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L’itinerario della Passione

Canosa, Ruvo, Molfetta, Bari, Taranto, Corfù, Lefkada

[Tedesco] 

[Spagnolo] 

Questo itinerario è stato concepito come un percorso da svolgersi durante le suggestive celebrazioni pasquali cattoliche e ortodosse, in Italia e in Grecia. Il tragitto, che si snoda tra Ruvo di Puglia, Canosa, Molfetta, Bari, Taranto e, nelle Isole Ionie, a Corfù e Lefkada, permetterà al viaggiatore di entrare in contatto con colorate processioni, drammatiche rappresentazioni della Passione, usanze gastronomiche e antichissime tradizione rituali, spesso in bilico tra religione, folklore e credenze apotropaiche. Le guide di questo itinerario saranno studiosi, antropologi e scrittori che da molti decenni oramai guardano con vivo interesse a queste manifestazioni della cultura popolare. 

Scrive lo storico Franco Cardini:

La celebrazione della Pasqua è senza dubbio una delle più antiche della liturgia cristiana […]. Probabilmente già dal I secolo i cristiani festeggiavano la Pasqua, che presto dovette essere collegata anche alla prima domenica di plenilunio di primavera […]. (F. Cardini, I giorni del sacro: i riti e le feste del calendario dall’antichità a oggi.)

La chiesa cattolica ereditò culti e riti appartenuti a religioni preesistenti e dovette unire alla grande simbologia della salvezza, incarnata dalla resurrezione di Cristo, anche altri significati, propri delle culture agro-pastorali del mondo mediterraneo. La Pasqua rappresenta infatti anche la celebrazione primaverile della vegetazione e dei campi che tornano alla vita dopo il letargo invernale.

Nella settimana che precede la Pasqua, la Puglia diventa un grande palcoscenico in cui vengono rappresentati dal vivo, sotto forma di Sacre Rappresentazioni o di processioni, gli episodi della morte e resurrezione di Cristo. Quasi in ogni paese confraternite, associazioni culturali o pro-loco danno vita a manifestazioni, cortei, eventi musicali che scandiscono le date della liturgia della Pasqua e la fine della stagione fredda. Si rende dunque necessaria una precisazione, il viaggiatore, che deciderà di intraprendere questo itinerario, non potrà seguirne tutte le tappe, per via della sovrapposizione delle date delle diverse manifestazioni. Potrà comunque decidere a quali partecipare personalmente e a quali prendere parte “virtualmente”, seguendone il lento incedere attraverso gli scritti delle guide letterarie selezionate per questa proposta di viaggio.

Nella tradizione liturgica cristiana, puntualmente seguita da quella popolare, il tempo pasquale è tempo di grandi feste e processioni che trovano il loro culmine nella Settimana Santa, ma che hanno inizio nel periodo quaresimale, cioè ben quaranta giorni prima della Pasqua. L’antropologa e storica dell’arte Emanuela Angiuli spiega:

La liturgia cattolica fa iniziare il ciclo con il mercoledì delle ceneri, primo giorno di quaresima. In molte località [della Puglia], ancora oggi, la quaresima – periodo di preparazione della morte e resurrezione di Cristo, caratterizzato da divieti alimentari e sessuali, giacché non si consuma carne, non si contraggono fidanzamenti né matrimoni – è rappresentato dalla Quarantana, un pupazzo fatto di pezze nere, il petto trafitto da penne di gallina, appeso ai crocicchi, dondolante come uno spettro. (E. Angiuli, La Pasqua, in Viaggio in Provincia)

Il nostro itinerario inizia proprio nel periodo della Quaresima a Ruvo di Puglia: una cittadina della Murgia pugliese, circondata da vigneti e uliveti, con una storia millenaria legata alla tradizione agricola.

Qui appese ai balconi dei vicoli del centro storico medievale si vedono penzolare dei fantocci che rappresentano una vecchia donna vestita a lutto che simboleggia la vedova del Carnevale. La domenica di Pasqua questi pupazzi vengono fatti esplodere con dei petardi. Il rito, chiamato lo scoppio delle Quarantane, simboleggia la fine delle penitenze e la vittoria della vita sulla morte e, contestualmente, quello della primavera sull’inverno. Racconta Emanuela Angiuli:

Ogni giorno la Quarantana perde una piuma, finché nel giorno della Resurrezione, scoppia, riempita di petardi, buttando per aria altri mille stracci neri. Uscita dalla fantasia e dalle feste medievali, la vecchia pupazza incarna l’altra faccia della passione, una sorta di Addolorata alla rovescia, maschera pagana di quell’angoscia di distruzione che l’inverno – interruzione del tempo produttivo, della speranza alimentare – apporta nell’immaginario contadino. […] Le cerimonialità quaresimali, ridotte oggi a processioni di accompagnamento funebre e ad azioni teatrali nelle sacre rappresentazioni, appartengono in realtà ad una concezione festiva apocalittica, propria delle culture agro-pastorali nel mondo mediterraneo pre-cristiano. (E. Angiuli, La Pasqua, in Viaggio in Provincia)

I riti della Settimana Santa di Ruvo, inseriti dall’IDEA, Istituto centrale per la demoetnoantropologia, tra gli eventi che fanno parte del patrimonio immateriale d’Italia, non si esauriscono nel folkloristico scoppio delle Quarantane, ma proseguono per tutto il periodo pasquale, a partire dal venerdì precedente la Domenica delle Palme.

Particolarmente suggestiva è la processione della Vergine Desolata, che si celebra il Venerdì di Passione, cioè una settimana prima del Venerdì Santo. La statua della Madonna, chiamata anche Madonna del Vento, perché si dice che durante la processione soffi sempre una brezza particolare, vestita rigorosamente di nero, viene portata in spalla dai membri della Confraternita della Purificazione di Maria Santissima Addolorata. Il percorso della Vergine parte dalla chiesa di San Domenico e giunge sino alla Cattedrale.

Pupazzo della Quarantana
Ruvo, Processione della Desolata
(foto di Forzaruvo94 – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15355150)

Canosa, donne vestite di nero che accompagnano la processione della Vergine Dolorosa

(Foto di Luigi Carlo Capozzi – it:Utente:Campidiomedei – Trasferito da it.wikipedia su Commons da Fradeve11 utilizzando CommonsHelper., CC BY 1.0,

https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4282013)

A conferma dei legami intimi tra le ritualità pasquali e quelle del mondo contadino pre-cristiano è stato osservato che nelle processioni della Settimana Santa, specie quelli penitenziali, in cui la rappresentazione drammatica prevale sulla liturgia, protagoniste sono le figure femminili, come appunto la Vergine Desolata o l’Addolorata che si disperano per la perdita del figlio, come la dea della fertilità Cerere/Demetra piangeva per la scomparsa della figlia Persefone. Scrive l’antropologa:

Sembra quasi di percepire, nei lunghi percorsi che l’Addolorata attraversa, rappresentata da una statua o da una donna vestita di nero, alla ricerca del Figlio, […] il lamento di Cerere, della grande madre Cibele, menomata all’improvviso, nella mitologia greca e romana, di quella “parte di sé” che rendeva feconda e fertile la terra con l’arrivo della primavera. (E. Angiuli, La Pasqua, in Viaggio in Provincia)

Molte di queste processioni, sebbene abbiano avuto origine nel Medioevo, contemplano rituali che rimandano direttamente alla tradizione greco-romana. A Canosa, ad esempio, la processione, chiamata della Dolorosa, è accompagnata dal pianto di donne vestite di nero che richiamano esplicitamente le prefiche pagane, donne che accorrevano a piangere i defunti e intonare canti funebri durante i funerali.

Lasciamo Ruvo e Canosa, dopo aver visitato i monumenti più interessanti di questi luoghi, segnalati nei corrispondenti link, e dirigiamoci a Molfetta, sulla costa adriatica, poco a nord di Bari, per assistere e prendere parte alla processione del Venerdì Santo. L’intensa carica drammatica di questa manifestazione è accentuata anche dal particolarissimo accompagnamento musicale della processione eseguito dalla banda, uno degli elementi caratteristici delle manifestazioni folkloriche e delle cerimonie religiose in Puglia.

Lasciamoci introdurre in questo universo melodico dal musicologo barese Pierfrancesco Moliterni:

All’interno della cultura della festa patronale e della particolare funzione che in essa riveste la banda da giro, caratteristica ed esclusiva è la sua presenza – durante le cerimonie religiose della Quaresima e delle Settimana Santa – nella cittadina di Molfetta. La processione delle statue che simboleggiano la passione di Cristo […] viene preceduta da un particolarissimo “sottogenere” della grande banda da giro: la cosiddetta bassa banda, o banda dei “tammurr” (tamburi). Essa è composta da pochissimi suonatori, di solito in numero di quattro, i quali intonano una specie di trenodia che risuona alla testa della processione, per richiamare l’attenzione dei fedeli all’imminente passaggio cerimoniale.

Il suono di una melodia triste e dolce insieme (flauto) intervallata dal rullo del tamburo militare (cui viene allentata la cordiera d’acciaio per impedire le vibrazioni sulla pelle e sortirne effetti lugubri e cupi) e da colpi profondi di grancassa, viene interrotta da improvvisi squilli di tromba.

La processione vera e propria delle statue oggetto di culto è poi preceduta e seguita dalla banda di Molfetta, che l’accompagna per tutto il tragitto cittadino secondo un preciso cerimoniale musicale, che si tramanda da anni. Le partiture e le singole parti di queste marce funebri del Venerdì santo molfettese sono conservate presso le Arciconfraternite della Morte e di S. Stefano, che ne dispongono solo in occasione delle rispettive processioni-spettacolo. (P. Moliterni, La Processione del Venerdì Santo a Molfetta, in Viaggio in Provincia.)

Per seguire questa manifestazione bisogna essere disposti a passare una notte in bianco, infatti tradizionalmente, il giovedì sera si visitano gli altari della reposizione (chiamati sepolcri), allestiti nelle chiese del borgo antico, preferibilmente in numero dispari, si consuma quindi un pasto frugale a base di pane condito con tonno, capperi e acciughe e si aspettano le 3.00 del mattino, quando le statue dei Misteri, simulacri lignei di scuola napoletana del XVI secolo, escono dalla chiesa di Santo Stefano e per ben nove ore vengono portate in processione per le strade di Molfetta.

Seguendo la processione sarà possibile apprezzare il centro storico della cittadina con il suo colorato porto, nelle cui acque si specchia il Duomo di San Corrado.

Molfetta, processione dei Misteri, Cristo alla colonna
Molfetta, veduta del porto e del Duomo di San Corrado
(foto di Michele Zaccaria di Wikipedia in italiano – Trasferito da it.wikipedia su Commons., CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10480609)

Prossima tappa dell’itinerario è Bari, dove la manifestazione pasquale di maggiore impatto emotivo è quella dei Misteri del Venerdì Santo. Questa si distingue per la bellezza delle statue portate in processione, sculture lignee o manichini vestiti di scuola napoletana o veneta risalenti al XVII e al XVIII secolo.

L’orchestrazione scenica della cerimonia è ricca e articolata come ci racconta lo studioso di arte popolare e storia locale Nicola Cortone:

La processione si distingue per le preziose vesti e gli ornamenti, la nobiltà dell’apparato dei portatori (rigorosamente vestiti di nero e guanti bianchi), la melodia delle musiche di bande e i pittoreschi inserti nel corteo di fanciulli e fanciulle, rispettivamente vestiti da guerrieri romani (Costantino) e Sant’Elena, con riferimento al rinvenimento della Croce da parte della imperatrice madre. La presenza di Sant’Elena dona una impronta bizantina alla processione, forse in origine riservata soltanto alla croce.

