto.
(foto di Sailko – Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=58914990)
Bari, basilica di San Nicola
(foto di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=61405024)

In compagnia di Pasolini siamo giunti fin sulla soglia del borgo antico, dove finisce l’avventura kafkiana del poeta, ma non il nostro viaggio. Nel 1964 Pasolini dedicherà intensi versi a Bari vecchia e noi lasceremo alla parola poetica il compito di guidarci per questi vicoli:

Un biancore di calce viva, alto,

– imbiancamento dopo una pestilenza

– che vuol dir quindi salute, e gioiosi

mattini, formicolanti meriggi – è il sole

che mette pasta di luce sulla pasta dell’ombra viva, alonando, in fili

di bianchezza suprema, o coprendo

di bianco ardente il bianco ardente

d’una parete porosa come la pasta del pane

superficie di un medioevo popolare

– Bari vecchia, un alto villaggio

sul mare malato di troppa pace –

un bianco ch’è privilegio e marchio

di umili – eccoli, che, come miseri arabi,

abitanti di antiche ardenti Subtopie,

empiono fondachi di figli, vicoli di nipoti,

interni di stracci, porte di calce viva,

pertugi di tende e di merletto, lastricati

d’acqua odorosi di pesce e piscio

– tutto è pronto per me – ma manca qualcosa.

(P. P. Pasolini, Un biancore di calce viva, in Poesie in forma di rosa)

Bari vecchia, vicolo che conduce alla Cattedrale
(foto di La Marga from Italy – Bari, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3690771)

Appena si entra a Bari vecchia si ha l’impressione di essere entrati in un bianco labirinto di vie e viuzze esaltate dalla luce del sole, in un dedalo di case e bianche chianche che si avviluppano su se stesse, in una città viva popolata – come scrisse Pasolini – da umili, miseri arabi, tanti figli e nipoti.

Per conoscere meglio la vera Bari vecchia, possiamo provare a seguire dei percorsi secondari alla ricerca delle storie e delle leggende custodite nei vicoli del borgo, poiché come dice Marco Polo, ne Le città invisibili di Calvino, per descrivere una città non è sufficiente parlare delle sue architetture e del suo aspetto.

Invitiamo il viaggiatore ad addentrarsi in una stradina molto caratteristica, strada Meraviglia, dove si trova un balcone costruito sopra un bell’arco cinquecentesco su cui è nata una romantica leggenda.

Si dice che l’arco fu costruito in una sola notte per permettere a due giovani amanti, che abitavano l’uno di fronte all’altro, di incontrarsi furtivamente e di amarsi sino all’alba, contro il volere della famiglia della fanciulla. La storia dei Romeo e Giulietta baresi ha reso popolare questo angolo di Bari, frequentato da giovani coppie e turisti romantici. In realtà la storia del balcone ‘galeotto’ sembra essere diversa. L’arco è una soluzione architettonica molto comune a Bari vecchia, se ne contano almeno cinquanta, in gran parte realizzati per creare piccoli passaggi tra i vicoli della città. Quello in strada Meraviglia fu costruito su una precedente struttura duecentesca, per volere della nobile famiglia Meravigli o Meraviglia, giunta a Bari al seguito della regina Isabella d’Aragona, per collegare due palazzi di sua proprietà.

 

Bari vecchia, Arco Meraviglia

 

Bari, cape du turk.

Il nostro itinerario alla scoperta delle storie della città vecchia porta il “viaggiatore incantato” in un vicolo, chiamato strada Quercia, poco lontano dal Castello Svevo. Al numero dieci, infissa sotto un balcone, si trova una piccola scultura, una testa di moro, nota alla popolazione locale come la cepe du turk. Si tratta di una maschera apotropaica che raffigura una testa mozzata, con i capelli raccolti in un turbante, baffi e uno sguardo vagamente allucinato. Nonostante si tratti di un motivo decorativo molto comune nell’arte pugliese, che compare frequentemente tra i capitelli delle cattedrali e dei castelli, nei portali scolpiti delle basiliche e in numerosi arredi liturgici, su questa piccola scultura di Bari vecchia è fiorita una macabra leggenda, ambientata nel periodo storico in cui in città governavano gli arabi.

Vuole la tradizione che la testa mozzata sia quella dell’emiro Muffarag che resse Bari tra l’853 e l’856 e che provò a convertire i baresi all’islam. Si racconta che la notte del 5 gennaio, per mostrare il proprio valore, decise di affrontare una strega, creatura leggendaria dell’immaginario folklorico pugliese: la temuta Befanì. Essa aveva l’abitudine di aggirarsi la notte della vigilia dell’Epifania, marcando le porte delle case di coloro che erano prossimi alla morte e decapitava chiunque incrociasse il suo cammino. Proprio questa fu la sorte dello sfortunato emiro, la cui testa rimase pietrificata e infissa nel luogo dell’accaduto.

Lasciamo alle nostre spalle questo vicolo e la sua leggenda per scoprire, in compagnia di Pasolini, uno degli aspetti più caratteristici della città vecchia e della sua gente «che vive molto all’aperto seduta sulle soglie della casa».

La vita nel borgo antico, infatti, si svolge sulla strada e, quasi sempre, le porte delle case sono aperte. Le bianche strade, profumate di detersivo, ospitano salottini improvvisati, piccoli banchi di lavoro artigianale, bancarelle e vere e proprie piccole cucine. Il vicolo che si apre oltrepassato Arco Basso, nelle immediate vicinanze di Piazza Federico II, ribattezzato recentemente strada delle orecchiette oggi è diventato un’attrazione turistica. Lungo questa strada, signore baresi, sedute una accanto all’altra, sull’uscio di casa, preparano ogni giorno la pasta tipica locale.

Non solo il cibo si prepara e a volte si consuma per strada, ma a Bari vecchia i bambini giocano ancora all’aperto, non è raro imbattersi in comitive di ragazzini che improvvisano partite di calcio nelle piazze lastricate e tra i vicoli cittadini.

Orecchiette baresi
Bari, Madonna del Buon Consiglio
foto di wykah is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

Ci piace immaginare che un grande amante del calcio come Pasolini, che partecipava sempre volentieri a partitelle improvvisate per strada, come racconta l’intimo amico Ninetto Davoli, si sarebbe divertito a giocare nella piazza di Santa Maria del Buon Consiglio, dove, fino a qualche decennio fa, bande di ragazzini gareggiavano e palleggiavano tra i resti di una basilica del X secolo, driblando colonne romane.

Questa piazza, dove si dice che anche il calciatore Antonio Cassano, da bambino, si sia allenato, si trova all’estremità della penisola sui cui sorge Bari vecchia, quasi nascosta tra le strade del borgo.

Il viaggiatore, scendendo qualche gradino, per colmare il dislivello di quota con il piano stradale, realizzerà di non trovarsi in una vera piazza, ma di stare percorrendo la navata di una basilica del X secolo, rimasta priva della sua copertura e delle murature laterali. Questo spazio è impreziosito dalla presenza di bellissime colonne di marmo, sormontate da capitelli decorati con motivi vegetali, allineate su file parallele e poggianti su un basamento che tradisce la presenza di antichi mosaici.

Anche questa chiesa ha una storia antica da raccontare e, infondo, poco importa se sia una storia vera o una leggenda. Si tramanda di un sanguinoso scontro, avvenuto nell’anno 946, tra i nobili bizantini e il popolo. Si narra che i baresi riunitisi nella chiesa, che al tempo si chiamava S. Maria del Popolo, orchestrarono un agguato affinché avesse fine l’odiosa consuetudine che legittimava i signori a esercitare lo jus primae noctis con le novelle spose. Il piano andò a buon fine e numerosi nobili trovarono la morte. Fu allora che i bizantini in città rinunciarono ad ‘accompagnare’ – come si usava dire – le fanciulle appena sposate a casa. Da quel momento la chiesa cambiò la sua intitolazione, in ricordo della decisione presa proprio tra le sue mura, diventando per i baresi la Madonna del Buon Consiglio.

Con le sue storie e leggende, lasciamo Bari, «una città a cui ci si affeziona» e dalla quale ci auguriamo il “viaggiatore incantato” possa, come Pasolini, partire «con la segreta promessa di ritornarci».

Dal capoluogo pugliese viaggiamo con Pasolini in direzione sud-ovest verso Alberobello, «forse il capolavoro delle Puglie». (P. P. Pasolini, I nitidi trulli di Alberobello).

Durante il tragitto si potrà ammirare il paesaggio caratterizzato dal colore intenso del terreno, dai muretti a secco e dagli ulivi. Scrive Pasolini:

[…] tra Murgia e Adriatico la terra è arancione, un leggero tappeto arancione arabescato da muretti dello stesso colore e da radi boschi di ulivi d’un verde carico, vicino al celeste, tra cui ogni tanto, compare un gregge di pecore color malva. (P.P. Pasolini, I nitidi trulli di Alberobello).

Il pittoresco centro agricolo delle Murge nel quale siamo giunti, seguendo Pasolini, è stato riconosciuto nel 1996 Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’Unesco, per il notevole interesse architettonico delle sue tipiche abitazioni: i trulli, che conferiscono al borgo quasi una dimensione fiabesca.

Muretti a secco della Murgia
Alberobello, Trulli foto di Liguria Pics – Opera propria
CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=63793995

Il paese dei trulli è per Pasolini un paese dalle forme perfette:

[…] un paese perfetto la cui forma si è fatta stile nel rigore in cui è stata applicata. Dal primo muro all’ultimo, non un corpo estraneo, non un plagio, non una zeppa, non una stonatura. L’ammasso dei trulli nel terreno a saliscendi si profila sereno e puro, venato dalle strette strade pulitissime che fendono la sua architettura grottesca e squisita. […] Ogni tanto nell’infrangibile ordito di questa architettura degna di una fantasia, maniaca e rigorosa – un Paolo Uccello, un Kafka – si apre una frattura dove furoreggia tranquillo il verde smeraldo e l’arancione di un orto. E il cielo…È difficile raccontare la purezza del cielo […] un cielo inesistente, puro connettivo di luce sulle prospettive fantastiche del paese. (P. P. Pasolini, I nitidi trulli di Alberobello).

Il trullo, lontano erede del modello costruttivo squisitamente mediterraneo del thòlos, con la sua riconoscibile forma tronco-conica, è una costruzione realizzata a secco che nasce dalla sapienza e dall’ingegno contadino. Per rendere coltivabile il pietroso terreno calcareo della zona. Gli agricoltori erano costretti a rimuovere gli abbondanti strati di roccia presenti nel suolo e decisero di utilizzarli come materiale da costruzione. E così, osserva il poeta ingegnere lucano Leonardo Sinisgalli, «l’astuzia contadina da un segreto o da un caso trasse una regola. Che per adattarsi alle virtù del materiale riuscì a sottrarsi al rigorismo della geometria». (L. Sinisgalli, Prefazione alla La valle dei trulli di M. Castellano)

L’abilità costruttiva degli agricoltori di Alberobello era stata ammirata, circa un ventennio prima del viaggio pugliese di Pasolini, da Tommaso Fiore, intellettuale impegnato nella denuncia delle misere condizioni di vita delle classi contadine. Nelle sue Lettere pugliesi, confluite in un Popolo di formiche, scrive:

Avrai sentito parlare anche a Torino dei nostri trulli, diamine! Tu però forse non sai che la zona dei trulli ad Alberobello è stata dichiarata monumentale, né più né meno che la passeggiata archeologica di Roma. Ma io ad Alberobello, di memorando, di eccezionale, di veramente monumentale non ci ho trovato che la laboriosità dei contadini e degli agricoltori…(T. Fiore, Un Popolo di formiche)

Tommaso Fiore descrive i trulli con queste parole:

[…] sono minuscole capanne tonde, dal tetto a cono aguzzo, in cui pare non possa entrare se non un popolo di omini, ognuna con un piccolo comignolo ed una finestrella da bambola, e con quella buffa intonacatura sul cono, che è la civetteria della pulizia, e dà l’impressione di un berretto da notte ritto sul cocuzzolo d’un pagliaccio, con anche, per soprammercato, una croce o una stella in fronte, dipinta con calce! (T. Fiore, Un Popolo di formiche)

Pasolini al cospetto di queste bizzarre architetture popolari rimane folgorato:

Di un trullo isolato si potrebbe parlare solo con i termini della cristallografia. Tutti corpi solidi vi sono fusi mostruosamente per dar forma a un corpo nuovo, delicato, leggero. I tetti a punta, di un nero cilestrino, si staccano improvvisi da questa base contorta e armoniosa, per riempire il cielo di magiche punte. (P. P. Pasolini, I nitidi trulli di Alberobello).

Anche il viaggiatore moderno, quando arriva ad Alberobello, ha l’impressione di trovarsi in un luogo fuori dal tempo e in una dimensione magica, eppure queste costruzioni sono relativamente recenti e nascono, non tanto dalla magia, ma per ragioni ben più pratiche, ad essere precisi per ragioni di natura fiscale! I trulli della Murgia pugliese sono indissolubilmente legati alla fama e alla leggenda nera del conte di Conversano, Gian Girolamo Acquaviva d’Aragona, conosciuto come il Guercio di Puglia. Il temuto feudatario, noto per la sua spregiudicatezza e per una politica molto ambiziosa, amministrava nel XVII secolo questi territori in nome dei Viceré spagnoli. Vuole la tradizione locale che il conte, avido di profitti, contravvenendo al divieto regio di costruire nuove città, avesse permesso l’edificazione dei trulli, per meglio sfruttare le risorse agricole di quei terreni e il lavoro dei contadini. Si racconta che in occasione delle visite regie di controllo, il Guercio facesse abbattere in tutta fretta i coni, costruiti a secco e quindi facilmente demolibili, per poi farli ricostruire, non appena ‘l’accertamento fiscale’ spagnolo si fosse concluso.

Oggi Alberobello, una delle più frequentate mete turistiche della Puglia, ha perso molto del fascino che vi riscontrò Pasolini. Egli ebbe il privilegio di passeggiare per la sua piazza centrale non ancora invasa da turisti famelici dei gadget kitsch e a poco costo, che oggi si vendono ad ogni angolo. Anche per questo giunti fino a qui, consigliamo al viaggiatore una piccola deviazione. A soli 5 km in direzione Nord-Ovest si trova un vero e proprio gioiello del patrimonio storico-artistico pugliese, si tratta della piccola chiesa del Barsento, risalente al 591 d.C.