Gli altri personaggi, via via aggiunti nel corso del tempo, appartengono da un lato al teatro medievale e dall’altro ad una sorta di pellegrinaggio itinerante al Santo Sepolcro.

Attraverso i Misteri in pratica si ripercorrono le stazioni della “Via Crucis” venerate dal pellegrino […]. (N. Cortone, Passione per una settimana, in Bari Vecchia. Percorsi e segni della storia.)

A Bari la processione del Venerdì Santo è caratterizzata da un’altra particolarità che la rende unica nel suo genere, cioè la storica rivalità tra due confraternite che per molto tempo hanno sfilato contemporaneamente, ognuna con le proprie statue, creando un bizzarro effetto di duplicazione e anche scontri e tafferugli sul diritto di precedenza. Nel XVIII secolo la Processione dei Misteri era organizzata dalla confraternita di “Maria Santissima Della Purificazione” e dai frati francescani riformati che facevano uscire le loro statue dalla chiesa della Vallisa. Ma, in città, il Venerdì Santo, esisteva già un’analoga processione che invece partiva dalla chiesa di San Pietro delle Fosse, nei pressi del porto, organizzata dai frati minori osservanti. Quando l’ordine religioso fu soppresso, nel 1809, le statue della confraternita furono trasferite nella chiesa di San Gregorio, di pertinenza della Basilica di San Nicola. Le due processioni continuarono ad essere in competizione e, quando i cortei si incrociavano, causavano tali disordini che dovette intervenire l’Arcivescovo in persona, stabilendo, nel 1825, che i Misteri della Vallisa sarebbero usciti in processione negli anni pari, mentre quelli di S. Gregorio negli anni dispari. Questa disposizione arcivescovile è ancora oggi in vigore.

Scrive Nicola Cortone:

La processione dei Misteri baresi, oltre che storica, diventa pittoresca e polare nella duplicazione della serie delle statue. (appartenenti alle due gloriose confraternite già citate), che dopo un lungo periodo di conflitti e tensioni sull’ordine delle precedenze, attualmente “escono” ad anni alternati dalle rispettive chiese […].

Ad esse è stato affibbiato dal popolino una duplice denominazione di chiangeaminue (“piagnoni”, quelli della Vallisa) e venduluse (“ventosi”, quelli di S. Gregorio), capaci cioè di sollevare vento o scrosci di pioggia in occasione della loro uscita. (N. Cortone, Passione per una settimana, in Bari Vecchia. Percorsi e segni della storia.)

Se per prendere parte alla processione di Molfetta è stato necessario preventivare una notte in bianco, per seguire quella barese, il viaggiatore dovrà essere in gran forma, infatti la processione di Bari, insieme a quella tarantina, è quella che dura di più in tutta la Puglia. Per ben 15 ore le statue percorrono in lungo e largo diversi punti della città, dal centro storico sino al quartiere Libertà, alle spalle del Lungomare.

Molti studiosi, antropologi e storici si sono interessati alle processioni che animano la Settimana Santa, e tra queste, una delle più note in Puglia, è sicuramente quella «solenne e notturna» degli “incappucciati” di Taranto, prossima tappa dell’itinerario della Passione. Per questa città, abbiamo ritenuto doveroso e opportuno scegliere come guida uno scrittore tarantino, il giovane intellettuale troppo precocemente scomparso, Alessandro Leogrande che nel suo libro-inchiesta su Taranto, intitolato Dalle Macerie. Cronache sul fronte meridionale, dedica un capitolo proprio alla Processione dei Misteri. Lasciamo dunque alle sue parole il compito di introdurci nei vicoli della città jonica mentre sfila la processione.

Così la racconta Leogrande:

Una decina di statue raffiguranti i momenti della Passione dondolano nella notte sorrette da uomini. Sono statue scolpite nel legno secoli addietro, i loro colori sono accesi, i loro volti rotondi, sofferenti. […]

Tra l’una e l’altra ci sono le coppie di Perdoni, cioè coppie di confratelli incappucciati che precedono a piedi scalzi sull’asfalto con la stessa lentezza con cui avanzano i gruppi che sorreggono le statue. Sembrano danzare. Ondeggiano con movimenti appena percettibili, da sinistra a destra, da destra a sinistra, sospingendosi ogni volta di qualche centimetro in avanti. Il verbo preciso è nazzicare, la loro camminata si chiama nazzicata.

In fondo, la banda musicale suona marce funebri che paiono una lunga nenia, mentre ai lati della strada un carnaio umano variamente assortito piange, ride, prega, scatta foto, osserva attentamente, sfiora sensualmente il corteo che si snoda per le strade della città.

È la Processione dei Misteri di Taranto. Esce ogni anno dalla chiesa del Carmine nel primo pomeriggio del Venerdì Santo e vi farà ritorno solo nella tarda mattinata del giorno successivo. Insieme alla processione gemella, quella dell’Addolorata, che esce il giovedì notte dal portone di San Domenico e vi fa ritorno il venerdì all’ora di pranzo, costituisce un pezzo di Sud barocco, sopravvissuto allo scorrere dei secoli e conficcato nella nostra modernità. […]

[…] tra le due Processioni c’è un’enorme differenza: quella dell’Addolorata si snoda tra i vicoli della città vecchia e approda nella città moderna solo per poche centinaia di metri;

mentre quella dei Misteri, benché sia nata nella medesima isola, si è poi spostata interamente nella città nuova.

Se nella prima la coincidenza tra luogo e rito appare perfetta, nella seconda lo stridore è molto forte. Si fa evidente soprattutto nelle prime ore, quando accanto alla Processione dei Misteri c’è la Diretta Televisiva della Processione dei Misteri, e c’è talmente tanta gente in strada che il percorso è transennato. Quando le telecamere si spengono, la gente si dirada e la gran parte dei tarantini va a dormire dopo aver sgranocchiato lupini o panzerotti con la mozzarella e il pomodoro, a “fare” la processione rimangono solo i Perdoni, i loro confratelli, pochi famigliari e qualche fedele con un cero acceso in mano.

…] Un senso di morte e disperazione sembra salire dalle viscere della città. […] Il passato rimosso della città sgorga fuori all’improvviso, e con esso i suoi fantasmi, le sue inquietudini, la richiesta ancestrale di una grazia o di un miracolo, mentre in lontananza le ciminiere dell’Ilva illuminano la notte e le onde del mare rimescolano l’acqua nel golfo. (A. Leogrande, Dalle Macerie. Cronache dal fronte meridionale)

aranto, processione dei Misteri
Taranto Processione dell’Addolorata
(foto di Andrea Serafico – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10308062)
Taranto, Processione dei Misteri, i Perdoni.
Taranto, I Perdoni-foto partner-

Taranto, Processione dei Misteri, Ecce Homo

Questi eventi, che mobilitano folle nelle città pugliesi per giorni, non sono privi di contraddizioni, l’originaria carica religiosa e la volontà pedagogica che era alla base di queste messe in scena, fortemente volute dalle gerarchie ecclesiastiche post-tridentine, oggi si sono fortemente attenuate. Se per alcuni fedeli le processioni pasquali rimangono un momento fondamentale della propria sensibilità religiosa, per molti, oramai, sono diventate una manifestazione di costume, un’occasione per consumare cibi tipici, o semplicemente per assistere ad uno spettacolo cui sfugge il senso profondo. Spiega l’antropologa Emanuela Angiuli:

I visi delle statue scomposti dal dolore, i tratti disperati delle Vergini Desolate, la vivezza delle carni piegate ed illividite delle figure del Cristo, non sono semplici prodotti di abilità artistiche, ma referenti puntuali, segni di un’apocalisse precipita nella storia culturalmente controllata, nella quale gli “umili” entrano ed escono indossando gli abiti della penitenza, con la testa coperta di spine, le spalle schiacciate dal peso delle croci, in una sequenza di quadri in cui i protagonisti vivono la morte della propria condizione di sfruttati e subalterni. (E. Angiuli, La Pasqua, in Viaggio in provincia)

La stridente ambiguità di questi eventi approfondita da Alessandro Leogrande nella descrizione della Processione dei Misteri, assume toni, se possibile, ancora più drammatici in un altro libro dello scrittore tarantino, edito già nel 2011, Il Naufragio che racconta della tragedia umanitaria della nave carica di immigrati Kater i Rades, affondata nel canale d’Otranto proprio la sera del Venerdì Santo, un venerdì di morte, mentre a Taranto sfilava la processione dei Misteri:

La folla segue la processione dei Misteri, […]. Stipato tra la folla il Capitano Fusco si ritrova a fissare la statua chiamata “Ecce Homo”: un Cristo triste con la corona di spine posta sulla testa insanguinata e una pezza rossa intorno al corpo nudo. Osserva i suoi occhi. Guardano verso il basso. Più che di dolore sono carichi di stupore. Quell’uomo, scolpito nel legno tre o quattro secoli prima, non sta provando compassione per il mondo, ma stupore. Una profonda meraviglia, velata di tristezza, per la violenza, il non senso, l’indifferenza, l’ignavia, l’impossibilità di raddrizzare le cose. Quel Cristo dai lineamenti popolari sembra un innocente piombato improvvisamente in mezzo a una mattanza. Lo dicono i suoi occhi. Pensa e ripensa questa idea che gli è balenata in testa: un agnello in mezzo alla mattanza. Ma poi si distrae, è infastidito dai flash, dalle urla, dalle risate di un uomo grasso con in mano un pezzo di focaccia al pomodoro che gronda olio da tutte le parti.

Questa processione non ha niente di religioso, pensa. È tutto fuorché un evento religioso. È fatta di urla, non di silenzio. Di sovraesposizione, non di riflessione. Così si allontana e si dirige verso la macchina… (A. Leogrande, Il Naufragio)

Lasciamo la Puglia, con le sue processioni e i suoi riti, e proseguiamo l’Itinerario della Passione in Grecia, nelle Isole Ionie, per partecipare alle celebrazioni della Pasqua ortodossa. Se il viaggiatore sarà fortunato, non dovrebbe incorrere nel problema della sovrapposizione delle date. Infatti il calendario liturgico ortodosso è diverso da quello cattolico. Per questo motivo in Grecia le festività pasquali si celebrano quasi sempre dopo quelle latine. Il calcolo del giorno della Pasqua è stato uno dei maggiori grattacapi degli intellettuali ecclesiastici dell’alto-medioevo, basti pensare che furono elaborati dei complicati calendari secolari, chiamati tabulae paschales, per agevolare l’individuazione del giorno di Pasqua. La differenza tra la data cattolica e quella ortodossa risiede nel fatto che in Occidente fu adottato il calendario gregoriano, mentre nel mondo ortodosso restò in vigore il calendario giuliano.

Nella religiosità greca, caratterizzata da un connubio unico di misticismo di ascendenza bizantina e folklore squisitamente isolano, la Pasqua è sicuramente la festa più importante dell’anno. L’isola di Corfù, in particolare, è famosa per le manifestazioni che animano ogni villaggio, rendendo questo periodo dell’anno uno dei più belli per scoprirne i segreti, a patto che si ami la confusione!

Il grande scrittore e antropologo siciliano, Giuseppe Pitrè, uno dei massimi studiosi di folklore, ha dedicato un paragrafo dal titolo Usi pasquali nell’isola di Corfù, del monumentale volume Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, edito nel 1899, proprio alla pasqua corfiota che così descrive:

La più graziosa delle città elleniche è senza dubbio Corfù. Tra gli usi pasquali tuttora in vigore i più caratteristici sono i seguenti: al momento di sciogliere le campane il Sabato Santo, si gettano dalle finestre gli utensili rotti conservati in casa durante l’anno, cosicché per qualche minuto è pericoloso trovarsi fuori di casa. Vetri, stoviglie volano per l’aria e con fracasso ingombrano il suolo. Quei buoni isolani dicono di cacciare tutta quella robaccia poco gradita dietro a Giuda in segno di disprezzo.