Paolo Uccello, figura geometrica
Trulli
(foto di Marcok di it.wiki – Opera propria, CC BY 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2827940)
Massafra (TA), Massafra (TA), Castello foto di Livioandronico2013 – Opera propria
CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=28619003

Lasciamo le dolci colline della Murgia e, attraversando un paesaggio che sembra lentamente digradare a terrazzi verso il golfo di Taranto, giungiamo con Pasolini a Massafra:

[…] una città che sorge su un colle spaccato a metà da un torrente. Si immagini una prospettiva del Tevere, la più grandiosa, la più aerea, e, al posto dei palazzi, delle cupole, dei muraglioni – e dell’acqua – un abisso di rocce. Aggrappate a queste rocce, col loro stesso colore, le vecchissime casa di Massafra, spaccata come il colle a metà dalla profonda gola. (P. P. Pasolini, I nitidi trulli di Alberobello)

Questa singolare cittadina pugliese, che diventerà una delle locations del film il Vangelo secondo Matteo, è costruita sulle due sponde della profonda gravina di S. Marco. Tre ponti oggi collegano i due versanti, quello orientale ospita la città nuova e su quello occidentale sorge il borgo antico. Nel suo territorio si trovano numerosi insediamenti e chiese rupestri, non solo rifugio per comunità monastiche italo-greche, ma espressione di una vera e propria civiltà che aveva scelto di vivere in grotta.

Il viaggiatore incantato, seguendo Pasolini, scoprirà il «puro medioevo» di Massafra, le sue strade, il suo ponte, e il suo forte. Scrive Pasolini:

[…] si aggrovigliano, come visceri, i vicoli e le stradine scoscese […]. Il puro medioevo, intorno. Ti spingi giù verso il basso e arrivi alle mura di un forte, svevo o normanno, puntato come uno sperone verso là dove l’abisso di Massafra si apre sulla pianura sconfinata. (P.P. Pasolini, I nitidi trulli di Alberobello)

Il forte a cui si riferisce il poeta è il Castello, che si raggiunge percorrendo la tortuosa via Terra, sulla sinistra di piazza Garibaldi. Una maestosa mole cinquecentesca che domina il centro abitato, costruita su un precedente maniero risalente al X-XI secolo. Oggi di proprietà del Comune, il Castello ospita la Biblioteca cittadina e il Museo storico e archeologico della Civiltà dell’Olio e del Vino.

Invitiamo il viaggiatore a perdersi nei vicoli del centro storico di questa cittadina che «intorno al motivo dell’abisso di rocce che le si apre nel cuore e l’allarga in spazi vuoti e grandiosi, è di una coerenza che fa pensare al rigore dello stile». (P.P. Pasolini, I nitidi trulli di Alberobello)

Le moderne speculazioni edilizie non sono ancora riuscite ad intaccare il puro medioevo di Massafra, in questo luogo si ha l’impressione che il tempo si sia fermato. «Il tempo – dice Pasolini – in un dato anno, o secolo, si è fermato, e la città si è serbata fuori di esso, fossile e incorrotta».

Fu proprio questa dimensione di sospensione temporale che spinse Pasolini, dopo i suoi sopralluoghi in Palestina, a scegliere questa cittadina, insieme ad altri paesi pugliesi come locations per le riprese di uno dei suoi capolavori: il Vangelo secondo Matteo.

Massafra, vicolo del centro storico
(foto di MassafreseDoc – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=31480639)
Una scena girata a Massafra del film Il vangelo secondo Matteo.

Con le poetiche inquadrature del Vangelo secondo Matteo negli occhi lasciamo Massafra per metterci nuovamente in viaggio e seguendo La lunga strada di sabba di Pasolini raggiungiamo Taranto, una città che «brilla su due mari come un gigantesco diamante in frantumi».

In realtà la città è bagnata unicamente dal mar Ionio, ma due mari e «due lingue di terra, che si protendono […] l’una in direzione dell’altra», – come scrive Guido Piovene, che a metà degli anni ‘50 pubblicò il suo celeberrimo Viaggio in Italia –, rappresentano le due anime di Taranto.

La città sorge nel punto più interno di un golfo estremamente scenografico, una parte del centro urbano si sviluppa sulla terraferma –Taranto nuova –, mentre la parte più antica –Taranto vecchia – su un isolotto, che a sud-ovest guarda verso il mare aperto, Mare Grande, mentre a nord-est si specchia nell’insenatura naturale di un mare interno, chiamato Mar Piccolo. I due mari si congiungono in soli due punti, il canale naturale di Porta Napoli e quello, artificiale e navigabile, che separa l’insediamento urbano storico dalla parte più estesa e moderna della città.

Molto è cambiato dai tempi in cui Paolini e Piovene giunsero nel centro ionico, Taranto non è più una «città perfetta» e viverci non «è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta»

Ricorda Alessandro Leogrande, il giovane e impegnato intellettuale tarantino precocemente scomparso:

Anche nella Lunga strada di sabbia di Pasolini c’è ancora un’Italia del prima. Non è difficile scorgere le tracce di una Taranto che non c’è più, quasi un’altra città su cui ne è stata edificata un’altra, in pochi anni, […]. Le immagini fissate su carta da Pasolini sono le ultime prima della costruzione dell’Italsider; pertanto rileggerle è un po’ come collocarsi dalla parte opposta della parabola […].

Taranto, non è più la stessa città, oggi si trova a fare i conti con le pesantissime conseguenze in termini di salute e di degrado ambientale, causate da uno dei poli industriali-siderurgici più grandi d’Europa: l’ex Italsider, ora Ilva. Una gestione politica sconsiderata per decenni ha tenuto sotto scacco la popolazione, chiedendo di barattare la propria salute in cambio del lavoro.

Pasolini poté invece ammirare: «Qui Taranto nuova, là Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari. Per i lungomari, nell’acqua ch’è tutto uno squillo, con in fondo delle navi da guerra, inglesi, italiane, americane, sono aggrappati agli splendidi scogli, gli stabilimenti».

Il viaggiatore, andando alla ricerca di una Taranto autentica, potrà scorgere i segnali di una città che ha scommesso di riemergere dai fumi grigi delle sue ciminiere, gli sforzi di un rinnovamento culturale che vuole restituire a questo luogo la sua bellezza più che perduta, nascosta da una coltre di indifferenza, aldilà della quale la città può offrire non solo incantevoli paesaggi, ma anche rivelare la ricchezza del suo patrimonio culturale e della sua storia millenaria.

Questo itinerario può iniziare dalla Taranto nuova, caratterizzata da un’elegante planimetria ottocentesca alla francese e che, con le sue «piacevoli strade […] decorate da vetrine di dolci», destò l’ammirazione anche di Guido Piovene. Lo scrittore vicentino dedicò al capoluogo ionico parole di ammirazione:

[…] nonostante i grandi edifici di gusto discutibile del tempo fascista e la loro falsa grandezza, Taranto nuova è amabile, e la sua grazia naturale è più profonda e più forte della retorica […]. Passeggiandovi si hanno frequenti scorci sui due mari. (G. Piovene, Viaggio in Italia)

Percorrendo il bellissimo lungomare Vittorio Emanuele III che costeggia la città nuova si gode una incantevole vista, poiché «Taranto vive tra i riflessi, in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce. La bellezza dei suoi tramonti è luogo comune». (G. Piovene, Viaggio in Italia).

Lungo questa strada, rallegrata da lussureggianti giardini, ci si imbatte nei resti di alcune colonne romane.

Taranto
(foto di Carlos Delgado, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11198578)
Taranto, Lungomare Vittorio Emanuele III
Paesaggio pugliese in provincia di Taranto
(foto di Fra.lizzano – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=77543506)

Taranto è così, dal sottosuolo emerge il suo passato: lo spazio oggi occupato dalla città nuova, anticamente era una necropoli e, nel corso dei secoli, ha restituito numerosissimi reperti archeologici. Quelli che non sono stati trafugati da generazioni di ladri e tombaroli, sono andati ad arricchire il patrimonio di uno dei musei archeologici più importanti d’Italia: il Marta.

Alla fine di questa passeggiata sul mare, non resta che attraversare il ponte girevole, un ponte costruito alla fine del XIX secolo, che si apre nel mezzo per consentire il passaggio di grandi navi industriali, per addentrarsi nella città vecchia, «un monumento per se stessa». Qui il viaggiatore si potrà perdere nuovamente nel disordinato ordito medievale di vicoli e viuzze che ha già conosciuto a Bari vecchia.

Scrive Piovene:

Per riparare l’interno della città dagli attacchi nemici, forse dal vento e dal calore, le abitazioni lungo il porto formano un muro ermetico, ed i vicoli aperti perché si possa penetrarvi, molto più stretti delle calli più strette di Venezia, piuttosto che vicoli sono interstizi, fessure tra una casa e l’altra, quasiché fossero tagliate con una lama. La città interna è chiusa come in un guscio d’uovo. […] All’interno del guscio si ha poi una matassa di strade, strette ma pulite ed asciutte secondo il costume pugliese. (G. Piovene, Viaggio in Italia)

Il bel Castello aragonese domina il borgo antico. Fu fatto costruire da Ferdinando d’Aragona tra il 1481 e il 1492 e oggi è la prestigiosa sede della Marina Militare Italiana che proprio a Taranto ha uno dei suoi arsenali più importanti.

Dopo una visita all’interno di questo gioiello dell’architettura rinascimentale, il viaggiatore potrà proseguire la sua passeggiata lungo la riva del Mar Piccolo, dove si stende il caratteristico quartiere dei pescatori. Oggi la città sta cercando di recuperare la genuina bellezza di questo luogo, in parte intaccata da vaste zone di degrado e edifici fatiscenti. Eppure questo luogo conserva un particolare fascino decadente, non è difficile, passeggiandovi, immaginarla come l’illustrazione di «una novella orientale, di quelle dove i pesci parlano e sputano anelli preziosi». (G. Piovene, Viaggio in Italia).

Lasciamo Taranto con i versi struggenti della poetessa milanese Alda Merini:

Non vedrò mai Taranto bella
non vedrò mai le betulle
né la foresta marina:
l’onda è pietrificata
e le piovre mi pulsano negli occhi.
Sei venuto tu, amore mio,
in una insenatura di fiume,
hai fermato il mio corso
e non vedrò mai Taranto azzurra,
e il mare Ionio suonerà le mie esequie.

Alda Merini (Milano, 1931-2009)

Il nostro itinerario alla scoperta della Puglia raccontata da Pasolini e dagli altri viaggiatori scrittori, che ci hanno accompagnato con le loro parole, finisce qui. Di questo viaggio, condivideremo con il poeta il ricordo di «Bari, il modello marino di tutte le città» e porteremo «nella memoria, cattedrali e poveri ragazzi nudi, confuse città pericolanti» e, negli occhi, le immagini di «una regione che si trasforma, si muove in piccole ondulazioni, si ricopre di ulivi». (P. P. Pasolini, La lunga strada di sabbia)

Il viaggiatore incantato non potrà seguire Pasolini sino in Grecia, dove questo itinerario vorrebbe condurlo. Lo scrittore, nel 1969, trascorse una vacanza con la divina Maria Callas, di cui ci rimangono solo testimonianze fotografiche, sull’isola privata della famiglia Onassis a largo di Leucade, oggi di proprietà di un anonimo magnate e dunque non visitabile. Si tratta dell’isolotto di Skorpios, ma questa è un’altra storia, la storia di un amore mancato, la storia di un altro viaggio.

Itinerary

L’itinerario della Passione

Canosa, Ruvo, Molfetta, Bari, Taranto, Corfù, Lefkada

[Tedesco] 

[Spagnolo] 

Questo itinerario è stato concepito come un percorso da svolgersi durante le suggestive celebrazioni pasquali cattoliche e ortodosse, in Italia e in Grecia. Il tragitto, che si snoda tra Ruvo di Puglia, Canosa, Molfetta, Bari, Taranto e, nelle Isole Ionie, a Corfù e Lefkada, permetterà al viaggiatore di entrare in contatto con colorate processioni, drammatiche rappresentazioni della Passione, usanze gastronomiche e antichissime tradizione rituali, spesso in bilico tra religione, folklore e credenze apotropaiche. Le guide di questo itinerario saranno studiosi, antropologi e scrittori che da molti decenni oramai guardano con vivo interesse a queste manifestazioni della cultura popolare. 

Scrive lo storico Franco Cardini:

La celebrazione della Pasqua è senza dubbio una delle più antiche della liturgia cristiana […]. Probabilmente già dal I secolo i cristiani festeggiavano la Pasqua, che presto dovette essere collegata anche alla prima domenica di plenilunio di primavera […]. (F. Cardini, I giorni del sacro: i riti e le feste del calendario dall’antichità a oggi.)

La chiesa cattolica ereditò culti e riti appartenuti a religioni preesistenti e dovette unire alla grande simbologia della salvezza, incarnata dalla resurrezione di Cristo, anche altri significati, propri delle culture agro-pastorali del mondo mediterraneo. La Pasqua rappresenta infatti anche la celebrazione primaverile della vegetazione e dei campi che tornano alla vita dopo il letargo invernale.

Nella settimana che precede la Pasqua, la Puglia diventa un grande palcoscenico in cui vengono rappresentati dal vivo, sotto forma di Sacre Rappresentazioni o di processioni, gli episodi della morte e resurrezione di Cristo. Quasi in ogni paese confraternite, associazioni culturali o pro-loco danno vita a manifestazioni, cortei, eventi musicali che scandiscono le date della liturgia della Pasqua e la fine della stagione fredda. Si rende dunque necessaria una precisazione, il viaggiatore, che deciderà di intraprendere questo itinerario, non potrà seguirne tutte le tappe, per via della sovrapposizione delle date delle diverse manifestazioni. Potrà comunque decidere a quali partecipare personalmente e a quali prendere parte “virtualmente”, seguendone il lento incedere attraverso gli scritti delle guide letterarie selezionate per questa proposta di viaggio.