Altra usanza è quella degli spari. Questa dura dal mezzogiorno del Sabato Santo a quello della Domenica di Pasqua. È un bombardamento non interrotto.

Rivoltelle, vecchi fucili e pistole, mortai, tutto viene posto in opera.

Caratteristica quanto mai la processione nel Castello alla mezzanotte del Sabato Santo. La ricchezza degli apparati, l’intervento della truppa e delle autorità, l’ora e le fiaccolate multicolori, danno alla funzione un’aria affatto speciale. Tipica e commovente pei sensi che nasconde la veglia che si fa con l’agnellino la notte del Sabato santo. Al mattino della Domenica di Pasqua ogni casa sgozza sul limitare il suo agnellino. Il sangue scorre per le vie, e col sangue stesso ancora caldo si disegnano croci sugli usci e sulle pareti. (G. Pitrè, Archivio per lo studio delle tradizioni popolari.)

Corfù, processione di San Spiridione durante la domenica delle Palme

Nel corso della tappa corfiota del nostro itinerario scopriremo cosa sia cambiato e quanto tenacemente certe tradizioni perdurino a ben più di un secolo di distanza dallo studio dello scrittore siciliano.

I festeggiamenti rituali hanno inizio il sabato che precede la Domenica della Palme. Questa giornata è celebrata in ricordo del miracolo che riportò in vita Lazzaro di Betania, con canti tradizionali intonati da cori che provengono da tutti i villaggi dell’isola. Le ragazze, vestite in abiti tradizioni, girano di casa in casa, recitando delle canzoni chiamate kalanda di Lazzaro. In questa occasione si consumano dei biscotti tipici chiamati i koulorakia o Lazzarakia, poiché la loro forma ricorda quella del corpo di Lazzaro avvolto nel lenzuolo funebre.

La Domenica delle Palme, in una città decorata di rosso, per vie dei drappi color porpora appesi ad ogni balcone, vengono portate in processione le reliquie del santo patrono, San Spiridione, seguite da una folla festante di fedeli e dalle diciotto Orchestre Filarmoniche dell’isola. Questa usanza si ripete ogni anno dal 1629 quando, secondo la leggenda agiografica, Agios Spyridon liberò l’isola da una terribile epidemia di peste. Oltre ad essere una manifestazione estremamente suggestiva e che si conclude con concerti musicali nella città vecchia, è anche una delle sole quattro occasioni in cui è possibile vedere sfilare per i vicoli di Corfù le reliquie del Santo. Lo scrittore anglosassone Lawrence Durrell, sinceramente innamorato dell’isola, nella quale visse diversi anni, scrisse che San Spiridione e Corfù arrivano quasi ad identificarsi, intimamente legati l’uno all’altra: «The island is really the Saint: and the Saint is the island». Così lo scrittore descrive la processione in suo onore:

Il santo giace composto nella sua cassa. Una mummia, un piccolo scheletro asciugato, i cui minuscoli piedi (calzati di pantofole ricamate) sporgono da un’apertura all’estremità del sarcofago. Se un fedele vi si inginocchia davanti e li bacia, vedrà esaudite le sue preghiere.[…] Quattro volte l’anno il santo fa il giro dell’isola nella sua cassa, accompagnato da una processione trionfale; a Pasqua e per la vigilia di Natale viene collocato su di un trono, accessibile a tutti i fedeli che entrano in chiesa.

Ma le processioni rappresentano qualcosa di più di una forma vuota. Fin dal mattino presto le strade sono affollate dalle sciarpe e dai fazzoletti sgargianti dei contadini, arrivati in città per assistere al servizio religioso; non c’è piazza che non sia animata dai banchi degli ambulanti, colmi di noccioline, bibite allo zenzero, nastri, frutta candita, strisce di tappeto, bottoni, limonata, penne e pennini, stringhe, stuzzicadenti, amuleti, icone, legni intagliati, candele, sapone e chincaglieria religiosa. […] La processione è guidata dai novizi in tunica blu, che sorreggono le lunghe pertiche delle dorate lanterne veneziane; seguono gli stendardi, pesanti e infiocchettati, e file di ceri coronati d’oro e di nastri sventolanti: enormi candele che si trasportano infilate in un balteo appeso all’anca. Tra rimbombi e squilli viene poi la banda cittadina, o meglio le due bande municipali, con i loro scintillanti elmi d’ottone, simili a quelli dei pompieri, ma guarniti di piume bianche. Seguono a questo punto truppe in ordine sparso, chiuse dalle prime file dei preti, imponenti nei loro cappelli a tubo di stufa, ciascuno con

una veste unica per colore e foggia, broccato del colore delle rose, del mais, del grano, verde prato, giallo ranuncolo. Aiuole semoventi. Infine appare l’arcivescovo in tutta la sua pompa: vuol dire che il santo è vicino, e tutte le mani si apprestano a fare il segno della croce, mentre le labbra si muovono alla preghiera.

Sei marinai portano a spalla il santo, in un antico baldacchino cremisi e oro, sostenuto da sei aste d’argento e fiancheggiato da sei preti. Spiridione troneggia in questa specie di portantina e attraverso i vetri il suo volto appare più che mai lontano, risoluto e misantropo. (L. Durrell, Propero’s Cell. A guide to the landscape and manners of the island of Corfu)

Come avviene anche in Italia, il giorno più sentito di tutta la Settimana Santa è il Venerdì, il giorno della Passione, chiamato il giorno degli Epitaffi, cioè dei Sepolcri. In tutta l’isola, ogni chiesa porta in processione il proprio Epitaffio, in un baldacchino adorno di fiori. I fedeli seguono l’Epitaffio della propria parrocchia al ritmo delle tristi marce funebri intonate dalle bande musicali.

Il giorno successivo, il Sabato Santo, di prima mattina viene “messo in scena”, nella chiesa di Kyra Faneromeni, in piazza Agiou Spyridonos, il terremoto che nei Vangeli si racconta seguì alla morte di Gesù: i fedeli presenti battono i banchi all’unisono creando un tale rumore che sembra far tremare la chiesa.

In seguito, il santo patrono sfila nuovamente per le vie di Corfù con il suo sepolcro, in ricordo del divieto imposto dai Veneziani di far sfilare gli Epitaffi il Venerdì Santo.

Il momento più colorato e caratteristico della Pasqua ortodossa dell’isola avviene intorno alle 11.00 del mattino, quando ha inizio lo spettacolo della rottura dei botides.

Grandi vasi di terracotta, dipinti di rosso, vengono lanciati in strada dai balconi del centro storico, infrangendosi in mille pezzi. L’origine di questa usanza, che Giuseppe Pitrè legava alla volontà popolare di scacciare Giuda, secondo alcuni rimanda alla tradizione veneziana di lanciare dalla finestra gli oggetti vecchi a Capodanno.

In tarda serata, poco prima di mezzanotte si può finalmente celebrare la gioia della Resurrezione e il cielo dell’isola si illumina di fuochi d’artificio e i fedeli intonano canti, finalmente di gioia, sulle note delle bande filarmoniche, augurandosi Buona Pasqua con la tradizionale formula Χριστός ανέστη (Cristo è risorto).

Nei villaggi è ancora in vigore l’usanza di sacrificare l’agnello pasquale e di segnare con il suo sangue le porte delle abitazioni. Questa tradizione è probabilmente il lontano ricordo di quando, come scrive Franco Cardini «in un ormai lontano plenilunio di primavera, […] il sangue dell’agnello sacrificato protesse le case degli Ebri dal passaggio dell’Angelo». Nell’Esodo, si racconta di come alla vigilia della liberazione del popolo ebraico dall’Egitto, un Angelo, mandato da Dio, avrebbe colpito ogni primogenito egiziano, mentre avrebbe risparmiato gli Ebrei, i quali, su ordine di Mosè, marcarono le porte delle loro case con il sangue di un agnello sacrificato, seguendo l’ordine divino: «[…] quand’io vedrò il sangue, passerò oltre, e non vi sarà piaga su di voi per distruggervi, quando colpirò il paese d’Egitto». Ancora oggi l’agnello, vittima dell’Esodo e re dell’Apocalisse, sia per i cattolici che per gli ortodossi, rimane uno dei simboli più potenti della Pasqua. La Domenica della Resurrezione è il giorno del cibo, in cui finito il digiuno quaresimale, i corfioti si concedono ricchi banchetti a base di carne di agnello e capra. Se a Corfù le festività pasquali assumono toni solenni e scenografici, nelle altre Isole Ionie il viaggiatore potrà vivere un’esperienza più intima e meno mondana rispetto alla capitale. Per questo abbiamo scelto come ultima tappa di questo itinerario l’isola di Lefkada. Con le sue bianche scogliere, rese famose dal più poetico di tutti i suicidi d’amore, quello della poetessa Saffo, l’isola, ancora fuori dai circuiti del turismo di massa, è un posto dove la vita segue ritmi lenti e naturali e dove la Pasqua è l’evento più importante dell’anno. I riti si svolgono durante tutta la Settimana Santa e per l’occasione i villaggi si preparano parandosi a festa, le case vengono tinteggiate di bianco e le strade pulite. Padrini e madrine di battesimo regalano vesti nuove e candide ai propri figliocci, insieme a un cero pasquale. Il Giovedì Santo le donne dipingono di rosso le uova, il Venerdì sfilano gli Epitaffios e alla mezzanotte del sabato santo le candele dei fedeli vengono accese, con il loro fumo si disegna una croce sulla porta della propria casa, ed infine, a mezzanotte, suonano le campane e i fuochi d’artificio esplodono colorati nel cielo. La Domenica si svolge la cerimonia dell’Agàpi, parola greca che allude tanto all’amore nella sua dimensione divina e platonica quanto alle libagioni sacre. Infatti dopo la lettura del Vangelo in dodici lingue diverse è il momento di consumere un ricchissimo pasto a base di carni allo spiedo di agnello e dolci al miele.

Invitiamo il viaggiatore che ha intrapreso questo itinerario a prendere simbolicamente parte al banchetto pasquale. Dopo aver attraversato e rivissuto i giorni della Passione, attraverso drammatiche processioni rituali, attraverso Sacre Rappresentazioni e litanie, è giunto, a conclusione del percorso, il momento della gioia e rinascita e per noi il momento del ritorno. Il nostro itinerario, che qui si conclude, ci ha portato non solo in luoghi meravigliosi, ma, ci auguriamo, anche alla scoperta di antichissime tradizione mediterranee legate agli eventi evangelici della nostra tradizione religiosa, ma anche alla stessa natura dell’uomo che, con tutte le sue contraddizioni, nel corso dei millenni, ha dato forma rituale alle proprie paure e sofferenze, ha celebrato le proprie divinità e i grandi cicli della natura.

Corfù, fuochi d’artificio

Le vie per l’arcadia

BARI, CORFU: Pontikonissi, Benitses, ITAKA:Vathy, Anogì

Itinerario – Le-vie-per-l’arcadia

[Tedesco] 

[Spagnolo] 

Questo itinerario propone un viaggio tra la Puglia e la Grecia ionica sui passi di Lalla Romano ed Emilio Cecchi. Il titolo è liberamente ispirato al diario di viaggio di Cecchi Et in Arcadia ego e al saggio su Lalla Romana di Vincenzo Consolo Et in Arcadia Lalla.

Nella primavera del 1934 Cecchi aveva viaggiato, in compagnia del figlio, per le Isole Ionie e il Peloponneso, spingendosi fino a Creta. Da quell’esperienza nacque un libro edito nel 1936, i cui singoli capitoli erano già stati precedentemente pubblicati come articoli di reportage.

La Grecia di Cecchi è una terra in cui il passato mitologico della regione convive con il presente. L’autore ne coglie le caratteristiche attraverso una scrittura in cui la vena poetica ed elegiaca, riservata alla descrizione dei paesaggi e dei monumenti, diventa a tratti ironica e a volte dissacrate, quando si tratta di fotografare ‘il brutto’ stile neo-ellenico o l’edilizia moderna che, già all’epoca, cominciava a contaminare le città greche, in primis Atene. Ne emerge una rappresentazione visiva dei luoghi che ricorda le pitture impressioniste e in cui l’Arcadia, evocata nel titolo del suo libro, diventa la meta simbolica in cui riscoprire, non solo i caratteri universali della cultura greca, ma anche un po’ noi stessi. Similmente Lalla Romano nel suo Diario di Grecia — resoconto di un breve viaggio in compagnia del marito della durata di otto giorni, compiuto nella Pasqua 1957 (pubblicato nel 1960 e poi — in una versione più ampia — nel 1974), ci racconta una Grecia letteraria e mitologica vivificata dai suoi personali ricordi d’infanzia e dalla costante ricerca di momenti di verità, e per questa via il viaggio «si concretizza così in un’esperienza di attualizzazione di un mito lontano» (G. Dell’Aquila, L’Adriatico di Lalla Romano) tanto universale quanto intimo.

Emilio Cecchi e Lalla Romana diventeranno le guide letterarie di questo itinerario, invitando anche noi a vivere questa esperienza di viaggio come la ricerca del nostro angolo di Arcadia.

L’itinerario inizia in compagnia di Lalla Romano, a bordo del treno che condusse la scrittrice da Milano sino a Brindisi, dove si sarebbe imbarcata su una nave chiamata Angelika in direzione della Grecia.

Il viaggiatore, che oggi attraversi la Puglia in treno, potrà gustarsi le descrizioni paesaggistiche della scrittrice immaginandosi in un vagone di altri tempi, sicuramente privo dei moderni confort offerti dai convogli ad alta velocità, ma dotati di un loro peculiarissimo fascino, catturato dalle parole della Romano:

Il treno è foderato internamente in cuoio scuro, impresso a disegni floreali.

    • È di prima della guerra, – dice Stefano.

Prima dell’altra guerra! Quando c’era quell’eleganza ambigua (ma forse ogni eleganza lo è) che ha intravveduto nella nebbia dell’infanzia chi è nato prima del ’14.

Il nostro scompartimento è angusto, ammobiliato, vestito; tempestato di borchie, ganci, rampini lucidi di ottone. Anche la scaletta mobile, ridicolmente piccola, è interamente rivestita di panno blu a disegni.

[…] Accanto al lavabo c’è una saponetta verde piccolissima.

Continuo la perlustrazione. Apro lo sportellino in basso, e ne estraggo la coppa di maiolica. Ha un lunghissimo labbro, un lunghissimo manico: sembra uno strano animale o fiore esotico.

La rinfilo, e sale dal basso il vento e il rombo delle rotaie. La custodia in cui la coppa si incastra ha la sua forma precisa ed è rivestita di panno come gli astucci dei gioielli. (L. Romano, Diario di Grecia)

Quello che rimane immutato in un viaggio in treno lungo la costa pugliese, sia che il convoglio sia dei primi del Novecento o di ultima generazione, è la bellezza dei paesaggi che si alternano veloci dietro i finestrini: dal Gargano a Bari è un susseguirsi di improvvise visioni, che Lalla Romano cattura e ci restituisce sotto forma di veloci schizzi, abbozzati più con i colori della regione che con le parole.

Scrive:

Ogni campagna intravveduta all’alba dal buio e dal chiuso di un treno è una apparizione di purezza: esangue, fredda. Ma l’alba del Sud è calda, più che non sia nei nostri paesi l’aurora. Una dolcezza d’Oriente è in quell’aria, d’oro verde sono le foglie nuove della vite e del fico.

È la Puglia. Il monte Gargano già si allontana, di un azzurro poco più intenso del cielo. Si distingue ancora il profilo da cittadella crociata di Monte Sant’Angelo e la falcatura luminosa, celeste, del golfo di Manfredonia.

Trani. Cerco con gli occhi, riesco a vedere – alta, bianca – una fronte del Duomo, volta a guardare lontano sul mare.

Il treno si è fermato. La nettezza marina è nell’aria tra le case bianche. […]

In Puglia vedo i primi papaveri. Radi frammezzo ad altri fiori selvatici, di un rosso più intenso dei nostri; non solo di quelli chiari di montagna, anche di quelli emiliani, accesi, che ho visto infuocare intere distese di campi. Questi hanno un colore prezioso: non sensuale, mistico.

Le strade tra i campi, profilate dai muretti a secco di pietre tonde, bianche, sono polverose: strade buone a percorrersi a piedi scalzi o a dorso di mulo, al massimo in biroccio.

Nel mezzo di un campo, ogni tanto, una costruzione conica di pietra, un rozzo trullo non imbiancato: embrionale cupola, affine alle antiche tombe o tesori. (L. Romano, Diario di Grecia)

Paesaggio pugliese con papaveri
(Foto di Davide Roppo da Pixabay)

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Bari vecchia, piazza Ferrarese

Scendiamo dal treno a Bari in compagnia della scrittrice per la prima tappa del nostro viaggio.

Appena fuori dalla stazione, la città appare nella sua veste moderna e ottocentesca, quella del borgo murattiano, un susseguirsi ordinato di grandi strade borghesi ed eleganti viali, che disegnano una maglia geometrica totalmente estranea e quasi giustapposta alla disordinata trama mediterranea di vicoli e vicoletti, che invece caratterizzano la città vecchia. È proprio lì che ci dirigiamo velocemente con Lalla Romano, lasciandoci alle spalle la città moderna: «troppo occidentale, «milanese», per la nostra ansia di Oriente». (L. Romano, Diario di Grecia)

Dopo aver percorso via Sparano e attraversato corso Vittorio Emanuele, due tra le principali arterie cittadine, quasi senza soluzione di continuità, si apre davanti a noi Piazza Ferrarese, vera anticamera di Bari Vecchia. A Lalla Romano appare «una piazza, lunga, ampia, calma. Mi riesce familiare – a me provinciale – quasi l’avessi davvero attraversata, tanti anni fa, un giorno di passeggiata scolastica, “in fila”».

La piazza, oggi uno dei luoghi notturni della movida barese, deve il suo nome a un mercante originario di Ferrara che visse e fece la sua fortuna a Bari nel XVII secolo. È ancora possibile osservare la pavimentazione della strada romana Appia-Traiana che in passato passava proprio in questo punto della città. Sulla sinistra c’è la sala Murat, un ambiente che ospita mostre di arte contemporanea e, poco più distante, si scorge la zona absidale di una piccola chiesa, chiamata La Vallisa, risalente all’XI secolo. Questo luogo, oggi adibito ad auditorium diocesano, era la chiesa della comunità di mercanti Ravellesi e Amalfitani presenti in città nel Medioevo.

Sulla destra della piazza c’è l’edificio che un tempo era l’antico mercato del pesce comunale.

Piazza Ferrarese ha sempre rappresentato l’elegante ingresso alla città vecchia che, attraverso viuzze, vicoli e larghi, introduce il viaggiatore nel suo ventre che riserva non poche sorprese.

Così in cerca della Bari più autentica seguiamo la scrittrice:

Penetriamo, per vicoli, nella città vecchia; viva e insieme remota, piena di infanzia.

Una piazzetta irregolare, strana, meravigliosa. Da un lato casucce in vario movimento e colori, un po’ come una scena (in terra sono sparsi resti di ortaggi, dopo il mercato), e di fronte la mole austera, semplice, chiara, di un castello di pietra. Castello svevo (o normanno: nomi che fanno sognare). Sulla prima rampa corrono giocando, gridando, bambini. Il Duomo incombe con la sua maestà su un’altra piazzetta paesana, piccola, allegra. (L. Romano, Diario di Grecia)

 

Siamo giunti in Piazza Federico II, incorniciata tra i due poli architettonici e simbolici della città, il Castello Svevo e in lontananza la Cattedrale di San Sabino, intitolata anche alla Vergine Odegitria o Madonna di Costantinopoli. Prima di riprendere il cammino consigliamo al viaggiatore una visita a questi due monumenti cittadini.

Alle spalle della Cattedrale si stende il labirintico dedalo dei vicoli di Bari Vecchia, che a molti viaggiatori potrà evocare le città del Medio-Oriente. Qui la gente vive per le strade, strade bianchissime e pulitissime, dove i bambini giocano e gli adulti conducono i loro affari quotidiani, botteghe improvvisate si alternano a banchetti, dove signore con le mani segnate dall’esperienza preparano la pasta fresca locale. Consigliamo un passaggio nella strada oramai nota come la ‘strada delle orecchiette’, in via Arco Basso, dove le massaie della città vecchia, sedute le une accanto alle altre sull’uscio di casa, impastano e confezionano le orecchiette, una delle eccellenze gastronomiche baresi.

Le stradine del centro storico brulicanti di vita destarono l’attenzione di Lalla Romano che, trovandosi in città nel periodo pasquale, ebbe modo di osservare le vetrine dei fornai, per l’occasione, ricche di prodotti tipici, come le scarcelle e i taralli pasquali chiamati anche occhi di santa Lucia.

Scrive:

Le strade sono così piccole che noi abbiamo l’impressione di essere giganti; tanto più che esse sono formicolanti di bambini piccoli, i quali ne portano in collo altri piccolissimi.

Qualcuno è incantato davanti a una vetrina; vetrina di panettiere, che espone ovetti per l’imminente Pasqua. Uova col guscio fissate a un disco di pasta che le attraversa. […]

Vi è povertà in queste strade, anzi, miseria; ma è miseria bianca, non nera. Le case sono tutte intonacate di fresco, candide.

Ai crocicchi, tavolinetti espongono mercanzia minuscola, quasi inesistente, uguale a quella con cui si giocava da bambine «a vendere»: boccette, polverine, qualche pizzico di semi. (L. Romano, Diario di Grecia)

ari
Bari, Piazza Federico II, Castello Svevo.
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Bari, Cattedrale di San Sabino
(Di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=61448663)
Bari, Basilica di San Nicola
(author: Francesco9062 – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18279866)

La visita non può che concludersi nel luogo simbolicamente più importante di Bari vecchia, la piazza dove si erge maestosa la bella basilica romanica di San Nicola.

La Romano descrive con queste parole il suo incontro con la vivace umanità che si affolla intorno alla chiesa:

San Nicola, circondato di spazio, è immenso. Fa pensare a un Medioevo luminoso.

Dentro, monaci fraseggiano dal coro. Sopraggiungono anche qui bambini, entrano coi fratellini incollo, li fanno sedere, additano loro i monaci: li portano in chiesa per tenerli buoni.

Fuori, altri bambini corrono, si radunano cheti, ripartono chiassosi. Su un parapetto uno piccolo, di un anno al massimo, già sicuro corre sui piedini nudi e ogni tanto, invece di cadere, fa un piegamento e poggia le palme davanti ai piedi, il culino in aria, nudo. (L. Romano, Diario di Grecia)

La Basilica che si specchia nelle acque dell’Adriatico fu per secoli punto di riferimento per naviganti, pellegrini e viaggiatori diretti o di ritorno dall’Oriente che approssimandosi al porto, immediatamente, si confrontavano con la sua sagoma. Per Lalla Romano, giunta sino a qui, il mare che bagna Bari vecchia e quasi lambisce le fondamenta di San Nicola annuncia l’imminente viaggio. Scrive:«Andiamo a guardare il mare. È celeste e luccica, presagio di favolosi viaggi».