Nella tradizione liturgica cristiana, puntualmente seguita da quella popolare, il tempo pasquale è tempo di grandi feste e processioni che trovano il loro culmine nella Settimana Santa, ma che hanno inizio nel periodo quaresimale, cioè ben quaranta giorni prima della Pasqua. L’antropologa e storica dell’arte Emanuela Angiuli spiega:

La liturgia cattolica fa iniziare il ciclo con il mercoledì delle ceneri, primo giorno di quaresima. In molte località [della Puglia], ancora oggi, la quaresima – periodo di preparazione della morte e resurrezione di Cristo, caratterizzato da divieti alimentari e sessuali, giacché non si consuma carne, non si contraggono fidanzamenti né matrimoni – è rappresentato dalla Quarantana, un pupazzo fatto di pezze nere, il petto trafitto da penne di gallina, appeso ai crocicchi, dondolante come uno spettro. (E. Angiuli, La Pasqua, in Viaggio in Provincia)

Il nostro itinerario inizia proprio nel periodo della Quaresima a Ruvo di Puglia: una cittadina della Murgia pugliese, circondata da vigneti e uliveti, con una storia millenaria legata alla tradizione agricola.

Qui appese ai balconi dei vicoli del centro storico medievale si vedono penzolare dei fantocci che rappresentano una vecchia donna vestita a lutto che simboleggia la vedova del Carnevale. La domenica di Pasqua questi pupazzi vengono fatti esplodere con dei petardi. Il rito, chiamato lo scoppio delle Quarantane, simboleggia la fine delle penitenze e la vittoria della vita sulla morte e, contestualmente, quello della primavera sull’inverno. Racconta Emanuela Angiuli:

Ogni giorno la Quarantana perde una piuma, finché nel giorno della Resurrezione, scoppia, riempita di petardi, buttando per aria altri mille stracci neri. Uscita dalla fantasia e dalle feste medievali, la vecchia pupazza incarna l’altra faccia della passione, una sorta di Addolorata alla rovescia, maschera pagana di quell’angoscia di distruzione che l’inverno – interruzione del tempo produttivo, della speranza alimentare – apporta nell’immaginario contadino. […] Le cerimonialità quaresimali, ridotte oggi a processioni di accompagnamento funebre e ad azioni teatrali nelle sacre rappresentazioni, appartengono in realtà ad una concezione festiva apocalittica, propria delle culture agro-pastorali nel mondo mediterraneo pre-cristiano. (E. Angiuli, La Pasqua, in Viaggio in Provincia)

I riti della Settimana Santa di Ruvo, inseriti dall’IDEA, Istituto centrale per la demoetnoantropologia, tra gli eventi che fanno parte del patrimonio immateriale d’Italia, non si esauriscono nel folkloristico scoppio delle Quarantane, ma proseguono per tutto il periodo pasquale, a partire dal venerdì precedente la Domenica delle Palme.

Particolarmente suggestiva è la processione della Vergine Desolata, che si celebra il Venerdì di Passione, cioè una settimana prima del Venerdì Santo. La statua della Madonna, chiamata anche Madonna del Vento, perché si dice che durante la processione soffi sempre una brezza particolare, vestita rigorosamente di nero, viene portata in spalla dai membri della Confraternita della Purificazione di Maria Santissima Addolorata. Il percorso della Vergine parte dalla chiesa di San Domenico e giunge sino alla Cattedrale.

Pupazzo della Quarantana
Ruvo, Processione della Desolata
(foto di Forzaruvo94 – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15355150)

Canosa, donne vestite di nero che accompagnano la processione della Vergine Dolorosa

(Foto di Luigi Carlo Capozzi – it:Utente:Campidiomedei – Trasferito da it.wikipedia su Commons da Fradeve11 utilizzando CommonsHelper., CC BY 1.0,

https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4282013)

A conferma dei legami intimi tra le ritualità pasquali e quelle del mondo contadino pre-cristiano è stato osservato che nelle processioni della Settimana Santa, specie quelli penitenziali, in cui la rappresentazione drammatica prevale sulla liturgia, protagoniste sono le figure femminili, come appunto la Vergine Desolata o l’Addolorata che si disperano per la perdita del figlio, come la dea della fertilità Cerere/Demetra piangeva per la scomparsa della figlia Persefone. Scrive l’antropologa:

Sembra quasi di percepire, nei lunghi percorsi che l’Addolorata attraversa, rappresentata da una statua o da una donna vestita di nero, alla ricerca del Figlio, […] il lamento di Cerere, della grande madre Cibele, menomata all’improvviso, nella mitologia greca e romana, di quella “parte di sé” che rendeva feconda e fertile la terra con l’arrivo della primavera. (E. Angiuli, La Pasqua, in Viaggio in Provincia)

Molte di queste processioni, sebbene abbiano avuto origine nel Medioevo, contemplano rituali che rimandano direttamente alla tradizione greco-romana. A Canosa, ad esempio, la processione, chiamata della Dolorosa, è accompagnata dal pianto di donne vestite di nero che richiamano esplicitamente le prefiche pagane, donne che accorrevano a piangere i defunti e intonare canti funebri durante i funerali.

Lasciamo Ruvo e Canosa, dopo aver visitato i monumenti più interessanti di questi luoghi, segnalati nei corrispondenti link, e dirigiamoci a Molfetta, sulla costa adriatica, poco a nord di Bari, per assistere e prendere parte alla processione del Venerdì Santo. L’intensa carica drammatica di questa manifestazione è accentuata anche dal particolarissimo accompagnamento musicale della processione eseguito dalla banda, uno degli elementi caratteristici delle manifestazioni folkloriche e delle cerimonie religiose in Puglia.

Lasciamoci introdurre in questo universo melodico dal musicologo barese Pierfrancesco Moliterni:

All’interno della cultura della festa patronale e della particolare funzione che in essa riveste la banda da giro, caratteristica ed esclusiva è la sua presenza – durante le cerimonie religiose della Quaresima e delle Settimana Santa – nella cittadina di Molfetta. La processione delle statue che simboleggiano la passione di Cristo […] viene preceduta da un particolarissimo “sottogenere” della grande banda da giro: la cosiddetta bassa banda, o banda dei “tammurr” (tamburi). Essa è composta da pochissimi suonatori, di solito in numero di quattro, i quali intonano una specie di trenodia che risuona alla testa della processione, per richiamare l’attenzione dei fedeli all’imminente passaggio cerimoniale.

Il suono di una melodia triste e dolce insieme (flauto) intervallata dal rullo del tamburo militare (cui viene allentata la cordiera d’acciaio per impedire le vibrazioni sulla pelle e sortirne effetti lugubri e cupi) e da colpi profondi di grancassa, viene interrotta da improvvisi squilli di tromba.

La processione vera e propria delle statue oggetto di culto è poi preceduta e seguita dalla banda di Molfetta, che l’accompagna per tutto il tragitto cittadino secondo un preciso cerimoniale musicale, che si tramanda da anni. Le partiture e le singole parti di queste marce funebri del Venerdì santo molfettese sono conservate presso le Arciconfraternite della Morte e di S. Stefano, che ne dispongono solo in occasione delle rispettive processioni-spettacolo. (P. Moliterni, La Processione del Venerdì Santo a Molfetta, in Viaggio in Provincia.)

Per seguire questa manifestazione bisogna essere disposti a passare una notte in bianco, infatti tradizionalmente, il giovedì sera si visitano gli altari della reposizione (chiamati sepolcri), allestiti nelle chiese del borgo antico, preferibilmente in numero dispari, si consuma quindi un pasto frugale a base di pane condito con tonno, capperi e acciughe e si aspettano le 3.00 del mattino, quando le statue dei Misteri, simulacri lignei di scuola napoletana del XVI secolo, escono dalla chiesa di Santo Stefano e per ben nove ore vengono portate in processione per le strade di Molfetta.

Seguendo la processione sarà possibile apprezzare il centro storico della cittadina con il suo colorato porto, nelle cui acque si specchia il Duomo di San Corrado.

Molfetta, processione dei Misteri, Cristo alla colonna
Molfetta, veduta del porto e del Duomo di San Corrado
(foto di Michele Zaccaria di Wikipedia in italiano – Trasferito da it.wikipedia su Commons., CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10480609)

Prossima tappa dell’itinerario è Bari, dove la manifestazione pasquale di maggiore impatto emotivo è quella dei Misteri del Venerdì Santo. Questa si distingue per la bellezza delle statue portate in processione, sculture lignee o manichini vestiti di scuola napoletana o veneta risalenti al XVII e al XVIII secolo.

L’orchestrazione scenica della cerimonia è ricca e articolata come ci racconta lo studioso di arte popolare e storia locale Nicola Cortone:

La processione si distingue per le preziose vesti e gli ornamenti, la nobiltà dell’apparato dei portatori (rigorosamente vestiti di nero e guanti bianchi), la melodia delle musiche di bande e i pittoreschi inserti nel corteo di fanciulli e fanciulle, rispettivamente vestiti da guerrieri romani (Costantino) e Sant’Elena, con riferimento al rinvenimento della Croce da parte della imperatrice madre. La presenza di Sant’Elena dona una impronta bizantina alla processione, forse in origine riservata soltanto alla croce.

Gli altri personaggi, via via aggiunti nel corso del tempo, appartengono da un lato al teatro medievale e dall’altro ad una sorta di pellegrinaggio itinerante al Santo Sepolcro.

Attraverso i Misteri in pratica si ripercorrono le stazioni della “Via Crucis” venerate dal pellegrino […]. (N. Cortone, Passione per una settimana, in Bari Vecchia. Percorsi e segni della storia.)

A Bari la processione del Venerdì Santo è caratterizzata da un’altra particolarità che la rende unica nel suo genere, cioè la storica rivalità tra due confraternite che per molto tempo hanno sfilato contemporaneamente, ognuna con le proprie statue, creando un bizzarro effetto di duplicazione e anche scontri e tafferugli sul diritto di precedenza. Nel XVIII secolo la Processione dei Misteri era organizzata dalla confraternita di “Maria Santissima Della Purificazione” e dai frati francescani riformati che facevano uscire le loro statue dalla chiesa della Vallisa. Ma, in città, il Venerdì Santo, esisteva già un’analoga processione che invece partiva dalla chiesa di San Pietro delle Fosse, nei pressi del porto, organizzata dai frati minori osservanti. Quando l’ordine religioso fu soppresso, nel 1809, le statue della confraternita furono trasferite nella chiesa di San Gregorio, di pertinenza della Basilica di San Nicola. Le due processioni continuarono ad essere in competizione e, quando i cortei si incrociavano, causavano tali disordini che dovette intervenire l’Arcivescovo in persona, stabilendo, nel 1825, che i Misteri della Vallisa sarebbero usciti in processione negli anni pari, mentre quelli di S. Gregorio negli anni dispari. Questa disposizione arcivescovile è ancora oggi in vigore.

Scrive Nicola Cortone:

La processione dei Misteri baresi, oltre che storica, diventa pittoresca e polare nella duplicazione della serie delle statue. (appartenenti alle due gloriose confraternite già citate), che dopo un lungo periodo di conflitti e tensioni sull’ordine delle precedenze, attualmente “escono” ad anni alternati dalle rispettive chiese […].

Ad esse è stato affibbiato dal popolino una duplice denominazione di chiangeaminue (“piagnoni”, quelli della Vallisa) e venduluse (“ventosi”, quelli di S. Gregorio), capaci cioè di sollevare vento o scrosci di pioggia in occasione della loro uscita. (N. Cortone, Passione per una settimana, in Bari Vecchia. Percorsi e segni della storia.)

Se per prendere parte alla processione di Molfetta è stato necessario preventivare una notte in bianco, per seguire quella barese, il viaggiatore dovrà essere in gran forma, infatti la processione di Bari, insieme a quella tarantina, è quella che dura di più in tutta la Puglia. Per ben 15 ore le statue percorrono in lungo e largo diversi punti della città, dal centro storico sino al quartiere Libertà, alle spalle del Lungomare.

Molti studiosi, antropologi e storici si sono interessati alle processioni che animano la Settimana Santa, e tra queste, una delle più note in Puglia, è sicuramente quella «solenne e notturna» degli “incappucciati” di Taranto, prossima tappa dell’itinerario della Passione. Per questa città, abbiamo ritenuto doveroso e opportuno scegliere come guida uno scrittore tarantino, il giovane intellettuale troppo precocemente scomparso, Alessandro Leogrande che nel suo libro-inchiesta su Taranto, intitolato Dalle Macerie. Cronache sul fronte meridionale, dedica un capitolo proprio alla Processione dei Misteri. Lasciamo dunque alle sue parole il compito di introdurci nei vicoli della città jonica mentre sfila la processione.

Così la racconta Leogrande:

Una decina di statue raffiguranti i momenti della Passione dondolano nella notte sorrette da uomini. Sono statue scolpite nel legno secoli addietro, i loro colori sono accesi, i loro volti rotondi, sofferenti. […]

Tra l’una e l’altra ci sono le coppie di Perdoni, cioè coppie di confratelli incappucciati che precedono a piedi scalzi sull’asfalto con la stessa lentezza con cui avanzano i gruppi che sorreggono le statue. Sembrano danzare. Ondeggiano con movimenti appena percettibili, da sinistra a destra, da destra a sinistra, sospingendosi ogni volta di qualche centimetro in avanti. Il verbo preciso è nazzicare, la loro camminata si chiama nazzicata.

In fondo, la banda musicale suona marce funebri che paiono una lunga nenia, mentre ai lati della strada un carnaio umano variamente assortito piange, ride, prega, scatta foto, osserva attentamente, sfiora sensualmente il corteo che si snoda per le strade della città.

È la Processione dei Misteri di Taranto. Esce ogni anno dalla chiesa del Carmine nel primo pomeriggio del Venerdì Santo e vi farà ritorno solo nella tarda mattinata del giorno successivo. Insieme alla processione gemella, quella dell’Addolorata, che esce il giovedì notte dal portone di San Domenico e vi fa ritorno il venerdì all’ora di pranzo, costituisce un pezzo di Sud barocco, sopravvissuto allo scorrere dei secoli e conficcato nella nostra modernità. […]

[…] tra le due Processioni c’è un’enorme differenza: quella dell’Addolorata si snoda tra i vicoli della città vecchia e approda nella città moderna solo per poche centinaia di metri;

mentre quella dei Misteri, benché sia nata nella medesima isola, si è poi spostata interamente nella città nuova.

Se nella prima la coincidenza tra luogo e rito appare perfetta, nella seconda lo stridore è molto forte. Si fa evidente soprattutto nelle prime ore, quando accanto alla Processione dei Misteri c’è la Diretta Televisiva della Processione dei Misteri, e c’è talmente tanta gente in strada che il percorso è transennato. Quando le telecamere si spengono, la gente si dirada e la gran parte dei tarantini va a dormire dopo aver sgranocchiato lupini o panzerotti con la mozzarella e il pomodoro, a “fare” la processione rimangono solo i Perdoni, i loro confratelli, pochi famigliari e qualche fedele con un cero acceso in mano.

…] Un senso di morte e disperazione sembra salire dalle viscere della città. […] Il passato rimosso della città sgorga fuori all’improvviso, e con esso i suoi fantasmi, le sue inquietudini, la richiesta ancestrale di una grazia o di un miracolo, mentre in lontananza le ciminiere dell’Ilva illuminano la notte e le onde del mare rimescolano l’acqua nel golfo. (A. Leogrande, Dalle Macerie. Cronache dal fronte meridionale)

aranto, processione dei Misteri
Taranto Processione dell’Addolorata
(foto di Andrea Serafico – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10308062)
Taranto, Processione dei Misteri, i Perdoni.
Taranto, I Perdoni-foto partner-

Taranto, Processione dei Misteri, Ecce Homo

Questi eventi, che mobilitano folle nelle città pugliesi per giorni, non sono privi di contraddizioni, l’originaria carica religiosa e la volontà pedagogica che era alla base di queste messe in scena, fortemente volute dalle gerarchie ecclesiastiche post-tridentine, oggi si sono fortemente attenuate. Se per alcuni fedeli le processioni pasquali rimangono un momento fondamentale della propria sensibilità religiosa, per molti, oramai, sono diventate una manifestazione di costume, un’occasione per consumare cibi tipici, o semplicemente per assistere ad uno spettacolo cui sfugge il senso profondo. Spiega l’antropologa Emanuela Angiuli:

I visi delle statue scomposti dal dolore, i tratti disperati delle Vergini Desolate, la vivezza delle carni piegate ed illividite delle figure del Cristo, non sono semplici prodotti di abilità artistiche, ma referenti puntuali, segni di un’apocalisse precipita nella storia culturalmente controllata, nella quale gli “umili” entrano ed escono indossando gli abiti della penitenza, con la testa coperta di spine, le spalle schiacciate dal peso delle croci, in una sequenza di quadri in cui i protagonisti vivono la morte della propria condizione di sfruttati e subalterni. (E. Angiuli, La Pasqua, in Viaggio in provincia)

La stridente ambiguità di questi eventi approfondita da Alessandro Leogrande nella descrizione della Processione dei Misteri, assume toni, se possibile, ancora più drammatici in un altro libro dello scrittore tarantino, edito già nel 2011, Il Naufragio che racconta della tragedia umanitaria della nave carica di immigrati Kater i Rades, affondata nel canale d’Otranto proprio la sera del Venerdì Santo, un venerdì di morte, mentre a Taranto sfilava la processione dei Misteri:

La folla segue la processione dei Misteri, […]. Stipato tra la folla il Capitano Fusco si ritrova a fissare la statua chiamata “Ecce Homo”: un Cristo triste con la corona di spine posta sulla testa insanguinata e una pezza rossa intorno al corpo nudo. Osserva i suoi occhi. Guardano verso il basso. Più che di dolore sono carichi di stupore. Quell’uomo, scolpito nel legno tre o quattro secoli prima, non sta provando compassione per il mondo, ma stupore. Una profonda meraviglia, velata di tristezza, per la violenza, il non senso, l’indifferenza, l’ignavia, l’impossibilità di raddrizzare le cose. Quel Cristo dai lineamenti popolari sembra un innocente piombato improvvisamente in mezzo a una mattanza. Lo dicono i suoi occhi. Pensa e ripensa questa idea che gli è balenata in testa: un agnello in mezzo alla mattanza. Ma poi si distrae, è infastidito dai flash, dalle urla, dalle risate di un uomo grasso con in mano un pezzo di focaccia al pomodoro che gronda olio da tutte le parti.

Questa processione non ha niente di religioso, pensa. È tutto fuorché un evento religioso. È fatta di urla, non di silenzio. Di sovraesposizione, non di riflessione. Così si allontana e si dirige verso la macchina… (A. Leogrande, Il Naufragio)

Lasciamo la Puglia, con le sue processioni e i suoi riti, e proseguiamo l’Itinerario della Passione in Grecia, nelle Isole Ionie, per partecipare alle celebrazioni della Pasqua ortodossa. Se il viaggiatore sarà fortunato, non dovrebbe incorrere nel problema della sovrapposizione delle date. Infatti il calendario liturgico ortodosso è diverso da quello cattolico. Per questo motivo in Grecia le festività pasquali si celebrano quasi sempre dopo quelle latine. Il calcolo del giorno della Pasqua è stato uno dei maggiori grattacapi degli intellettuali ecclesiastici dell’alto-medioevo, basti pensare che furono elaborati dei complicati calendari secolari, chiamati tabulae paschales, per agevolare l’individuazione del giorno di Pasqua. La differenza tra la data cattolica e quella ortodossa risiede nel fatto che in Occidente fu adottato il calendario gregoriano, mentre nel mondo ortodosso restò in vigore il calendario giuliano.

Nella religiosità greca, caratterizzata da un connubio unico di misticismo di ascendenza bizantina e folklore squisitamente isolano, la Pasqua è sicuramente la festa più importante dell’anno. L’isola di Corfù, in particolare, è famosa per le manifestazioni che animano ogni villaggio, rendendo questo periodo dell’anno uno dei più belli per scoprirne i segreti, a patto che si ami la confusione!

Il grande scrittore e antropologo siciliano, Giuseppe Pitrè, uno dei massimi studiosi di folklore, ha dedicato un paragrafo dal titolo Usi pasquali nell’isola di Corfù, del monumentale volume Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, edito nel 1899, proprio alla pasqua corfiota che così descrive:

La più graziosa delle città elleniche è senza dubbio Corfù. Tra gli usi pasquali tuttora in vigore i più caratteristici sono i seguenti: al momento di sciogliere le campane il Sabato Santo, si gettano dalle finestre gli utensili rotti conservati in casa durante l’anno, cosicché per qualche minuto è pericoloso trovarsi fuori di casa. Vetri, stoviglie volano per l’aria e con fracasso ingombrano il suolo. Quei buoni isolani dicono di cacciare tutta quella robaccia poco gradita dietro a Giuda in segno di disprezzo.

Altra usanza è quella degli spari. Questa dura dal mezzogiorno del Sabato Santo a quello della Domenica di Pasqua. È un bombardamento non interrotto.

Rivoltelle, vecchi fucili e pistole, mortai, tutto viene posto in opera.

Caratteristica quanto mai la processione nel Castello alla mezzanotte del Sabato Santo. La ricchezza degli apparati, l’intervento della truppa e delle autorità, l’ora e le fiaccolate multicolori, danno alla funzione un’aria affatto speciale. Tipica e commovente pei sensi che nasconde la veglia che si fa con l’agnellino la notte del Sabato santo. Al mattino della Domenica di Pasqua ogni casa sgozza sul limitare il suo agnellino. Il sangue scorre per le vie, e col sangue stesso ancora caldo si disegnano croci sugli usci e sulle pareti. (G. Pitrè, Archivio per lo studio delle tradizioni popolari.)

Corfù, processione di San Spiridione durante la domenica delle Palme

Nel corso della tappa corfiota del nostro itinerario scopriremo cosa sia cambiato e quanto tenacemente certe tradizioni perdurino a ben più di un secolo di distanza dallo studio dello scrittore siciliano.

I festeggiamenti rituali hanno inizio il sabato che precede la Domenica della Palme. Questa giornata è celebrata in ricordo del miracolo che riportò in vita Lazzaro di Betania, con canti tradizionali intonati da cori che provengono da tutti i villaggi dell’isola. Le ragazze, vestite in abiti tradizioni, girano di casa in casa, recitando delle canzoni chiamate kalanda di Lazzaro. In questa occasione si consumano dei biscotti tipici chiamati i koulorakia o Lazzarakia, poiché la loro forma ricorda quella del corpo di Lazzaro avvolto nel lenzuolo funebre.

La Domenica delle Palme, in una città decorata di rosso, per vie dei drappi color porpora appesi ad ogni balcone, vengono portate in processione le reliquie del santo patrono, San Spiridione, seguite da una folla festante di fedeli e dalle diciotto Orchestre Filarmoniche dell’isola. Questa usanza si ripete ogni anno dal 1629 quando, secondo la leggenda agiografica, Agios Spyridon liberò l’isola da una terribile epidemia di peste. Oltre ad essere una manifestazione estremamente suggestiva e che si conclude con concerti musicali nella città vecchia, è anche una delle sole quattro occasioni in cui è possibile vedere sfilare per i vicoli di Corfù le reliquie del Santo. Lo scrittore anglosassone Lawrence Durrell, sinceramente innamorato dell’isola, nella quale visse diversi anni, scrisse che San Spiridione e Corfù arrivano quasi ad identificarsi, intimamente legati l’uno all’altra: «The island is really the Saint: and the Saint is the island». Così lo scrittore descrive la processione in suo onore:

Il santo giace composto nella sua cassa. Una mummia, un piccolo scheletro asciugato, i cui minuscoli piedi (calzati di pantofole ricamate) sporgono da un’apertura all’estremità del sarcofago. Se un fedele vi si inginocchia davanti e li bacia, vedrà esaudite le sue preghiere.[…] Quattro volte l’anno il santo fa il giro dell’isola nella sua cassa, accompagnato da una processione trionfale; a Pasqua e per la vigilia di Natale viene collocato su di un trono, accessibile a tutti i fedeli che entrano in chiesa.

Ma le processioni rappresentano qualcosa di più di una forma vuota. Fin dal mattino presto le strade sono affollate dalle sciarpe e dai fazzoletti sgargianti dei contadini, arrivati in città per assistere al servizio religioso; non c’è piazza che non sia animata dai banchi degli ambulanti, colmi di noccioline, bibite allo zenzero, nastri, frutta candita, strisce di tappeto, bottoni, limonata, penne e pennini, stringhe, stuzzicadenti, amuleti, icone, legni intagliati, candele, sapone e chincaglieria religiosa. […] La processione è guidata dai novizi in tunica blu, che sorreggono le lunghe pertiche delle dorate lanterne veneziane; seguono gli stendardi, pesanti e infiocchettati, e file di ceri coronati d’oro e di nastri sventolanti: enormi candele che si trasportano infilate in un balteo appeso all’anca. Tra rimbombi e squilli viene poi la banda cittadina, o meglio le due bande municipali, con i loro scintillanti elmi d’ottone, simili a quelli dei pompieri, ma guarniti di piume bianche. Seguono a questo punto truppe in ordine sparso, chiuse dalle prime file dei preti, imponenti nei loro cappelli a tubo di stufa, ciascuno con

una veste unica per colore e foggia, broccato del colore delle rose, del mais, del grano, verde prato, giallo ranuncolo. Aiuole semoventi. Infine appare l’arcivescovo in tutta la sua pompa: vuol dire che il santo è vicino, e tutte le mani si apprestano a fare il segno della croce, mentre le labbra si muovono alla preghiera.

Sei marinai portano a spalla il santo, in un antico baldacchino cremisi e oro, sostenuto da sei aste d’argento e fiancheggiato da sei preti. Spiridione troneggia in questa specie di portantina e attraverso i vetri il suo volto appare più che mai lontano, risoluto e misantropo. (L. Durrell, Propero’s Cell. A guide to the landscape and manners of the island of Corfu)

Come avviene anche in Italia, il giorno più sentito di tutta la Settimana Santa è il Venerdì, il giorno della Passione, chiamato il giorno degli Epitaffi, cioè dei Sepolcri. In tutta l’isola, ogni chiesa porta in processione il proprio Epitaffio, in un baldacchino adorno di fiori. I fedeli seguono l’Epitaffio della propria parrocchia al ritmo delle tristi marce funebri intonate dalle bande musicali.

Il giorno successivo, il Sabato Santo, di prima mattina viene “messo in scena”, nella chiesa di Kyra Faneromeni, in piazza Agiou Spyridonos, il terremoto che nei Vangeli si racconta seguì alla morte di Gesù: i fedeli presenti battono i banchi all’unisono creando un tale rumore che sembra far tremare la chiesa.

In seguito, il santo patrono sfila nuovamente per le vie di Corfù con il suo sepolcro, in ricordo del divieto imposto dai Veneziani di far sfilare gli Epitaffi il Venerdì Santo.

Il momento più colorato e caratteristico della Pasqua ortodossa dell’isola avviene intorno alle 11.00 del mattino, quando ha inizio lo spettacolo della rottura dei botides.

Grandi vasi di terracotta, dipinti di rosso, vengono lanciati in strada dai balconi del centro storico, infrangendosi in mille pezzi. L’origine di questa usanza, che Giuseppe Pitrè legava alla volontà popolare di scacciare Giuda, secondo alcuni rimanda alla tradizione veneziana di lanciare dalla finestra gli oggetti vecchi a Capodanno.

In tarda serata, poco prima di mezzanotte si può finalmente celebrare la gioia della Resurrezione e il cielo dell’isola si illumina di fuochi d’artificio e i fedeli intonano canti, finalmente di gioia, sulle note delle bande filarmoniche, augurandosi Buona Pasqua con la tradizionale formula Χριστός ανέστη (Cristo è risorto).