La mattinata barese della scrittrice volge al termine, invitiamo il viaggiatore a seguirla mentre, di ritorno in stazione, riattraversa il centro murattiano, fermandosi davanti alla vetrina della Libreria Laterza in via Sparano:

Riattraversiamo la città nuova, così milanese c’è perfino «il Motta».

Lunga la via centrale Stefano mi mostra a dito l’insegna di un negozio. Leggo: G. Laterza e Figli. Dio mio! Come ho potuto scordarmene? Le edizioni Laterza sono state il latte, per noi. Vagheggiate, centellinate nelle biblioteche al tempo dell’adolescenza squattrinata, poi i primi gelosi acquisti: l’Estetica di Croce, la Nascita della tragedia.

Attraversiamo la strada, con la reverenza e la curiosità del caso. La vetrina è piena di Santi. Di statuine della Madonna del sacro Cuore. Dunque tradimento è l’anima del commercio! Ecco una buona signora col suo ragazzetto, vanno ad acquistare da Laterza un catechismo o una Piccola Filotea.

Giriamo l’angolo, e nelle vetrine di là i veri Laterza stanno allineati, distanziati signorilmente, nel sottile rarefatto silenzio del pensiero laico. (L. Romano, Diario di Grecia)

Oggi il bar della Motta, citato dalla scrittrice, per molti anni punto di riferimento per gli aperitivi domenicali dei baresi, non c’è più, mentre è ancora possibile entrare nella sede della storica libreria e casa editrice Laterza in via Sparano. Per oltre un secolo la Laterza ha animato la vita culturale di Bari, oggi quelle stesse vetrine che emozionarono la Romano, cresciuta sui libri pubblicati da questi editori meridionali, sono schiacciate e ridimensionate tra le vetrine luccicanti dei negozi di prestigiose marche di abbigliamento che ne hanno rilevato in parte i locali.

Lettera commerciale della ditta di Bari Giuseppe Laterza & Figli su carta intestata che riproduce lo stabilimento e il negozio, Bari 8 settembre 1920.
(Public domain)
Corfù, vista dal mare
(foto partner)

Lasciata Bari, la scrittrice prenderà un treno che la condurrà a Brindisi da dove s’imbarcherà alla volta della Grecia. Il viaggiatore invece oggi potrà optare per imbarcarsi direttamente dal porto di Bari che collega la città con le Isole Ionie.

Non resta che godersi il tempo del viaggio, approfittando della vista offerta dalla cabina della nave per osservare la Puglia in lontananza che alla scrittrice «pare già una memoria», con la «sua malinconia occidentale».

Scrive:

Il mare, calmo, è esso stesso elemento del silenzio, è uno spazio incorporeo, una eterea pianura che introduce a un viaggio al di là del tempo. […]

Ci stacchiamo dall’Italia.

Un tremito, un trapestio profondo, sussulti: la nave si muove. Ci troviamo nel salone di poppa e le vibrazioni, l’incipiente rullio sono sensibili, eccitanti.

Lo scenario dietro le vetrate si sposta: l’alta città murata, grigio-rosa, scivola all’indietro, s’inclina di sbieco, si allontana.

La nave raggiunge e supera un favoloso castello svevo ormai cupo, notturno, sul mare ancora chiaro, si scioglie dagli abbracci, dai lunghi tentacoli dell’immenso porto e scivola via nel crepuscolo.

A mano a mano che la nave si immerge nella solitudine delle acque e della notte, provo uno sgomento e insieme un’esaltazione: come se avessimo iniziato un viaggio supremo, verso una beatitudine difficile e incorporea. (L. Romano, Diario di Grecia)

La nave approda a Corfù la mattina del 18 aprile del 1957. L’isola si rivela alla scrittrice alla luce del nuovo giorno e la sua fantasia è immediatamente catturata dal Vecchio e dal Nuovo Forte veneziano che ne disegnano e proteggono le coste. Così li descrive:

Si profila una fortezza grigia e verde, a forti spalti, a zone dirupate, erbose: una fortezza antica, in abbandono. Ci devono essere sentieri costeggianti le mura, per le passeggiate domenicali delle famiglie; fossati e cunicoli per i giochi dei ragazzi, prati per le greggi e i loro pastori. Come nella fortezza che Redburn-Melville salutò salpando da New York.

Nel punto dove attracchiamo, abbiamo di faccia un’altra fortezza, meno antica ma non meno solitaria e dormente.

Ventosa, la vasta banchina è chiusa in fondo da un viale di tozzi platani come una piazza di paese. Vicino a riva, bancarelle di paccottiglia: minime anforette rosse e nere, rosari turchi di ambra gialla.

Autobus e jeeps ci porteranno a visitare l’isola. (L. Romano, Diario di Grecia)

Corfù vicolo del centro storico
(“Colour Wash” by kamshots is licensed under CC BY 2.0 )

Anche Emilio Cecchi, sofisticato viaggiatore e raffinato scrittore, circa venti anni prima, nel 1934, arrivò a Corfù di mattina e così ci racconta quell’esperienza nelle prime pagine del suo libro Et in Arcadia Ego:

È assai bello arrivare in un’isola ancora addormentata, e con appena qualche pagliuzza di sole in cima ai monti. Così dormiva Corfù. E dal molo appressandoci alle abitazioni, e forse a motivo di quelle persiane abbassate alle finestre sulla marina, si aveva un senso come a giungere di sorpresa, clandestinamente. […]

Nelle stradette era il silenzio della città che ha fatto tardi la notte fumando e chiacchierando; un odorino di cicche che macerassero nella guazza: lo stesso umido tanfo che all’alba si sente nei caffè appena aperti […]. Deserto era anche lo spiazzo del mercato, con intorno sbilenche baraccucce d’aspetto balneario. Soltanto usciti dall’abitato, e inoltrandoci velocemente nella campagna, si incominciò ad incontrare qualcuno: contadini sul loro asinello, donne che con una corda si tiravano dietro la capra; e accosto ad ogni casa colonica, legato al piuolo, un giovenco, come un monumento votivo.

E più s’andava avanti, più le ragazze e le donne diventavano belle. […]

Erano, queste, mistiche immagini bizantine: le immagini più bizantine che abbia mai veduto fuor che nei musei e nei mosaici. Pallidi i volti, incorniciati di panni neri, gli occhi stellanti, trapunte le vesti composte a pieghe ed angoli simmetrici. E in quell’avvallamento verde e senza sole, sotto la cupola del cielo bianchiccio, stavano con una grazia maestosa ed inutile di pitture bizantine mezzo scancellate. […] (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego.)

Corfù, Achilleion
(foto di Piotrus – Opera propria, CC BY-SA 3.0
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12187305)

Invitiamo il viaggiatore a seguire lo scrittore che sta lasciando il centro della città di Corfù per dirigersi nel villaggio di Gastouri dove si trova l’Achilleion, «la villa della povera Elisabetta d’Austria, poi di Guglielmo II, oggi passata al governo greco» (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego).

A Lalla Romano, anche solo il nome di questo monumento, esattamente come quello di Corfù, evoca immediatamente ricordi letterari e suggestioni romantiche. Ricorda la scrittrice:

Corfù. Da bambina mi piaceva ripetere questo nome; e il verso del Pascoli:

nel solingo Achilleo di Corfù

Inutile, adesso, ridurlo a quello che è; per me è ancora bello: pieno di silenzio, e di una lontana musica settecentesca. Ignoravo cosa fosse l’Achilleion, e quando seppi che era stato il rifugio di una regina infelice, il fatto non mi disturbò, ma non aggiunse nulla all’incanto di quel nome. (L. Romano, Diario di Grecia)

Con occhio più disincantato, a tratti dissacrante, Emilio Cecchi ci accompagna all’interno di questo palazzo dalle forme ostentatamente neo-classicheggianti, famoso per essere stato l’amata residenza di Sissi, l’imperatrice Elisabetta d’Austria. Ancora oggi è una delle attrazioni turistiche principali dell’isola. Scrive Cecchi:

Avete voglia a combinare esposizioni retrospettive di vita e costume dell’Ottocento, mettendoci ogni finezza di satira archeologica! Per fare un Achilleion occorsero niente meno che i sedimenti di due Imperi. Il cattivo gusto, la tristezza di due Imperi. A mezza costa. Fra palmette, bambù e viti americane, il prodotto di questa grandiosa collaborazione sta, sbreccato e spaesato, come il relitto di un mondo assolutamente estraneo, come un enorme polipaio lasciato in secco dal mare.

Lievemente, dinanzi alla villa, il giardino discende fino a una terrazza semicircolare, protesa sul panorama con l’aria di un ponte di comando d’una nave ammiraglia. […]

Fra le aiuole, un nudo di Frine, dozzinali frammenti di scavo, bassorilievi di donne scarmigliate e ploranti che vorrebbero sembrar greche, ma il liberty si sente lontano un miglio. Per vialetti e pergole inselvatichiti, s’arriva al ponte di comando, sul quale pavoneggia un altissimo Achille di marmo grigio, stile Thorwaldsen. […]

Presso la villa, altra scultura bavarese del Pelìde, ma questa volta moribondo, e intorno disseminati marmi e bronzi d’Amori, Muse e Lottatori: il più trito repertorio ellenistico che va a gran tiratura sulle cartoline illustrate. (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego.)

Con Cecchi continuiamo la nostra visita all’interno dell’Achilleion:

[…] Finalmente s’entra. C’è di tutto. Divani rococò. Stipi moreschi, intarsiati d’ebano e madreperla. E in bella cornice, scialbe istantanee eseguite dall’imperatore. […]

Quanto ad Elisabetta [Elisabetta II d’Austria, l’imperatrice Sissi], vestigia del suo gusto personale sono nella cappella a pianterreno. E la cappella sembrerebbe quasi romanica, se il catino dietro l’altare non portasse un affresco floreale, se alle pareti non fossero murate riproduzioni di terracotte della Robbia, e i candelieri di ottone e varia suppellettile non provenissero dalle lontananze d’ancor altre civiltà: nel complesso, un bazar triste e meticoloso. […]

Sulle brezze ioniche, Elisabetta ascoltava echi della canzone di Heine. Ma Guglielmo, rimirando Achille, pensava che con pochi ritocchi si poteva benissimo presentarlo come Sigfrido. Böcklin ebbe la prima, primissima idea dell’Isola dei Morti. (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego.)

La statua di Achille descritta da Emilio Cecchi
(Foto di Ava Babili is licensed under CC BY-NC-ND 2.0 )

Lo scrittore ironizza sull’identificazione, assolutamente fittizia e priva di reali prove, dell’isolotto di Pontikonissi con il soggetto del quadro del maestro simbolista Böcklin. Questo luogo, indiscutibilmente suggestivo, è poco più di un’alta scogliera sul mare circondata da un boschetto di cipressi, raggiungibile in barca dal molo su cui sorge il Monastero della Vlacherna, dove arriva anche Lalla Romano e fa tappa il nostro itinerario.

Visto da lontano, il bianco monastero sembra alla scrittrice anch’esso un’isola circondata dal mare:

Un mare liscio come un lago, e come un lago cinto di colli ondulati vicini e lontani, in una luce specchiante di miraggio, nel sentore amarognolo della primavera. Nel mare due piccole isole, sorprendenti: una bianca e una nera. Quella bianca – bianchissima, di calce – è un convento, ha un campanilino piatto e due campane; è unita alla terra da un pontile di sassi. L’altra, un po’ più indietro, nero-azzurra di cipressi e di pini. Quale sia la più misteriosa, non so.