Nei villaggi è ancora in vigore l’usanza di sacrificare l’agnello pasquale e di segnare con il suo sangue le porte delle abitazioni. Questa tradizione è probabilmente il lontano ricordo di quando, come scrive Franco Cardini «in un ormai lontano plenilunio di primavera, […] il sangue dell’agnello sacrificato protesse le case degli Ebri dal passaggio dell’Angelo». Nell’Esodo, si racconta di come alla vigilia della liberazione del popolo ebraico dall’Egitto, un Angelo, mandato da Dio, avrebbe colpito ogni primogenito egiziano, mentre avrebbe risparmiato gli Ebrei, i quali, su ordine di Mosè, marcarono le porte delle loro case con il sangue di un agnello sacrificato, seguendo l’ordine divino: «[…] quand’io vedrò il sangue, passerò oltre, e non vi sarà piaga su di voi per distruggervi, quando colpirò il paese d’Egitto». Ancora oggi l’agnello, vittima dell’Esodo e re dell’Apocalisse, sia per i cattolici che per gli ortodossi, rimane uno dei simboli più potenti della Pasqua. La Domenica della Resurrezione è il giorno del cibo, in cui finito il digiuno quaresimale, i corfioti si concedono ricchi banchetti a base di carne di agnello e capra. Se a Corfù le festività pasquali assumono toni solenni e scenografici, nelle altre Isole Ionie il viaggiatore potrà vivere un’esperienza più intima e meno mondana rispetto alla capitale. Per questo abbiamo scelto come ultima tappa di questo itinerario l’isola di Lefkada. Con le sue bianche scogliere, rese famose dal più poetico di tutti i suicidi d’amore, quello della poetessa Saffo, l’isola, ancora fuori dai circuiti del turismo di massa, è un posto dove la vita segue ritmi lenti e naturali e dove la Pasqua è l’evento più importante dell’anno. I riti si svolgono durante tutta la Settimana Santa e per l’occasione i villaggi si preparano parandosi a festa, le case vengono tinteggiate di bianco e le strade pulite. Padrini e madrine di battesimo regalano vesti nuove e candide ai propri figliocci, insieme a un cero pasquale. Il Giovedì Santo le donne dipingono di rosso le uova, il Venerdì sfilano gli Epitaffios e alla mezzanotte del sabato santo le candele dei fedeli vengono accese, con il loro fumo si disegna una croce sulla porta della propria casa, ed infine, a mezzanotte, suonano le campane e i fuochi d’artificio esplodono colorati nel cielo. La Domenica si svolge la cerimonia dell’Agàpi, parola greca che allude tanto all’amore nella sua dimensione divina e platonica quanto alle libagioni sacre. Infatti dopo la lettura del Vangelo in dodici lingue diverse è il momento di consumere un ricchissimo pasto a base di carni allo spiedo di agnello e dolci al miele.

Invitiamo il viaggiatore che ha intrapreso questo itinerario a prendere simbolicamente parte al banchetto pasquale. Dopo aver attraversato e rivissuto i giorni della Passione, attraverso drammatiche processioni rituali, attraverso Sacre Rappresentazioni e litanie, è giunto, a conclusione del percorso, il momento della gioia e rinascita e per noi il momento del ritorno. Il nostro itinerario, che qui si conclude, ci ha portato non solo in luoghi meravigliosi, ma, ci auguriamo, anche alla scoperta di antichissime tradizione mediterranee legate agli eventi evangelici della nostra tradizione religiosa, ma anche alla stessa natura dell’uomo che, con tutte le sue contraddizioni, nel corso dei millenni, ha dato forma rituale alle proprie paure e sofferenze, ha celebrato le proprie divinità e i grandi cicli della natura.

Corfù, fuochi d’artificio
Itinerary

Le vie per l’arcadia

BARI, CORFU: Pontikonissi, Benitses, ITAKA:Vathy, Anogì

Itinerario – Le-vie-per-l’arcadia

[Tedesco] 

[Spagnolo] 

Questo itinerario propone un viaggio tra la Puglia e la Grecia ionica sui passi di Lalla Romano ed Emilio Cecchi. Il titolo è liberamente ispirato al diario di viaggio di Cecchi Et in Arcadia ego e al saggio su Lalla Romana di Vincenzo Consolo Et in Arcadia Lalla.

Nella primavera del 1934 Cecchi aveva viaggiato, in compagnia del figlio, per le Isole Ionie e il Peloponneso, spingendosi fino a Creta. Da quell’esperienza nacque un libro edito nel 1936, i cui singoli capitoli erano già stati precedentemente pubblicati come articoli di reportage.

La Grecia di Cecchi è una terra in cui il passato mitologico della regione convive con il presente. L’autore ne coglie le caratteristiche attraverso una scrittura in cui la vena poetica ed elegiaca, riservata alla descrizione dei paesaggi e dei monumenti, diventa a tratti ironica e a volte dissacrate, quando si tratta di fotografare ‘il brutto’ stile neo-ellenico o l’edilizia moderna che, già all’epoca, cominciava a contaminare le città greche, in primis Atene. Ne emerge una rappresentazione visiva dei luoghi che ricorda le pitture impressioniste e in cui l’Arcadia, evocata nel titolo del suo libro, diventa la meta simbolica in cui riscoprire, non solo i caratteri universali della cultura greca, ma anche un po’ noi stessi. Similmente Lalla Romano nel suo Diario di Grecia — resoconto di un breve viaggio in compagnia del marito della durata di otto giorni, compiuto nella Pasqua 1957 (pubblicato nel 1960 e poi — in una versione più ampia — nel 1974), ci racconta una Grecia letteraria e mitologica vivificata dai suoi personali ricordi d’infanzia e dalla costante ricerca di momenti di verità, e per questa via il viaggio «si concretizza così in un’esperienza di attualizzazione di un mito lontano» (G. Dell’Aquila, L’Adriatico di Lalla Romano) tanto universale quanto intimo.

Emilio Cecchi e Lalla Romana diventeranno le guide letterarie di questo itinerario, invitando anche noi a vivere questa esperienza di viaggio come la ricerca del nostro angolo di Arcadia.

L’itinerario inizia in compagnia di Lalla Romano, a bordo del treno che condusse la scrittrice da Milano sino a Brindisi, dove si sarebbe imbarcata su una nave chiamata Angelika in direzione della Grecia.

Il viaggiatore, che oggi attraversi la Puglia in treno, potrà gustarsi le descrizioni paesaggistiche della scrittrice immaginandosi in un vagone di altri tempi, sicuramente privo dei moderni confort offerti dai convogli ad alta velocità, ma dotati di un loro peculiarissimo fascino, catturato dalle parole della Romano:

Il treno è foderato internamente in cuoio scuro, impresso a disegni floreali.

    • È di prima della guerra, – dice Stefano.

Prima dell’altra guerra! Quando c’era quell’eleganza ambigua (ma forse ogni eleganza lo è) che ha intravveduto nella nebbia dell’infanzia chi è nato prima del ’14.

Il nostro scompartimento è angusto, ammobiliato, vestito; tempestato di borchie, ganci, rampini lucidi di ottone. Anche la scaletta mobile, ridicolmente piccola, è interamente rivestita di panno blu a disegni.

[…] Accanto al lavabo c’è una saponetta verde piccolissima.

Continuo la perlustrazione. Apro lo sportellino in basso, e ne estraggo la coppa di maiolica. Ha un lunghissimo labbro, un lunghissimo manico: sembra uno strano animale o fiore esotico.

La rinfilo, e sale dal basso il vento e il rombo delle rotaie. La custodia in cui la coppa si incastra ha la sua forma precisa ed è rivestita di panno come gli astucci dei gioielli. (L. Romano, Diario di Grecia)

Quello che rimane immutato in un viaggio in treno lungo la costa pugliese, sia che il convoglio sia dei primi del Novecento o di ultima generazione, è la bellezza dei paesaggi che si alternano veloci dietro i finestrini: dal Gargano a Bari è un susseguirsi di improvvise visioni, che Lalla Romano cattura e ci restituisce sotto forma di veloci schizzi, abbozzati più con i colori della regione che con le parole.

Scrive:

Ogni campagna intravveduta all’alba dal buio e dal chiuso di un treno è una apparizione di purezza: esangue, fredda. Ma l’alba del Sud è calda, più che non sia nei nostri paesi l’aurora. Una dolcezza d’Oriente è in quell’aria, d’oro verde sono le foglie nuove della vite e del fico.

È la Puglia. Il monte Gargano già si allontana, di un azzurro poco più intenso del cielo. Si distingue ancora il profilo da cittadella crociata di Monte Sant’Angelo e la falcatura luminosa, celeste, del golfo di Manfredonia.

Trani. Cerco con gli occhi, riesco a vedere – alta, bianca – una fronte del Duomo, volta a guardare lontano sul mare.

Il treno si è fermato. La nettezza marina è nell’aria tra le case bianche. […]

In Puglia vedo i primi papaveri. Radi frammezzo ad altri fiori selvatici, di un rosso più intenso dei nostri; non solo di quelli chiari di montagna, anche di quelli emiliani, accesi, che ho visto infuocare intere distese di campi. Questi hanno un colore prezioso: non sensuale, mistico.

Le strade tra i campi, profilate dai muretti a secco di pietre tonde, bianche, sono polverose: strade buone a percorrersi a piedi scalzi o a dorso di mulo, al massimo in biroccio.

Nel mezzo di un campo, ogni tanto, una costruzione conica di pietra, un rozzo trullo non imbiancato: embrionale cupola, affine alle antiche tombe o tesori. (L. Romano, Diario di Grecia)

Paesaggio pugliese con papaveri
(Foto di Davide Roppo da Pixabay)

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Bari vecchia, piazza Ferrarese

Scendiamo dal treno a Bari in compagnia della scrittrice per la prima tappa del nostro viaggio.

Appena fuori dalla stazione, la città appare nella sua veste moderna e ottocentesca, quella del borgo murattiano, un susseguirsi ordinato di grandi strade borghesi ed eleganti viali, che disegnano una maglia geometrica totalmente estranea e quasi giustapposta alla disordinata trama mediterranea di vicoli e vicoletti, che invece caratterizzano la città vecchia. È proprio lì che ci dirigiamo velocemente con Lalla Romano, lasciandoci alle spalle la città moderna: «troppo occidentale, «milanese», per la nostra ansia di Oriente». (L. Romano, Diario di Grecia)

Dopo aver percorso via Sparano e attraversato corso Vittorio Emanuele, due tra le principali arterie cittadine, quasi senza soluzione di continuità, si apre davanti a noi Piazza Ferrarese, vera anticamera di Bari Vecchia. A Lalla Romano appare «una piazza, lunga, ampia, calma. Mi riesce familiare – a me provinciale – quasi l’avessi davvero attraversata, tanti anni fa, un giorno di passeggiata scolastica, “in fila”».

La piazza, oggi uno dei luoghi notturni della movida barese, deve il suo nome a un mercante originario di Ferrara che visse e fece la sua fortuna a Bari nel XVII secolo. È ancora possibile osservare la pavimentazione della strada romana Appia-Traiana che in passato passava proprio in questo punto della città. Sulla sinistra c’è la sala Murat, un ambiente che ospita mostre di arte contemporanea e, poco più distante, si scorge la zona absidale di una piccola chiesa, chiamata La Vallisa, risalente all’XI secolo. Questo luogo, oggi adibito ad auditorium diocesano, era la chiesa della comunità di mercanti Ravellesi e Amalfitani presenti in città nel Medioevo.

Sulla destra della piazza c’è l’edificio che un tempo era l’antico mercato del pesce comunale.

Piazza Ferrarese ha sempre rappresentato l’elegante ingresso alla città vecchia che, attraverso viuzze, vicoli e larghi, introduce il viaggiatore nel suo ventre che riserva non poche sorprese.

Così in cerca della Bari più autentica seguiamo la scrittrice:

Penetriamo, per vicoli, nella città vecchia; viva e insieme remota, piena di infanzia.

Una piazzetta irregolare, strana, meravigliosa. Da un lato casucce in vario movimento e colori, un po’ come una scena (in terra sono sparsi resti di ortaggi, dopo il mercato), e di fronte la mole austera, semplice, chiara, di un castello di pietra. Castello svevo (o normanno: nomi che fanno sognare). Sulla prima rampa corrono giocando, gridando, bambini. Il Duomo incombe con la sua maestà su un’altra piazzetta paesana, piccola, allegra. (L. Romano, Diario di Grecia)

 

Siamo giunti in Piazza Federico II, incorniciata tra i due poli architettonici e simbolici della città, il Castello Svevo e in lontananza la Cattedrale di San Sabino, intitolata anche alla Vergine Odegitria o Madonna di Costantinopoli. Prima di riprendere il cammino consigliamo al viaggiatore una visita a questi due monumenti cittadini.

Alle spalle della Cattedrale si stende il labirintico dedalo dei vicoli di Bari Vecchia, che a molti viaggiatori potrà evocare le città del Medio-Oriente. Qui la gente vive per le strade, strade bianchissime e pulitissime, dove i bambini giocano e gli adulti conducono i loro affari quotidiani, botteghe improvvisate si alternano a banchetti, dove signore con le mani segnate dall’esperienza preparano la pasta fresca locale. Consigliamo un passaggio nella strada oramai nota come la ‘strada delle orecchiette’, in via Arco Basso, dove le massaie della città vecchia, sedute le une accanto alle altre sull’uscio di casa, impastano e confezionano le orecchiette, una delle eccellenze gastronomiche baresi.

Le stradine del centro storico brulicanti di vita destarono l’attenzione di Lalla Romano che, trovandosi in città nel periodo pasquale, ebbe modo di osservare le vetrine dei fornai, per l’occasione, ricche di prodotti tipici, come le scarcelle e i taralli pasquali chiamati anche occhi di santa Lucia.

Scrive:

Le strade sono così piccole che noi abbiamo l’impressione di essere giganti; tanto più che esse sono formicolanti di bambini piccoli, i quali ne portano in collo altri piccolissimi.

Qualcuno è incantato davanti a una vetrina; vetrina di panettiere, che espone ovetti per l’imminente Pasqua. Uova col guscio fissate a un disco di pasta che le attraversa. […]

Vi è povertà in queste strade, anzi, miseria; ma è miseria bianca, non nera. Le case sono tutte intonacate di fresco, candide.

Ai crocicchi, tavolinetti espongono mercanzia minuscola, quasi inesistente, uguale a quella con cui si giocava da bambine «a vendere»: boccette, polverine, qualche pizzico di semi. (L. Romano, Diario di Grecia)

ari
Bari, Piazza Federico II, Castello Svevo.
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Bari, Cattedrale di San Sabino
(Di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=61448663)
Bari, Basilica di San Nicola
(author: Francesco9062 – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18279866)

La visita non può che concludersi nel luogo simbolicamente più importante di Bari vecchia, la piazza dove si erge maestosa la bella basilica romanica di San Nicola.

La Romano descrive con queste parole il suo incontro con la vivace umanità che si affolla intorno alla chiesa:

San Nicola, circondato di spazio, è immenso. Fa pensare a un Medioevo luminoso.

Dentro, monaci fraseggiano dal coro. Sopraggiungono anche qui bambini, entrano coi fratellini incollo, li fanno sedere, additano loro i monaci: li portano in chiesa per tenerli buoni.

Fuori, altri bambini corrono, si radunano cheti, ripartono chiassosi. Su un parapetto uno piccolo, di un anno al massimo, già sicuro corre sui piedini nudi e ogni tanto, invece di cadere, fa un piegamento e poggia le palme davanti ai piedi, il culino in aria, nudo. (L. Romano, Diario di Grecia)

La Basilica che si specchia nelle acque dell’Adriatico fu per secoli punto di riferimento per naviganti, pellegrini e viaggiatori diretti o di ritorno dall’Oriente che approssimandosi al porto, immediatamente, si confrontavano con la sua sagoma. Per Lalla Romano, giunta sino a qui, il mare che bagna Bari vecchia e quasi lambisce le fondamenta di San Nicola annuncia l’imminente viaggio. Scrive:«Andiamo a guardare il mare. È celeste e luccica, presagio di favolosi viaggi».

La mattinata barese della scrittrice volge al termine, invitiamo il viaggiatore a seguirla mentre, di ritorno in stazione, riattraversa il centro murattiano, fermandosi davanti alla vetrina della Libreria Laterza in via Sparano:

Riattraversiamo la città nuova, così milanese c’è perfino «il Motta».

Lunga la via centrale Stefano mi mostra a dito l’insegna di un negozio. Leggo: G. Laterza e Figli. Dio mio! Come ho potuto scordarmene? Le edizioni Laterza sono state il latte, per noi. Vagheggiate, centellinate nelle biblioteche al tempo dell’adolescenza squattrinata, poi i primi gelosi acquisti: l’Estetica di Croce, la Nascita della tragedia.

Attraversiamo la strada, con la reverenza e la curiosità del caso. La vetrina è piena di Santi. Di statuine della Madonna del sacro Cuore. Dunque tradimento è l’anima del commercio! Ecco una buona signora col suo ragazzetto, vanno ad acquistare da Laterza un catechismo o una Piccola Filotea.

Giriamo l’angolo, e nelle vetrine di là i veri Laterza stanno allineati, distanziati signorilmente, nel sottile rarefatto silenzio del pensiero laico. (L. Romano, Diario di Grecia)

Oggi il bar della Motta, citato dalla scrittrice, per molti anni punto di riferimento per gli aperitivi domenicali dei baresi, non c’è più, mentre è ancora possibile entrare nella sede della storica libreria e casa editrice Laterza in via Sparano. Per oltre un secolo la Laterza ha animato la vita culturale di Bari, oggi quelle stesse vetrine che emozionarono la Romano, cresciuta sui libri pubblicati da questi editori meridionali, sono schiacciate e ridimensionate tra le vetrine luccicanti dei negozi di prestigiose marche di abbigliamento che ne hanno rilevato in parte i locali.

Lettera commerciale della ditta di Bari Giuseppe Laterza & Figli su carta intestata che riproduce lo stabilimento e il negozio, Bari 8 settembre 1920.
(Public domain)
Corfù, vista dal mare
(foto partner)

Lasciata Bari, la scrittrice prenderà un treno che la condurrà a Brindisi da dove s’imbarcherà alla volta della Grecia. Il viaggiatore invece oggi potrà optare per imbarcarsi direttamente dal porto di Bari che collega la città con le Isole Ionie.

Non resta che godersi il tempo del viaggio, approfittando della vista offerta dalla cabina della nave per osservare la Puglia in lontananza che alla scrittrice «pare già una memoria», con la «sua malinconia occidentale».

Scrive:

Il mare, calmo, è esso stesso elemento del silenzio, è uno spazio incorporeo, una eterea pianura che introduce a un viaggio al di là del tempo. […]

Ci stacchiamo dall’Italia.

Un tremito, un trapestio profondo, sussulti: la nave si muove. Ci troviamo nel salone di poppa e le vibrazioni, l’incipiente rullio sono sensibili, eccitanti.

Lo scenario dietro le vetrate si sposta: l’alta città murata, grigio-rosa, scivola all’indietro, s’inclina di sbieco, si allontana.

La nave raggiunge e supera un favoloso castello svevo ormai cupo, notturno, sul mare ancora chiaro, si scioglie dagli abbracci, dai lunghi tentacoli dell’immenso porto e scivola via nel crepuscolo.

A mano a mano che la nave si immerge nella solitudine delle acque e della notte, provo uno sgomento e insieme un’esaltazione: come se avessimo iniziato un viaggio supremo, verso una beatitudine difficile e incorporea. (L. Romano, Diario di Grecia)

La nave approda a Corfù la mattina del 18 aprile del 1957. L’isola si rivela alla scrittrice alla luce del nuovo giorno e la sua fantasia è immediatamente catturata dal Vecchio e dal Nuovo Forte veneziano che ne disegnano e proteggono le coste. Così li descrive:

Si profila una fortezza grigia e verde, a forti spalti, a zone dirupate, erbose: una fortezza antica, in abbandono. Ci devono essere sentieri costeggianti le mura, per le passeggiate domenicali delle famiglie; fossati e cunicoli per i giochi dei ragazzi, prati per le greggi e i loro pastori. Come nella fortezza che Redburn-Melville salutò salpando da New York.

Nel punto dove attracchiamo, abbiamo di faccia un’altra fortezza, meno antica ma non meno solitaria e dormente.

Ventosa, la vasta banchina è chiusa in fondo da un viale di tozzi platani come una piazza di paese. Vicino a riva, bancarelle di paccottiglia: minime anforette rosse e nere, rosari turchi di ambra gialla.

Autobus e jeeps ci porteranno a visitare l’isola. (L. Romano, Diario di Grecia)

Corfù vicolo del centro storico
(“Colour Wash” by kamshots is licensed under CC BY 2.0 )

Anche Emilio Cecchi, sofisticato viaggiatore e raffinato scrittore, circa venti anni prima, nel 1934, arrivò a Corfù di mattina e così ci racconta quell’esperienza nelle prime pagine del suo libro Et in Arcadia Ego:

È assai bello arrivare in un’isola ancora addormentata, e con appena qualche pagliuzza di sole in cima ai monti. Così dormiva Corfù. E dal molo appressandoci alle abitazioni, e forse a motivo di quelle persiane abbassate alle finestre sulla marina, si aveva un senso come a giungere di sorpresa, clandestinamente. […]

Nelle stradette era il silenzio della città che ha fatto tardi la notte fumando e chiacchierando; un odorino di cicche che macerassero nella guazza: lo stesso umido tanfo che all’alba si sente nei caffè appena aperti […]. Deserto era anche lo spiazzo del mercato, con intorno sbilenche baraccucce d’aspetto balneario. Soltanto usciti dall’abitato, e inoltrandoci velocemente nella campagna, si incominciò ad incontrare qualcuno: contadini sul loro asinello, donne che con una corda si tiravano dietro la capra; e accosto ad ogni casa colonica, legato al piuolo, un giovenco, come un monumento votivo.

E più s’andava avanti, più le ragazze e le donne diventavano belle. […]

Erano, queste, mistiche immagini bizantine: le immagini più bizantine che abbia mai veduto fuor che nei musei e nei mosaici. Pallidi i volti, incorniciati di panni neri, gli occhi stellanti, trapunte le vesti composte a pieghe ed angoli simmetrici. E in quell’avvallamento verde e senza sole, sotto la cupola del cielo bianchiccio, stavano con una grazia maestosa ed inutile di pitture bizantine mezzo scancellate. […] (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego.)

Corfù, Achilleion
(foto di Piotrus – Opera propria, CC BY-SA 3.0
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12187305)

Invitiamo il viaggiatore a seguire lo scrittore che sta lasciando il centro della città di Corfù per dirigersi nel villaggio di Gastouri dove si trova l’Achilleion, «la villa della povera Elisabetta d’Austria, poi di Guglielmo II, oggi passata al governo greco» (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego).

A Lalla Romano, anche solo il nome di questo monumento, esattamente come quello di Corfù, evoca immediatamente ricordi letterari e suggestioni romantiche. Ricorda la scrittrice:

Corfù. Da bambina mi piaceva ripetere questo nome; e il verso del Pascoli:

nel solingo Achilleo di Corfù

Inutile, adesso, ridurlo a quello che è; per me è ancora bello: pieno di silenzio, e di una lontana musica settecentesca. Ignoravo cosa fosse l’Achilleion, e quando seppi che era stato il rifugio di una regina infelice, il fatto non mi disturbò, ma non aggiunse nulla all’incanto di quel nome. (L. Romano, Diario di Grecia)

Con occhio più disincantato, a tratti dissacrante, Emilio Cecchi ci accompagna all’interno di questo palazzo dalle forme ostentatamente neo-classicheggianti, famoso per essere stato l’amata residenza di Sissi, l’imperatrice Elisabetta d’Austria. Ancora oggi è una delle attrazioni turistiche principali dell’isola. Scrive Cecchi:

Avete voglia a combinare esposizioni retrospettive di vita e costume dell’Ottocento, mettendoci ogni finezza di satira archeologica! Per fare un Achilleion occorsero niente meno che i sedimenti di due Imperi. Il cattivo gusto, la tristezza di due Imperi. A mezza costa. Fra palmette, bambù e viti americane, il prodotto di questa grandiosa collaborazione sta, sbreccato e spaesato, come il relitto di un mondo assolutamente estraneo, come un enorme polipaio lasciato in secco dal mare.

Lievemente, dinanzi alla villa, il giardino discende fino a una terrazza semicircolare, protesa sul panorama con l’aria di un ponte di comando d’una nave ammiraglia. […]

Fra le aiuole, un nudo di Frine, dozzinali frammenti di scavo, bassorilievi di donne scarmigliate e ploranti che vorrebbero sembrar greche, ma il liberty si sente lontano un miglio. Per vialetti e pergole inselvatichiti, s’arriva al ponte di comando, sul quale pavoneggia un altissimo Achille di marmo grigio, stile Thorwaldsen. […]

Presso la villa, altra scultura bavarese del Pelìde, ma questa volta moribondo, e intorno disseminati marmi e bronzi d’Amori, Muse e Lottatori: il più trito repertorio ellenistico che va a gran tiratura sulle cartoline illustrate. (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego.)

Con Cecchi continuiamo la nostra visita all’interno dell’Achilleion:

[…] Finalmente s’entra. C’è di tutto. Divani rococò. Stipi moreschi, intarsiati d’ebano e madreperla. E in bella cornice, scialbe istantanee eseguite dall’imperatore. […]

Quanto ad Elisabetta [Elisabetta II d’Austria, l’imperatrice Sissi], vestigia del suo gusto personale sono nella cappella a pianterreno. E la cappella sembrerebbe quasi romanica, se il catino dietro l’altare non portasse un affresco floreale, se alle pareti non fossero murate riproduzioni di terracotte della Robbia, e i candelieri di ottone e varia suppellettile non provenissero dalle lontananze d’ancor altre civiltà: nel complesso, un bazar triste e meticoloso. […]

Sulle brezze ioniche, Elisabetta ascoltava echi della canzone di Heine. Ma Guglielmo, rimirando Achille, pensava che con pochi ritocchi si poteva benissimo presentarlo come Sigfrido. Böcklin ebbe la prima, primissima idea dell’Isola dei Morti. (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego.)

La statua di Achille descritta da Emilio Cecchi
(Foto di Ava Babili is licensed under CC BY-NC-ND 2.0 )

Lo scrittore ironizza sull’identificazione, assolutamente fittizia e priva di reali prove, dell’isolotto di Pontikonissi con il soggetto del quadro del maestro simbolista Böcklin. Questo luogo, indiscutibilmente suggestivo, è poco più di un’alta scogliera sul mare circondata da un boschetto di cipressi, raggiungibile in barca dal molo su cui sorge il Monastero della Vlacherna, dove arriva anche Lalla Romano e fa tappa il nostro itinerario.

Visto da lontano, il bianco monastero sembra alla scrittrice anch’esso un’isola circondata dal mare:

Un mare liscio come un lago, e come un lago cinto di colli ondulati vicini e lontani, in una luce specchiante di miraggio, nel sentore amarognolo della primavera. Nel mare due piccole isole, sorprendenti: una bianca e una nera. Quella bianca – bianchissima, di calce – è un convento, ha un campanilino piatto e due campane; è unita alla terra da un pontile di sassi. L’altra, un po’ più indietro, nero-azzurra di cipressi e di pini. Quale sia la più misteriosa, non so.

[…] Il sentiero mi par familiare, uguale a quelli che scendono su Punta Chiappa di Camogli. Ora si vede che oltre al breve pontile dell’isola bianca, a destra corre un lungo molo o gettata di cemento che raggiunge l’altra riva e racchiude così un’ampia laguna.

Mentre trottiamo sul sottile cammino a fior d’acqua verso il convento bizantino, vediamo sfilare lentamente sul molo a lato un asinello col suo basto, e sopra un bambino; dietro ad esso un uomo che si appoggia a un bastone. La povertà e gentilezza «umbra» di quelle figure fa sembrare preziosa la pace del bianco convento.

Quando si entra è diverso. Nell’intimità questa pace è vera. La chiesa, piccola, nera dentro, è per me montanara col suo pavimento di legno, coi suoi ex voto vecchi e naïfs. I quadri sono icone.

Usciamo. Il mare fa specchio. […] Qui veniva a pregare la regina infelice dell’Achilleion. (L. Romano, Diario di Grecia)

Dal piccolo bianco monastero ortodosso, dove l’imperatrice Sissi andava a pregare, Lalla Romano si sposta sull’isolotto di Pontikonissi, che secondo un’antica leggenda, oltre ad essere stato d’ispirazione per il quadro di Böcklin, sui cui ironizzava Cecchi, altro non sarebbe che la nave dei Feaci trasformata in pietra da Poseidone per vendicarsi dell’aiuto offerto ad Ulisse. Le emozioni e i ricordi che in lei suscita il luogo sono affidate a queste parole:

L’isola nero-boscosa è vicina, pare debba mettersi a navigare, come una nave mimetizzata. È il contrappasso del mito, perché quell’isola è la nave dei Feaci. Mentre risaliamo il sentiero «ligure», incantevoli bambini ci porgono rametti fioriti che odorano fresco, dolce. Bambini scalzi, muti e sorridenti come i nostri di montagna quando sono davanti a forestieri. Sono insistenti come ospiti, non come mendicanti. Non chiedono infatti, offrono. Distribuiamo soldini, soldini greci, fin che ce n’è. Quando non ne abbiamo più ci mettono lo stesso in mano i rametti. (L. Romano, Diario di Grecia)

Pontikonissi, veduta
[author: Alinea CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)]
Pontikonisi_Island_05-06-06.jpg
Corfù, isolotto di Pontikonissi
[author: Sascha Askani, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=204175]
Arnold Böcklin, L’isola dei morti (terza versione)
Corfù, centro storico
Author: Lao Loong [CC BY-SA 1.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/1.0)]

In compagnia delle nostre guide letterarie, l’itinerario prosegue per la città di Corfù, in cui l’eleganza veneziana delle architetture e delle strade si combina felicemente con il fascino dell’Oriente mediterraneo di chiese ortodosse e di usi e costumi delle popolazioni locali. Scrive Lalla Romano:

[…] attraversiamo a piedi la città. Non so se sia veneziana come dicono, certo è occidentale, genovese direi, con le sue case alte, bianche e rosa.