[…] Il sentiero mi par familiare, uguale a quelli che scendono su Punta Chiappa di Camogli. Ora si vede che oltre al breve pontile dell’isola bianca, a destra corre un lungo molo o gettata di cemento che raggiunge l’altra riva e racchiude così un’ampia laguna.

Mentre trottiamo sul sottile cammino a fior d’acqua verso il convento bizantino, vediamo sfilare lentamente sul molo a lato un asinello col suo basto, e sopra un bambino; dietro ad esso un uomo che si appoggia a un bastone. La povertà e gentilezza «umbra» di quelle figure fa sembrare preziosa la pace del bianco convento.

Quando si entra è diverso. Nell’intimità questa pace è vera. La chiesa, piccola, nera dentro, è per me montanara col suo pavimento di legno, coi suoi ex voto vecchi e naïfs. I quadri sono icone.

Usciamo. Il mare fa specchio. […] Qui veniva a pregare la regina infelice dell’Achilleion. (L. Romano, Diario di Grecia)

Dal piccolo bianco monastero ortodosso, dove l’imperatrice Sissi andava a pregare, Lalla Romano si sposta sull’isolotto di Pontikonissi, che secondo un’antica leggenda, oltre ad essere stato d’ispirazione per il quadro di Böcklin, sui cui ironizzava Cecchi, altro non sarebbe che la nave dei Feaci trasformata in pietra da Poseidone per vendicarsi dell’aiuto offerto ad Ulisse. Le emozioni e i ricordi che in lei suscita il luogo sono affidate a queste parole:

L’isola nero-boscosa è vicina, pare debba mettersi a navigare, come una nave mimetizzata. È il contrappasso del mito, perché quell’isola è la nave dei Feaci. Mentre risaliamo il sentiero «ligure», incantevoli bambini ci porgono rametti fioriti che odorano fresco, dolce. Bambini scalzi, muti e sorridenti come i nostri di montagna quando sono davanti a forestieri. Sono insistenti come ospiti, non come mendicanti. Non chiedono infatti, offrono. Distribuiamo soldini, soldini greci, fin che ce n’è. Quando non ne abbiamo più ci mettono lo stesso in mano i rametti. (L. Romano, Diario di Grecia)

Pontikonissi, veduta
[author: Alinea CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)]
Pontikonisi_Island_05-06-06.jpg
Corfù, isolotto di Pontikonissi
[author: Sascha Askani, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=204175]
Arnold Böcklin, L’isola dei morti (terza versione)
Corfù, centro storico
Author: Lao Loong [CC BY-SA 1.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/1.0)]

In compagnia delle nostre guide letterarie, l’itinerario prosegue per la città di Corfù, in cui l’eleganza veneziana delle architetture e delle strade si combina felicemente con il fascino dell’Oriente mediterraneo di chiese ortodosse e di usi e costumi delle popolazioni locali. Scrive Lalla Romano:

[…] attraversiamo a piedi la città. Non so se sia veneziana come dicono, certo è occidentale, genovese direi, con le sue case alte, bianche e rosa.

[…] guardo le bottegucce. Si piomba nella più remota infanzia, per chi l’ebbe paesana come me. Bottegucce povere, polverose, buie; per entrare si salgono – o scendono – scalini. Odore di carrube, di canfora; vi si vendono ceri, cartoline, ogni cosa. (L. Romano, Diario di Grecia)

Ci sono luoghi e momenti a Corfù in cui è possibile immergersi totalmente in questo felice connubio tra stile italiano, occidentale, latino e cultura ortodossa che caratterizza la cittadina, come quando, ad esempio, si celebra un battesimo ortodosso nella chiesa di San Spiridione, eretta nel XVI in forme veneziane. Questa fortuna toccò ad Emilio Cecchi che ce ne lascia una vivida descrizione, grazie alla quale anche il viaggiatore potrà gustarne l’atmosfera. Entriamo in chiesa con lo scrittore:

[…] nella chiesa ortodossa di San Spiridione, genti accorrevano vociferando, quasi ci fosse, che so, un tentativo rivoluzionario. Scontrandosi come le formiche, si davano attorno con gialli candelini accesi. Ma poiché nessuno accennava a manomettere le lampade d’oro e d’argento a modello di barca, e d’argento anch’esso il sepolcro del santo, faceva presto a chiarirsi che, nonostante le stride, forse non stava succedendo niente di male.

Era infatti un battesimo. E la ressa e l’entusiasmo dei parenti fino al settimo grado; […] cantando le preci, il prete cercava di soperchiar quegli strilli; ma intanto gli si scioglievano, sulla nuca e le orecchie, crollando sotto la stola, grosse pesanti trecce brune, vere trecce da donna, da donna anzianotta; che a noi, non abituati, vedendole in testa ad uomini, fanno un effetto un po’ discostante. A leggerne negli storici, è così poetica la vita nella chiesa cristiana, i primi decenni dalla vita di Gesù. […] Eppoi, guardandoli meglio, si vede che sono della stessa pasta della gentuccia che popola certe pagine di Aristofane, di Teocrito; ma diventati più gravi, pudichi, eroi. Il senso di questo greco cristianesimo, casalingo, primordiale, è fra le più delicate e commoventi intuizioni che subito s’incontrano dall’altra parte dello Ionio. […]

Dalle pareti di San Spiridione, dorate pitture venezianeggianti (con i fortilizi, i marmi, la lingua, fra le tante nostre testimonianze su queste rive) guardano quella agitazione, quella dolorosa vivacità di stirpi urtate, confuse, consunte, quel disordine che in Corfù già sente di turchesco e carovaniero: guardavano con la serena dignità dell’occhio latino. (E. Cecchi, Viaggio in Grecia. Et in Arcadia ego)

Lasciamo Emilio Cecchi, San Spiridione e Corfù e proseguiamo il nostro itinerario, imbarcandoci nuovamente in compagnia di Lalla Romano, in direzione di Itaca.

La traversata in nave, per raggiungere la più omerica fra tutte le isole, regalerà al viaggiatore paesaggi mediterranei di incredibile bellezza che non lasciarono indifferente la scrittrice che racconta:

Scivoliamo tra isole bianche e petrose, nel sole. Danno un’impressione quasi cruda di nudità.

Forse consiste, l’essere isole, in quella leggerezza di uccello appena posato, e in quell’irremovibilità, insieme, di statue che si debbono aggirare. Appaiono con nostro stupore; con nostro rimpianto dileguano. […]Stiamo costeggiando Itaca, ci dirigiamo verso un porto. Le rive sono vicine. Aspre, montuose, carsiche. Poco sopra l’orlo del mare corre un sentiero che sembra però naturale, non tracciato dall’uomo. Silenzio e deserto. Luce pomeridiana, un poco più calda ma non meno chiara della mattinale. La terra che traspare tra la pietra bianca, è rossa. Lo strano sentiero non è mai stato calpestato, o chissà? (L. Romano, Diario di Grecia)

L’arrivo a Itaca suscita nella Romano le stesse emozioni che ancora oggi provano molti viaggiatori che raggiungono quest’isola collinosa, dove, come cantato nell’Odissea, dopo lunghissime peripezie e molte avventure, infine approdò Ulisse. Itaca, per la scrittrice, è più di un’isola del mar Ionio, non è solo la patria dell’eroe omerico, ma in qualche misura è l’isola di ogni viaggiatore, «è la patria, la casa di tutti», dove riconoscere il senso profondo della nostra civiltà e cultura.

Scrive Lalla Romano:

Itaca. Commuove che sia davvero petrosa. Del resto, prima è stata un’isola come le altre, un’isola senza nome; e dopo, la patria di Ulisse. Anzi, la patria, la casa di tutti noi. Non più Itaca di un’altra, dunque. (L. Romano, Diario di Grecia)

Ithaca
(foto partner)

Rivolgendosi alla sua guida la scrittrice comincia a raccogliere informazioni sui luoghi cantati nell’Odissea:

Il Mitropulos [Mitropulos è il nome fittizio della guida greca di Lalla Romano], interrogato se la città che vediamo sia nel posto di quella di Ulisse, dice che no, che la baia di Ulisse era un’altra e indica una valletta profonda, in ombra e boschiva. – Là, – dice era l’approdo di Ulisse –. Stiamo già passando oltre, ma ho veduto – o sognato di vedere? – un filo di fumo, azzurrino. Eppure la valletta appariva disabitata. Lo straordinario del resto è che esista, intravveduta in qualche parte quaggiù. (L. Romano, Diario di Grecia)

Ancora oggi a Itaca numerosi sentieri escursionistici conducono nei luoghi veri o presunti, legati alla tradizione omerica. Non sempre si tratta di strade semplici da seguire e, ironia della sorte, cercarli potrebbe diventare un’impresa epica, sia per le grandi distanze da percorrere esclusivamente a piedi, sia per la scarsa segnaletica. Si tratta ovviamente di siti leggendari, su cui gli archeologi si sono spesso schierati su posizioni contrapposte. Con questa consapevolezza, giunti nell’isola per eccellenza, consigliamo al viaggiatore di non negarsi il piacere di una visita alla Fonte Aretusa. Questa sorgente naturale, a circa dieci chilometri da Vathy – il principale centro abitato di Itaca – è il luogo dove, secondo l’Odissea, Eumeo, il porcaro di Ulisse, portando i maiali ad abbeverarsi incontrò l’eroe che era da poco finalmente sbarcato sull’isola.

Nei pressi del piccolo villaggio di Stavròs, nella parte settentrionale, tra colline coperte di ulivi e coltivate a viti, si trova un piccolo museo archeologico e i resti di un palazzo dalle mura ciclopiche che oggi, sulla base di recenti scavi archeologici, è stato identificato come la possibile reggia di Ulisse, quella stessa reggia che invece l’archeologo Heinrich Schliemann, colui che portò alla luce i resti della città di Troia con i poemi di Omero come guida, aveva collocato nei pressi di Alalkomenés, vicino il monte Aetós.

Itaca, oltre a questi luoghi dal fascino mitologico e letterario, offre al viaggiatore anche altre attrattive: bellissime insenature naturali e spiagge, il villaggio portuale di Vathy e altri piccoli borghi, incastonati tra le colline. Scrive la Romano:

[…] nella rada ben chiusa dalle colline la nuova Itaca bianca, rosa, piccolo borgo sul mare.

Dopo, guarderò uomini e case. Ora guardo le colline in cerchio. Piene di forza e povere. Dolci. Dolci nelle linee ferme e calme, prive di ogni vaghezza di alberi o prati o coltivi. Qualche albero c’è, a piccoli gruppi, radi, due o tre, anch’essi di natura aspra, non sognante. Non è dolcezza. È ritmo, severo. È un senso, concluso, di unità. (L. Romano, Diario di Grecia)

Zona archeologica di Alalkomenés
Resti di mura nei pressi di Stavròs

Consigliamo al viaggiatore di perdersi nei villaggi e nelle colline che emozionarono Lalla Romano. Merita una visita l’antica capitale di Itaca, Anogí, situata a 500 metri di altitudine e a circa quattordici chilometri di distanza da Vathy. Qui è possibile ammirare l’antica chiesa dell’Agia Panagia con i suoi pregevoli affreschi bizantini. Il nostro itinerario si conclude in questo luogo e oramai non ci resta che lasciare l’isola all’imbrunire, come fece Lalla Romano che con queste parole si congeda da Itaca:

Partiamo verso sera. L’isola è più misteriosa, più solitaria. […]

Non c’è spiaggia né scogliera, il mare lambisce la roccia carsica, come se avesse sommerso una valle. Ciò dà l’impressione di un evento recente, in quest’aria senza tempo.