[…] guardo le bottegucce. Si piomba nella più remota infanzia, per chi l’ebbe paesana come me. Bottegucce povere, polverose, buie; per entrare si salgono – o scendono – scalini. Odore di carrube, di canfora; vi si vendono ceri, cartoline, ogni cosa. (L. Romano, Diario di Grecia)

Ci sono luoghi e momenti a Corfù in cui è possibile immergersi totalmente in questo felice connubio tra stile italiano, occidentale, latino e cultura ortodossa che caratterizza la cittadina, come quando, ad esempio, si celebra un battesimo ortodosso nella chiesa di San Spiridione, eretta nel XVI in forme veneziane. Questa fortuna toccò ad Emilio Cecchi che ce ne lascia una vivida descrizione, grazie alla quale anche il viaggiatore potrà gustarne l’atmosfera. Entriamo in chiesa con lo scrittore:

[…] nella chiesa ortodossa di San Spiridione, genti accorrevano vociferando, quasi ci fosse, che so, un tentativo rivoluzionario. Scontrandosi come le formiche, si davano attorno con gialli candelini accesi. Ma poiché nessuno accennava a manomettere le lampade d’oro e d’argento a modello di barca, e d’argento anch’esso il sepolcro del santo, faceva presto a chiarirsi che, nonostante le stride, forse non stava succedendo niente di male.

Era infatti un battesimo. E la ressa e l’entusiasmo dei parenti fino al settimo grado; […] cantando le preci, il prete cercava di soperchiar quegli strilli; ma intanto gli si scioglievano, sulla nuca e le orecchie, crollando sotto la stola, grosse pesanti trecce brune, vere trecce da donna, da donna anzianotta; che a noi, non abituati, vedendole in testa ad uomini, fanno un effetto un po’ discostante. A leggerne negli storici, è così poetica la vita nella chiesa cristiana, i primi decenni dalla vita di Gesù. […] Eppoi, guardandoli meglio, si vede che sono della stessa pasta della gentuccia che popola certe pagine di Aristofane, di Teocrito; ma diventati più gravi, pudichi, eroi. Il senso di questo greco cristianesimo, casalingo, primordiale, è fra le più delicate e commoventi intuizioni che subito s’incontrano dall’altra parte dello Ionio. […]

Dalle pareti di San Spiridione, dorate pitture venezianeggianti (con i fortilizi, i marmi, la lingua, fra le tante nostre testimonianze su queste rive) guardano quella agitazione, quella dolorosa vivacità di stirpi urtate, confuse, consunte, quel disordine che in Corfù già sente di turchesco e carovaniero: guardavano con la serena dignità dell’occhio latino. (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego)

Lasciamo Emilio Cecchi, San Spiridione e Corfù e proseguiamo il nostro itinerario, imbarcandoci nuovamente in compagnia di Lalla Romano, in direzione di Itaca.

La traversata in nave, per raggiungere la più omerica fra tutte le isole, regalerà al viaggiatore paesaggi mediterranei di incredibile bellezza che non lasciarono indifferente la scrittrice che racconta:

Scivoliamo tra isole bianche e petrose, nel sole. Danno un’impressione quasi cruda di nudità.

Forse consiste, l’essere isole, in quella leggerezza di uccello appena posato, e in quell’irremovibilità, insieme, di statue che si debbono aggirare. Appaiono con nostro stupore; con nostro rimpianto dileguano. […]Stiamo costeggiando Itaca, ci dirigiamo verso un porto. Le rive sono vicine. Aspre, montuose, carsiche. Poco sopra l’orlo del mare corre un sentiero che sembra però naturale, non tracciato dall’uomo. Silenzio e deserto. Luce pomeridiana, un poco più calda ma non meno chiara della mattinale. La terra che traspare tra la pietra bianca, è rossa. Lo strano sentiero non è mai stato calpestato, o chissà? (L. Romano, Diario di Grecia)

L’arrivo a Itaca suscita nella Romano le stesse emozioni che ancora oggi provano molti viaggiatori che raggiungono quest’isola collinosa, dove, come cantato nell’Odissea, dopo lunghissime peripezie e molte avventure, infine approdò Ulisse. Itaca, per la scrittrice, è più di un’isola del mar Ionio, non è solo la patria dell’eroe omerico, ma in qualche misura è l’isola di ogni viaggiatore, «è la patria, la casa di tutti», dove riconoscere il senso profondo della nostra civiltà e cultura.

Scrive Lalla Romano:

Itaca. Commuove che sia davvero petrosa. Del resto, prima è stata un’isola come le altre, un’isola senza nome; e dopo, la patria di Ulisse. Anzi, la patria, la casa di tutti noi. Non più Itaca di un’altra, dunque. (L. Romano, Diario di Grecia)

Ithaca
(foto partner)

Rivolgendosi alla sua guida la scrittrice comincia a raccogliere informazioni sui luoghi cantati nell’Odissea:

Il Mitropulos [Mitropulos è il nome fittizio della guida greca di Lalla Romano], interrogato se la città che vediamo sia nel posto di quella di Ulisse, dice che no, che la baia di Ulisse era un’altra e indica una valletta profonda, in ombra e boschiva. – Là, – dice era l’approdo di Ulisse –. Stiamo già passando oltre, ma ho veduto – o sognato di vedere? – un filo di fumo, azzurrino. Eppure la valletta appariva disabitata. Lo straordinario del resto è che esista, intravveduta in qualche parte quaggiù. (L. Romano, Diario di Grecia)

Ancora oggi a Itaca numerosi sentieri escursionistici conducono nei luoghi veri o presunti, legati alla tradizione omerica. Non sempre si tratta di strade semplici da seguire e, ironia della sorte, cercarli potrebbe diventare un’impresa epica, sia per le grandi distanze da percorrere esclusivamente a piedi, sia per la scarsa segnaletica. Si tratta ovviamente di siti leggendari, su cui gli archeologi si sono spesso schierati su posizioni contrapposte. Con questa consapevolezza, giunti nell’isola per eccellenza, consigliamo al viaggiatore di non negarsi il piacere di una visita alla Fonte Aretusa. Questa sorgente naturale, a circa dieci chilometri da Vathy – il principale centro abitato di Itaca – è il luogo dove, secondo l’Odissea, Eumeo, il porcaro di Ulisse, portando i maiali ad abbeverarsi incontrò l’eroe che era da poco finalmente sbarcato sull’isola.

Nei pressi del piccolo villaggio di Stavròs, nella parte settentrionale, tra colline coperte di ulivi e coltivate a viti, si trova un piccolo museo archeologico e i resti di un palazzo dalle mura ciclopiche che oggi, sulla base di recenti scavi archeologici, è stato identificato come la possibile reggia di Ulisse, quella stessa reggia che invece l’archeologo Heinrich Schliemann, colui che portò alla luce i resti della città di Troia con i poemi di Omero come guida, aveva collocato nei pressi di Alalkomenés, vicino il monte Aetós.

Itaca, oltre a questi luoghi dal fascino mitologico e letterario, offre al viaggiatore anche altre attrattive: bellissime insenature naturali e spiagge, il villaggio portuale di Vathy e altri piccoli borghi, incastonati tra le colline. Scrive la Romano:

[…] nella rada ben chiusa dalle colline la nuova Itaca bianca, rosa, piccolo borgo sul mare.

Dopo, guarderò uomini e case. Ora guardo le colline in cerchio. Piene di forza e povere. Dolci. Dolci nelle linee ferme e calme, prive di ogni vaghezza di alberi o prati o coltivi. Qualche albero c’è, a piccoli gruppi, radi, due o tre, anch’essi di natura aspra, non sognante. Non è dolcezza. È ritmo, severo. È un senso, concluso, di unità. (L. Romano, Diario di Grecia)

Zona archeologica di Alalkomenés
Resti di mura nei pressi di Stavròs

Consigliamo al viaggiatore di perdersi nei villaggi e nelle colline che emozionarono Lalla Romano. Merita una visita l’antica capitale di Itaca, Anogí, situata a 500 metri di altitudine e a circa quattordici chilometri di distanza da Vathy. Qui è possibile ammirare l’antica chiesa dell’Agia Panagia con i suoi pregevoli affreschi bizantini. Il nostro itinerario si conclude in questo luogo e oramai non ci resta che lasciare l’isola all’imbrunire, come fece Lalla Romano che con queste parole si congeda da Itaca:

Partiamo verso sera. L’isola è più misteriosa, più solitaria. […]

Non c’è spiaggia né scogliera, il mare lambisce la roccia carsica, come se avesse sommerso una valle. Ciò dà l’impressione di un evento recente, in quest’aria senza tempo.

E del resto, perché questo luogo è antico? Immemoriale è la storia dei monti e dei mari, e questo mare non è più antico di un altro.

Ma questa è la Grecia: vale a dire siamo noi, uomini, antichi. (L. Romano, Diario di Grecia)

Noi, invece, ci congediamo dal viaggiatore e dall’isola condividendo l’augurio e i versi del poeta greco Kostantìnos Kavafis:

[…] Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

(K. Kavafis, Itaca)

Anogi
Anogí, Agia Panagia, iconostasi.
Itinerary

Passeggiando con Sissi

Corfù: monte Pantokrator, Kanoni, Benitses, Paleokastrizza, Lakones, Agia Kiriaki, Evropouloi

Itinerario – Passeggiando con Sissi
[Tedesco]
[Spagnolo] 

In questo itinerario proponiamo al viaggiatore di scoprire le bellezze di Corfù passeggiando idealmente a fianco dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, la sovrana, conosciuta come Sissi, che amò profondamente la Grecia e in particolare quest’isola, nella quale trascorreva lunghi periodi di vacanza in cerca di quella pace interiore che sembrava mancarle nella corte imperiale di Vienna.

La Principessa Sissi, part., Franz Xaver Winterhalter, 1865

Durante i suoi soggiorni sull’isola l’imperatrice amava fare lunghe passeggiate ed escursioni, che il viaggiatore potrà ripercorrere attraverso i fogli di diario del suo mentore e maestro greco, Constantin Christomanos, che fu spesso suo compagno di strada e di viaggio. I ricordi delle gite e delle passeggiate in compagnia della sovrana, nelle pagine scritte da Christomanos, sono proiettati in una dimensione dagli scenari fiabeschi, in cui le suggestioni classiche e omeriche convivono con l’accentuata sensibilità romantica dell’autore. Iniziamo il nostro itinerario seguendo il viaggio dell’imperatrice che il 15 marzo 1892, in compagnia del maestro Constantin, s’imbarca da Pola, sul panfilo imperiale Miramare, per raggiungere Corfù. La navigazione attraverso le acque del mar Adriatico è tranquilla, per la sovrana un momento quasi idilliaco, come confida al suo mentore:

La vita sulla nave è qualcosa di più che un semplice viaggiare. È una vita migliore, più vera. […]. È come trovarsi su un’isola da cui sono banditi tutti i fastidi e i rapporti umani. È una vita ideale, chimicamente pura, cristallizzata, in cui sono assenti i desideri e si perde il senso del tempo. Avere la percezione del tempo è sempre doloroso perché ci trasmette la percezione della vita. […]. La vita sulla nave è molto più bella di qualsiasi sponda. Le mete di un viaggio sono desiderabili soltanto perché tra noi e loro si frappone il viaggio. […] Sapere che devo presto ripartire mi emoziona e mi fa amare qualsiasi luogo. E così, ogni volta, io sotterro un sogno che svanisce troppo in fretta, per inseguirne un altro. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Il 17 marzo, il panfilo raggiunge il Mar Ionio e all’alba entra nello stretto canale che si apre tra la punta settentrionale di Corfù e le catene montuose dell’Epiro. Il viaggiatore, che ancora oggi raggiunge le Isole Ionie in nave dall’Adriatico, potrà ammirare dal ponte il paesaggio descritto da Christomanos:

I monti neri come pece, spiccavano sul pallido verde-grigio del cielo. Le rotonde colline rocciose della riva di Corfù erano coperte da una bassa sterpaglia, nera anch’essa, che si disegnava con incerti contorni su quel fondo scuro. Molti di quei cespugli dovevano essere in fiore, poiché di tanto in tanto arrivava alla nave un profumo intenso, come di miele frammisto, frammisto all’odore che esalava dalle rocce bagnate. Là dove le colline assopite erano cinte dal mare spumeggiante, si scorgevano macchie scure che facevano pensare a caverne insondabili. Una fascia appena increspata lambiva quietamente la riva sassosa, quasi la baciasse nel sonno. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

 

Lo sguardo di Sissi è catturato dal monte Pantokrator che con i suoi due corni gemelli, che s’inarcano, ricordano la posa di una statua greca. Avvicinandosi all’isola, con l’avanzare del mattino, il viaggiatore, come la bella imperatrice, potrà osservare le cime dei monti che cominciano a brillare alla luce dell’aurora che conferisce al paesaggio una dimensione mitologica.

Scrive Christomanos:

[…] un’atmosfera sovrannaturale fatta di rosea polvere d’oro, nella remota distanza e nel fulgore di una mitica età degli dei. Anche a non saperlo s’intuiva che qui era la patria della «dea dalle dita rosate» e di Febo dai bianchi destrieri. Poi le rose sono cadute sul torso di pietra del Pantokrator. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

 

Guido Reni, Aurora, Casino Pallavicini, Roma

La nave imperiale prosegue in direzione della baia di Garitsa, una «lingua di terra tutta ricoperta di vegetazione», e all’epoca del passaggio di Sissi, «come da una cornucopia gli alberi e i fiori si rovesciavano sul litorale; aloe e palme levavano alte le loro chiome nell’azzurro». Oggi, lungo questa insenatura, corre un incantevole lungomare dal quale si può godere di una vista molto suggestiva che spazia dal Vecchio Forte Veneziano al faro.

Veduta di Corfù, sulla sinistra la baia di Garitsa

Foto di Corfu Town R02.jpg: Marc Ryckaert (MJJR)derivative work: ויקיג’אנקי – This file was derived from: Corfu Town R02.jpg:, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=31692771

Questo luogo, così suggestivo, non lasciò indifferenti la sovrana e il suo compagno di viaggio che lo descrive con queste parole:

Era un angolo appartato, come se facesse parte di un altro mondo, ancora immerso in un pallido sopore sotto un involucro di seta luccicante. Ma in mezzo alle acque assopite si levava un fascio di neri cipressi che cingevano una chiesetta bianca; e dove la rupe che reggeva i cipressi si tuffava nel mare, questo si tingeva di rosso per il riflesso dei rossi gerani. Quell’isola mi sembra il modello dell’Isola dei morti di Böcklin […]. Quei cipressi laggiù somigliano a sogni cupi, e i fiori rossi che si specchiano nell’acqua con i loro riflessi sono sacri a Persefone. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Christomanos non è l’unico ad aver voluto identificare l’isolotto greco con il luogo ritratto dal famoso pittore simbolista. Su Pontikonissi, che più prosaicamente i Greci chiamano «l’isola dei topi», fantasie e suggestioni letterarie e artistiche sono proliferate. La leggenda vuole che quello scoglio altro non sia che la nave dei Feaci trasformata in pietra dalla vendetta di Poseidone, e ancora, secondo altri, potrebbe essere l’isolotto su cui William Shakespeare immaginò di ambientare la Tempesta.

Il 17 marzo 1892 la scialuppa imperiale tocca riva e approda nella baia di Benítses, nei pressi dell’omonimo villaggio. Oggi, questo ameno borgo, a soli quattordici chilometri dalla città di Corfù, è una popolare meta turistica e un’apprezzata località balneare, per la sua bella spiaggia di sabbia e ciottoli. Tra le colline boscose che circondano la zona sono ancora visibili le rovine di un’antica villa romana.

Pontikonissi, veduta
[foto di Alinea CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)]
Pontikonisi_Island_05-06-06.jpg
Corfù, isolotto di Pontikonissi
[foto di Sascha Askani, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=204175]
Arnold Böcklin, L’isola dei morti (terza versione)

Corfù, Achilleion

Author: No machine-readable author provided. Tasos Kessaris assumed (based on copyright claims). – No machine-readable source provided. Own work assumed (based on copyright claims)., CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1173278

Nella parte meridionale dell’isola di Corfù, tra Benítses e Gastouri, in cima a una collina, sorge l’amata residenza di Sissi: il Palazzo Achilleion, costruito alla fine dell’Ottocento. È in questo luogo che, una volta sbarcati, si dirigono l’imperatrice e il fedele Constantin che, nel suo diario, si dilunga nella descrizione di questa villa in stile pompeiano, oggi forse un po’ kitsch, ma ancora in grado di attirare numerosi turisti per la bellezza dei suoi giardini e per il fascino che continua ad esercitare la figura di Sissi.

Lasciamo ai fogli di Christomanos il compito di guidarci tra i lussuosi ambienti di questa dimora:

Il palazzo è incassato nella montagna. Il lato anteriore ha tre piani, mentre sul retro vi è un unico piano che dà su un’ampia terrazza a giardino con alberi secolari. La facciata guarda sulla strada maestra che da Corfù porta alla spiaggia di Benizze attraversando il bianco villaggio di Gastouri e passando davanti al castello. Un alto muro bianco e la cortina fronzuta degli ulivi fanno da riparo contro gli sguardi indiscreti. […] Sulla strada si apre un grande cancello di ferro con la scritta «AXIΛΛΕΙON». Una rampa sale dolcemente verso il portico antistante il castello: poderose colonne sostengono l’ampia veranda dei centauri. Il secondo e il terzo piano rientrano in modo da lasciare spazio a due logge, a destra e a sinistra della veranda dei centauri, con la quale comunicano; (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos).

Un peristilio accompagna il lato dell’edificio che si apre sul giardino pensile. La parte inferiore delle colonne è colorata di rosso cinabro; i capitelli, dipinti di azzurro e di rosso, con ricche dorature, si stagliano mirabilmente contro la parete retrostante, in rosso pompeiano, nella quale sono affrescati grandi medaglioni che rappresentano leggende classiche […] e paesaggi ispirati all’ Odissea. […] Di fronte a ogni colonna del peristilio è collocata una Musa di marmo, in grandezza naturale, con Apollo Musagete in testa. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Le statue, confida Sissi all’amico, sarebbero tutte antiche, acquistate a Roma dal principe Borghese, costretto a «vendere i suoi dèi» per non andare in rovina.

I giardini dell’Achilleion permettono al viaggiatore di godere di una incantevole vista, la stessa che conquistò l’imperatrice d’Austria, così è descritta nei fogli di Christomanos:

[…] il mare, che sembra quasi salire verso l’orizzonte, disegna sul marmo bianco una linea scura, color vino: una linea tracciata nell’immensità di segreti inespressi, aldilà di ogni comprensione…E ancora più alti si ergono nel pulviscolo dorato i monti violetti dell’Albania. Non lontano una fitta macchia di allori accentua la classicità dell’insieme. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

L’intera costruzione di questo palazzo ruota attorno al tema decorativo e simbolico dell’eroe omerico Achille. Una delle statue preferite dall’imperatrice rappresenta il Pelide morente. L’opera, caratterizzata da un certo patetismo romantico e da un’accentuata plasticità delle forme, si trova su una delle terrazze panoramiche che guardano il mare.

Corfù, Achilleion, esterno, peristilio
Foto di Thomas Schoch — own work at http://www.retas.de/thomas/travel/corfu2006/index.html, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=843512
Corfù, Achilleion, statua dell’Achille morente
Foto di Dr.K. – Own work, CC BY-SA 3.0
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25907139
Picture 6
Corfù, Paleokastrizza, (“DSC_6083” by almekri01 is licensed under CC BY-NC-ND 2.0)

Elisabetta confessa di aver consacrato il suo palazzo all’eroe omerico che ai suoi occhi «personifica l’anima greca, la bellezza del paesaggio e degli uomini. […] La sua volontà era l’unica cosa che avesse sacra. È vissuto solo per i suoi sogni, e per lui il suo dolore valeva più della vita intera».

Lasciamo l’Achilleion e seguiamo Sissi e il suo maestro di greco durante un’escursione lungo la costa occidentale di Corfù, che ancora oggi vanta le spiagge e i villaggi più belli dell’isola. Il 20 marzo, i due si dirigono a Paleokastrizza, per visitare un antichissimo monastero che sembra sorgere in mezzo al mare, su uno scosceso promontorio collegato all’isola da una sottile striscia di terra.

I fogli del diario di Christomanos descrivono con dovizia di particolari il monastero e l’itinerario percorso, che invitiamo il viaggiatore a seguire in ideale compagnia di Sissi.

Racconta il maestro greco:

Non appena si abbandonano le strade carrozzabili, ci si addentra ogni volta nel sacro bosco di ulivi. Tutta Corfù è un immenso uliveto selvatico che cresce, oggi come secoli e millenni fa, sempre sulle stesse zolle, sempre vicino al respiro del mare. […] Camminavamo nella calda, fremente penombra, in mezzo a tronchi contorti che sembrano avere un’anima, […] d’improvviso, attraverso le fronde tremolanti degli ulivi, abbiamo indovinato un luccichio, ancora più inebriante dell’azzurro del cielo o dello splendore del sole che abbracciava gli alberi: il mare! – l’altro mare, quello occidentale, che non si vede dalla costa feacica dell’isola ma di cui si avverte sempre la vicinanza. Ben presto, da un’altura, lo sguardo si perde su una distesa senza fine, inverosimilmente azzurra, più azzurra del cielo, più azzurra di qualsiasi idea di azzurro, più beata di ogni beatitudine. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

È arrivati a questo punto che si scorge il monastero di Palaiokastrìtsa che significa «Quella (la madre di Dio dell’antico castello», in riferimento all’antico kastron bizantino che sorge poco lontano: Angelokastron, il bastione più occidentale di Corfù.

Continua la narrazione di Christomanos:

Il monastero – un complesso di piccole costruzioni antiche, strette l’una all’altra sotto uno stesso involucro di intonaco bianco e sovrastate da una cupoletta rotonda di tegole, un piccolo cortile lastricato e, infondo a questo la chiesa con la porta spalancata. […] In fondo alla chiesa, un’antichissima iconostasi di legno con la doratura tutta annerita. Davanti alle cupe immagini dei santi, di cui si distinguevano appena gli occhi bianchi in mezzo ai grandi anelli delle aureole, lumini a olio verdi e rossi ardevano dentro lampade d’argento appese a catene. Le loro fiammelle, perdute in un sogno, si affievolivano a tratti per rianimarsi subito dopo. C’era un forte odore di ceri spenti, di vecchio legno tarlato, di polvere e muffa. In nessun altro luogo si aveva così netta l’impressione di essere trascinati indietro nel passato dell’anima. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

 

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Corfù, Monastero di Paleokastrizza
Lakones
Foto di User: Hombre at wikivoyage shared, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22695421

È arrivati a questo punto che si scorge il monastero di Palaiokastrìtsa che significa «Quella (la madre di Dio dell’antico castello», in riferimento all’antico kastron bizantino che sorge poco lontano: Angelokastron, il bastione più occidentale di Corfù.

Continua la narrazione di Christomanos:

Il monastero – un complesso di piccole costruzioni antiche, strette l’una all’altra sotto uno stesso involucro di intonaco bianco e sovrastate da una cupoletta rotonda di tegole, un piccolo cortile lastricato e, infondo a questo la chiesa con la porta spalancata. […] In fondo alla chiesa, un’antichissima iconostasi di legno con la doratura tutta annerita. Davanti alle cupe immagini dei santi, di cui si distinguevano appena gli occhi bianchi in mezzo ai grandi anelli delle aureole, lumini a olio verdi e rossi ardevano dentro lampade d’argento appese a catene. Le loro fiammelle, perdute in un sogno, si affievolivano a tratti per rianimarsi subito dopo. C’era un forte odore di ceri spenti, di vecchio legno tarlato, di polvere e muffa. In nessun altro luogo si aveva così netta l’impressione di essere trascinati indietro nel passato dell’anima. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Lasciamo il monastero e le sue icone bizantine e proseguiamo il nostro itinerario, seguendo Sissi e il suo compagno di viaggio, durante la loro gita a Lakones, località che sorge su un monte a ridosso dell’edificio sacro.

Così il pittoresco villaggio è descritto nel diario di Christomanos:

In alto, verso la metà del pendio rivestito di ulivi e cipressi, abbiamo visto il villaggio di Lakones – quasi un filo di perle bianche –, dietro il quale le rocce salgono ancora, costellate di fiori gialli e viola, a formare delle coppe rotonde come seni nudi. Il villaggio di Lakones è un insieme di povere casupole d’argilla imbiancate a calce e abbarbicate alle rocce come nidi d’uccello saldati tra loro. Sui tetti a terrazza garofani e gerani fiammeggiano dentro cassette di legno; davanti alle porte, tra pilastri segnati dal tempo, stanno accovacciate donne di rara bellezza; qua e là grassi maiali si godono il sole sulla strada; (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Dopo una passeggiata tra le vie di questo borgo, che ha conservato l’autenticità di un tempo e, dopo esserci concessi una pausa nei suoi caffè o nelle sue botteghe artigiane, proponiamo al viaggiatore un’altra delle passeggiate che l’imperatrice amava fare a Corfù.

Questo cammino ha inizio nel villaggio di Gastouri, nei pressi dell’Achilleion, e ha come meta la collina dell’Agia Kyriaki, «l’unico luogo in cui tutto mi piaccia davvero – confessa Elisabetta – qui potrei persino venire meno ai miei princìpi e fermarmi per sempre». Si tratta di una piacevole escursione, della durata di venti minuti circa, con numerosi punti panoramici. Alla fine della passeggiata, per lo più all’interno di una lussureggiante vegetazione, si arriva in una piccola cappella, eretta in cima a questo colle, da cui si gode della magnifica vista della costa orientale dell’isola e della pittoresca Pontikonissi.

Infine, concludiamo questo itinerario tra i luoghi dell’isola cari all’Imperatrice Elisabetta d’Austria, con una visita alla Villa Capodistria, oggi museo dedicato alla figura di Giovanni Capodistria, politico e diplomatico che diventò, nel 1828, il primo governatore della Grecia indipendente. La bella residenza dell’eroe nazionale greco sorge poco distante dalla città di Corfù, a circa 10 chilometri dal centro, in una località chiamata Evropouloi.

Per arrivarvi Sissi e il fedele Constantin dovettero camminare, come loro abitudine, per ore tra aranceti e ulivi. Scrive Christomanos:

Il mare splendeva nel sole ed era coperto di schiuma. Mugghiava stentoreo, senza riprendere fiato. […] Nella Villa Capodistria – l’antica proprietà del conte Capodistria, che fu il primo reggente greco, una residenza di campagna in stile veneziano, molto segnata dal tempo – ci sono venuti incontro il fattore e sua figlia. Una gigantesca magnolia, carica di calici di un lilla pallido, dava ombra al cortile. Due cipressi montavano la guardia davanti alle persiane verdi di una finestra chiusa. Il giardino era inselvatichito, invaso dalle confuse malinconie di piante avvezze a cure assidue per decenni e ormai lasciate a un solitario rigoglio. Dalla casa in gran parte disabitata, dal cortile col suo acciottolato a mosaico, dal giardino spirava l’ineffabile poesia dell’abbandono. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Questo giardino, ancora oggi una delle attrazioni principali del Museo Capodistria che consigliamo al viaggiatore di visitare, ha qualcosa in comune con la melanconia della bella sovrana, che come scrive E. M. Cioran, è diventata l’icona e il «simbolo di un mondo condannato».

Lasciamo questo luogo per congedarci da Sissi e dal nostro itinerario, che speriamo abbia permesso al viaggiatore, come accadde a Christomanos, di scoprire, grazie alle passeggiate proposte in questa magica isola, «i segreti delle montagne e delle onde […] i legami profondi tra gli uomini e le rose e i sogni». (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Una scena del film con Romy Schneider nei panni dell’imperatrice Sissi a Corfù.

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