E del resto, perché questo luogo è antico? Immemoriale è la storia dei monti e dei mari, e questo mare non è più antico di un altro.

Ma questa è la Grecia: vale a dire siamo noi, uomini, antichi. (L. Romano, Diario di Grecia)

Noi, invece, ci congediamo dal viaggiatore e dall’isola condividendo l’augurio e i versi del poeta greco Kostantìnos Kavafis:

[…] Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

(K. Kavafis, Itaca)

Anogi
Anogí, Agia Panagia, iconostasi.

Passeggiando con Sissi

Corfù: monte Pantokrator, Kanoni, Benitses, Paleokastrizza, Lakones, Agia Kiriaki, Evropouloi

Itinerario – Passeggiando con Sissi
[Tedesco]
[Spagnolo] 

In questo itinerario proponiamo al viaggiatore di scoprire le bellezze di Corfù passeggiando idealmente a fianco dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, la sovrana, conosciuta come Sissi, che amò profondamente la Grecia e in particolare quest’isola, nella quale trascorreva lunghi periodi di vacanza in cerca di quella pace interiore che sembrava mancarle nella corte imperiale di Vienna.

La Principessa Sissi, part., Franz Xaver Winterhalter, 1865

Durante i suoi soggiorni sull’isola l’imperatrice amava fare lunghe passeggiate ed escursioni, che il viaggiatore potrà ripercorrere attraverso i fogli di diario del suo mentore e maestro greco, Constantin Christomanos, che fu spesso suo compagno di strada e di viaggio. I ricordi delle gite e delle passeggiate in compagnia della sovrana, nelle pagine scritte da Christomanos, sono proiettati in una dimensione dagli scenari fiabeschi, in cui le suggestioni classiche e omeriche convivono con l’accentuata sensibilità romantica dell’autore. Iniziamo il nostro itinerario seguendo il viaggio dell’imperatrice che il 15 marzo 1892, in compagnia del maestro Constantin, s’imbarca da Pola, sul panfilo imperiale Miramare, per raggiungere Corfù. La navigazione attraverso le acque del mar Adriatico è tranquilla, per la sovrana un momento quasi idilliaco, come confida al suo mentore:

La vita sulla nave è qualcosa di più che un semplice viaggiare. È una vita migliore, più vera. […]. È come trovarsi su un’isola da cui sono banditi tutti i fastidi e i rapporti umani. È una vita ideale, chimicamente pura, cristallizzata, in cui sono assenti i desideri e si perde il senso del tempo. Avere la percezione del tempo è sempre doloroso perché ci trasmette la percezione della vita. […]. La vita sulla nave è molto più bella di qualsiasi sponda. Le mete di un viaggio sono desiderabili soltanto perché tra noi e loro si frappone il viaggio. […] Sapere che devo presto ripartire mi emoziona e mi fa amare qualsiasi luogo. E così, ogni volta, io sotterro un sogno che svanisce troppo in fretta, per inseguirne un altro. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Il 17 marzo, il panfilo raggiunge il Mar Ionio e all’alba entra nello stretto canale che si apre tra la punta settentrionale di Corfù e le catene montuose dell’Epiro. Il viaggiatore, che ancora oggi raggiunge le Isole Ionie in nave dall’Adriatico, potrà ammirare dal ponte il paesaggio descritto da Christomanos:

I monti neri come pece, spiccavano sul pallido verde-grigio del cielo. Le rotonde colline rocciose della riva di Corfù erano coperte da una bassa sterpaglia, nera anch’essa, che si disegnava con incerti contorni su quel fondo scuro. Molti di quei cespugli dovevano essere in fiore, poiché di tanto in tanto arrivava alla nave un profumo intenso, come di miele frammisto, frammisto all’odore che esalava dalle rocce bagnate. Là dove le colline assopite erano cinte dal mare spumeggiante, si scorgevano macchie scure che facevano pensare a caverne insondabili. Una fascia appena increspata lambiva quietamente la riva sassosa, quasi la baciasse nel sonno. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

 

Lo sguardo di Sissi è catturato dal monte Pantokrator che con i suoi due corni gemelli, che s’inarcano, ricordano la posa di una statua greca. Avvicinandosi all’isola, con l’avanzare del mattino, il viaggiatore, come la bella imperatrice, potrà osservare le cime dei monti che cominciano a brillare alla luce dell’aurora che conferisce al paesaggio una dimensione mitologica.

Scrive Christomanos:

[…] un’atmosfera sovrannaturale fatta di rosea polvere d’oro, nella remota distanza e nel fulgore di una mitica età degli dei. Anche a non saperlo s’intuiva che qui era la patria della «dea dalle dita rosate» e di Febo dai bianchi destrieri. Poi le rose sono cadute sul torso di pietra del Pantokrator. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

 

Guido Reni, Aurora, Casino Pallavicini, Roma

La nave imperiale prosegue in direzione della baia di Garitsa, una «lingua di terra tutta ricoperta di vegetazione», e all’epoca del passaggio di Sissi, «come da una cornucopia gli alberi e i fiori si rovesciavano sul litorale; aloe e palme levavano alte le loro chiome nell’azzurro». Oggi, lungo questa insenatura, corre un incantevole lungomare dal quale si può godere di una vista molto suggestiva che spazia dal Vecchio Forte Veneziano al faro.

Veduta di Corfù, sulla sinistra la baia di Garitsa

Foto di Corfu Town R02.jpg: Marc Ryckaert (MJJR)derivative work: ויקיג’אנקי – This file was derived from: Corfu Town R02.jpg:, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=31692771

Questo luogo, così suggestivo, non lasciò indifferenti la sovrana e il suo compagno di viaggio che lo descrive con queste parole:

Era un angolo appartato, come se facesse parte di un altro mondo, ancora immerso in un pallido sopore sotto un involucro di seta luccicante. Ma in mezzo alle acque assopite si levava un fascio di neri cipressi che cingevano una chiesetta bianca; e dove la rupe che reggeva i cipressi si tuffava nel mare, questo si tingeva di rosso per il riflesso dei rossi gerani. Quell’isola mi sembra il modello dell’Isola dei morti di Böcklin […]. Quei cipressi laggiù somigliano a sogni cupi, e i fiori rossi che si specchiano nell’acqua con i loro riflessi sono sacri a Persefone. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Christomanos non è l’unico ad aver voluto identificare l’isolotto greco con il luogo ritratto dal famoso pittore simbolista. Su Pontikonissi, che più prosaicamente i Greci chiamano «l’isola dei topi», fantasie e suggestioni letterarie e artistiche sono proliferate. La leggenda vuole che quello scoglio altro non sia che la nave dei Feaci trasformata in pietra dalla vendetta di Poseidone, e ancora, secondo altri, potrebbe essere l’isolotto su cui William Shakespeare immaginò di ambientare la Tempesta.

Il 17 marzo 1892 la scialuppa imperiale tocca riva e approda nella baia di Benítses, nei pressi dell’omonimo villaggio. Oggi, questo ameno borgo, a soli quattordici chilometri dalla città di Corfù, è una popolare meta turistica e un’apprezzata località balneare, per la sua bella spiaggia di sabbia e ciottoli. Tra le colline boscose che circondano la zona sono ancora visibili le rovine di un’antica villa romana.

Pontikonissi, veduta
[foto di Alinea CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)]
Pontikonisi_Island_05-06-06.jpg
Corfù, isolotto di Pontikonissi
[foto di Sascha Askani, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=204175]
Arnold Böcklin, L’isola dei morti (terza versione)

Corfù, Achilleion

Author: No machine-readable author provided. Tasos Kessaris assumed (based on copyright claims). – No machine-readable source provided. Own work assumed (based on copyright claims)., CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1173278

Nella parte meridionale dell’isola di Corfù, tra Benítses e Gastouri, in cima a una collina, sorge l’amata residenza di Sissi: il Palazzo Achilleion, costruito alla fine dell’Ottocento. È in questo luogo che, una volta sbarcati, si dirigono l’imperatrice e il fedele Constantin che, nel suo diario, si dilunga nella descrizione di questa villa in stile pompeiano, oggi forse un po’ kitsch, ma ancora in grado di attirare numerosi turisti per la bellezza dei suoi giardini e per il fascino che continua ad esercitare la figura di Sissi.

Lasciamo ai fogli di Christomanos il compito di guidarci tra i lussuosi ambienti di questa dimora:

Il palazzo è incassato nella montagna. Il lato anteriore ha tre piani, mentre sul retro vi è un unico piano che dà su un’ampia terrazza a giardino con alberi secolari. La facciata guarda sulla strada maestra che da Corfù porta alla spiaggia di Benizze attraversando il bianco villaggio di Gastouri e passando davanti al castello. Un alto muro bianco e la cortina fronzuta degli ulivi fanno da riparo contro gli sguardi indiscreti. […] Sulla strada si apre un grande cancello di ferro con la scritta «AXIΛΛΕΙON». Una rampa sale dolcemente verso il portico antistante il castello: poderose colonne sostengono l’ampia veranda dei centauri. Il secondo e il terzo piano rientrano in modo da lasciare spazio a due logge, a destra e a sinistra della veranda dei centauri, con la quale comunicano; (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos).

Un peristilio accompagna il lato dell’edificio che si apre sul giardino pensile. La parte inferiore delle colonne è colorata di rosso cinabro; i capitelli, dipinti di azzurro e di rosso, con ricche dorature, si stagliano mirabilmente contro la parete retrostante, in rosso pompeiano, nella quale sono affrescati grandi medaglioni che rappresentano leggende classiche […] e paesaggi ispirati all’ Odissea. […] Di fronte a ogni colonna del peristilio è collocata una Musa di marmo, in grandezza naturale, con Apollo Musagete in testa. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Le statue, confida Sissi all’amico, sarebbero tutte antiche, acquistate a Roma dal principe Borghese, costretto a «vendere i suoi dèi» per non andare in rovina.

I giardini dell’Achilleion permettono al viaggiatore di godere di una incantevole vista, la stessa che conquistò l’imperatrice d’Austria, così è descritta nei fogli di Christomanos:

[…] il mare, che sembra quasi salire verso l’orizzonte, disegna sul marmo bianco una linea scura, color vino: una linea tracciata nell’immensità di segreti inespressi, aldilà di ogni comprensione…E ancora più alti si ergono nel pulviscolo dorato i monti violetti dell’Albania. Non lontano una fitta macchia di allori accentua la classicità dell’insieme. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

L’intera costruzione di questo palazzo ruota attorno al tema decorativo e simbolico dell’eroe omerico Achille. Una delle statue preferite dall’imperatrice rappresenta il Pelide morente. L’opera, caratterizzata da un certo patetismo romantico e da un’accentuata plasticità delle forme, si trova su una delle terrazze panoramiche che guardano il mare.

Corfù, Achilleion, esterno, peristilio
Foto di Thomas Schoch — own work at http://www.retas.de/thomas/travel/corfu2006/index.html, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=843512
Corfù, Achilleion, statua dell’Achille morente
Foto di Dr.K. – Own work, CC BY-SA 3.0
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25907139
Picture 6
Corfù, Paleokastrizza, (“DSC_6083” by almekri01 is licensed under CC BY-NC-ND 2.0)

Elisabetta confessa di aver consacrato il suo palazzo all’eroe omerico che ai suoi occhi «personifica l’anima greca, la bellezza del paesaggio e degli uomini. […] La sua volontà era l’unica cosa che avesse sacra. È vissuto solo per i suoi sogni, e per lui il suo dolore valeva più della vita intera».

Lasciamo l’Achilleion e seguiamo Sissi e il suo maestro di greco durante un’escursione lungo la costa occidentale di Corfù, che ancora oggi vanta le spiagge e i villaggi più belli dell’isola. Il 20 marzo, i due si dirigono a Paleokastrizza, per visitare un antichissimo monastero che sembra sorgere in mezzo al mare, su uno scosceso promontorio collegato all’isola da una sottile striscia di terra.

I fogli del diario di Christomanos descrivono con dovizia di particolari il monastero e l’itinerario percorso, che invitiamo il viaggiatore a seguire in ideale compagnia di Sissi.

Racconta il maestro greco:

Non appena si abbandonano le strade carrozzabili, ci si addentra ogni volta nel sacro bosco di ulivi. Tutta Corfù è un immenso uliveto selvatico che cresce, oggi come secoli e millenni fa, sempre sulle stesse zolle, sempre vicino al respiro del mare. […] Camminavamo nella calda, fremente penombra, in mezzo a tronchi contorti che sembrano avere un’anima, […] d’improvviso, attraverso le fronde tremolanti degli ulivi, abbiamo indovinato un luccichio, ancora più inebriante dell’azzurro del cielo o dello splendore del sole che abbracciava gli alberi: il mare! – l’altro mare, quello occidentale, che non si vede dalla costa feacica dell’isola ma di cui si avverte sempre la vicinanza. Ben presto, da un’altura, lo sguardo si perde su una distesa senza fine, inverosimilmente azzurra, più azzurra del cielo, più azzurra di qualsiasi idea di azzurro, più beata di ogni beatitudine. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

È arrivati a questo punto che si scorge il monastero di Palaiokastrìtsa che significa «Quella (la madre di Dio dell’antico castello», in riferimento all’antico kastron bizantino che sorge poco lontano: Angelokastron, il bastione più occidentale di Corfù.

Continua la narrazione di Christomanos:

Il monastero – un complesso di piccole costruzioni antiche, strette l’una all’altra sotto uno stesso involucro di intonaco bianco e sovrastate da una cupoletta rotonda di tegole, un piccolo cortile lastricato e, infondo a questo la chiesa con la porta spalancata. […] In fondo alla chiesa, un’antichissima iconostasi di legno con la doratura tutta annerita. Davanti alle cupe immagini dei santi, di cui si distinguevano appena gli occhi bianchi in mezzo ai grandi anelli delle aureole, lumini a olio verdi e rossi ardevano dentro lampade d’argento appese a catene. Le loro fiammelle, perdute in un sogno, si affievolivano a tratti per rianimarsi subito dopo. C’era un forte odore di ceri spenti, di vecchio legno tarlato, di polvere e muffa. In nessun altro luogo si aveva così netta l’impressione di essere trascinati indietro nel passato dell’anima. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

 

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Corfù, Monastero di Paleokastrizza
Lakones
Foto di User: Hombre at wikivoyage shared, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22695421

È arrivati a questo punto che si scorge il monastero di Palaiokastrìtsa che significa «Quella (la madre di Dio dell’antico castello», in riferimento all’antico kastron bizantino che sorge poco lontano: Angelokastron, il bastione più occidentale di Corfù.

Continua la narrazione di Christomanos:

Il monastero – un complesso di piccole costruzioni antiche, strette l’una all’altra sotto uno stesso involucro di intonaco bianco e sovrastate da una cupoletta rotonda di tegole, un piccolo cortile lastricato e, infondo a questo la chiesa con la porta spalancata. […] In fondo alla chiesa, un’antichissima iconostasi di legno con la doratura tutta annerita. Davanti alle cupe immagini dei santi, di cui si distinguevano appena gli occhi bianchi in mezzo ai grandi anelli delle aureole, lumini a olio verdi e rossi ardevano dentro lampade d’argento appese a catene. Le loro fiammelle, perdute in un sogno, si affievolivano a tratti per rianimarsi subito dopo. C’era un forte odore di ceri spenti, di vecchio legno tarlato, di polvere e muffa. In nessun altro luogo si aveva così netta l’impressione di essere trascinati indietro nel passato dell’anima. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Lasciamo il monastero e le sue icone bizantine e proseguiamo il nostro itinerario, seguendo Sissi e il suo compagno di viaggio, durante la loro gita a Lakones, località che sorge su un monte a ridosso dell’edificio sacro.

Così il pittoresco villaggio è descritto nel diario di Christomanos:

In alto, verso la metà del pendio rivestito di ulivi e cipressi, abbiamo visto il villaggio di Lakones – quasi un filo di perle bianche –, dietro il quale le rocce salgono ancora, costellate di fiori gialli e viola, a formare delle coppe rotonde come seni nudi. Il villaggio di Lakones è un insieme di povere casupole d’argilla imbiancate a calce e abbarbicate alle rocce come nidi d’uccello saldati tra loro. Sui tetti a terrazza garofani e gerani fiammeggiano dentro cassette di legno; davanti alle porte, tra pilastri segnati dal tempo, stanno accovacciate donne di rara bellezza; qua e là grassi maiali si godono il sole sulla strada; (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Dopo una passeggiata tra le vie di questo borgo, che ha conservato l’autenticità di un tempo e, dopo esserci concessi una pausa nei suoi caffè o nelle sue botteghe artigiane, proponiamo al viaggiatore un’altra delle passeggiate che l’imperatrice amava fare a Corfù.

Questo cammino ha inizio nel villaggio di Gastouri, nei pressi dell’Achilleion, e ha come meta la collina dell’Agia Kyriaki, «l’unico luogo in cui tutto mi piaccia davvero – confessa Elisabetta – qui potrei persino venire meno ai miei princìpi e fermarmi per sempre». Si tratta di una piacevole escursione, della durata di venti minuti circa, con numerosi punti panoramici. Alla fine della passeggiata, per lo più all’interno di una lussureggiante vegetazione, si arriva in una piccola cappella, eretta in cima a questo colle, da cui si gode della magnifica vista della costa orientale dell’isola e della pittoresca Pontikonissi.

Infine, concludiamo questo itinerario tra i luoghi dell’isola cari all’Imperatrice Elisabetta d’Austria, con una visita alla Villa Capodistria, oggi museo dedicato alla figura di Giovanni Capodistria, politico e diplomatico che diventò, nel 1828, il primo governatore della Grecia indipendente. La bella residenza dell’eroe nazionale greco sorge poco distante dalla città di Corfù, a circa 10 chilometri dal centro, in una località chiamata Evropouloi.

Per arrivarvi Sissi e il fedele Constantin dovettero camminare, come loro abitudine, per ore tra aranceti e ulivi. Scrive Christomanos:

Il mare splendeva nel sole ed era coperto di schiuma. Mugghiava stentoreo, senza riprendere fiato. […] Nella Villa Capodistria – l’antica proprietà del conte Capodistria, che fu il primo reggente greco, una residenza di campagna in stile veneziano, molto segnata dal tempo – ci sono venuti incontro il fattore e sua figlia. Una gigantesca magnolia, carica di calici di un lilla pallido, dava ombra al cortile. Due cipressi montavano la guardia davanti alle persiane verdi di una finestra chiusa. Il giardino era inselvatichito, invaso dalle confuse malinconie di piante avvezze a cure assidue per decenni e ormai lasciate a un solitario rigoglio. Dalla casa in gran parte disabitata, dal cortile col suo acciottolato a mosaico, dal giardino spirava l’ineffabile poesia dell’abbandono. (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Questo giardino, ancora oggi una delle attrazioni principali del Museo Capodistria che consigliamo al viaggiatore di visitare, ha qualcosa in comune con la melanconia della bella sovrana, che come scrive E. M. Cioran, è diventata l’icona e il «simbolo di un mondo condannato».

Lasciamo questo luogo per congedarci da Sissi e dal nostro itinerario, che speriamo abbia permesso al viaggiatore, come accadde a Christomanos, di scoprire, grazie alle passeggiate proposte in questa magica isola, «i segreti delle montagne e delle onde […] i legami profondi tra gli uomini e le rose e i sogni». (C. Christomanos, Elisabetta d’Austria nei fogli di diario di Constantin Christomanos)

Una scena del film con Romy Schneider nei panni dell’imperatrice Sissi a Corfù.

Le storie del pellegrino

Canosa, Molfetta, Bari, Mottola, Corfù, Kassiopi.

Itinerario – Le storie del pellegrino

[Tedesco] 

[Spagnolo]

In questo itinerario invitiamo il viaggiatore a vestire idealmente il bordone del pellegrino o, più laicamente, a farsi viandante, per percorrere il tratto pugliese di quella strada ricca di storia, arte e cultura, nota come via Francigena del sud o Via Sacra Longobardorum. Seguendo quello che era il tracciato di una vecchia consolare romana mai totalmente abbandonata, la via Appia-Traina, raggiungeremo le città portuali della regione, da sempre importanti punti d’imbarco, lungo tutto il Medioevo, per pellegrini, crociati, templari o mercanti che volevano raggiungere il favoloso Oriente. Sui loro passi, guidati dai loro racconti e dai loro diari di viaggio, faremo infine rotta verso le Isole Ionie, tappa di passaggio quasi obbligata per chi, in passato, navigava in direzione o di ritorno dalla Terrasanta o dai ricchi mercati orientali.

Gli itinerari che dall’Occidente conducevano Oltremare, in particolare a Gerusalemme, hanno disegnato, nel corso del tempo, percorsi che sono insieme materiali, spirituali e culturali, un sistema di vie d’acqua e di terra che attraversano l’Europa e il Mediterraneo, al cui centro si trovano proprio la Puglia e le Isole Ionie, con i loro approdi e luoghi santi.

L’itinerario che ci accingiamo a percorrere lungo il tratto meridionale della Via Francigena non è solo un cammino di fede, ma il percorso di una delle principali rotte della cultura mediterranea; seguendola potremo scoprire come natura, storia e patrimonio artistico concorrono a rendere questo viaggio non un viaggio, ma tanti viaggi, come scrisse Cesare Brandi, raffinato viaggiatore, letterato, storico dell’arte, che con i pellegrini del passato, ci accompagnerà alla scoperta di queste terre.

Consigliamo al viaggiatore di iniziare il proprio cammino, come facevano i pellegrini medievali, in primavera, come scrive il celebre poeta inglese del XIV secolo Geoffrey Chauser, nel prologo dei Canterbury Tales:

San Marino, California, Huntington Library, The Ellesmere Chaucer
(MS EL 26 C 9) Ritratto di G. Chauser in veste di pellegrino, XV sec.
Quando pioggia d’aprile ha penetrata

l’aridità di marzo e impregnata

ogni radice e vena dell’umore

la cui virtù ravviva ogni foglia e fiore;

e in folto di brughiere e boschi spogli

Zeffiro ingemma teneri germogli

con mite soffio, e metà del corso

il sole nell’Ariete ha già percorso,

e quando gli uccelletti fan concerto

e tengono di notte l’occhio aperto,

così com’essi loro natura inclina,

[…] allor la gente viaggia pellegrina

e vanno a santuari, quei palmieri, in lidi anche remoti e forestieri […]

Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, Prologo

La Puglia, una lunga fascia di terra, incastonata tra l’Appennino e l’Adriatico, con i suoi 400 km di territori che alternano paesaggi e architetture straordinariamente diversificate e con 800 km di coste balneabili, è attraversata da un reticolo di vie che intersecano il tracciato principale della via Francigena del sud.

Tratto pugliese della via Appia e Appia-Traina, chiamata durante il Medioevo via Francigena del Sud. –pubblico dominio-
Canosa, Mausoleo di Boemondo

Il nostro itinerario inizierà percorrendo una di queste strade, quella che da Canosa portava i viaggiatori sino alla litoranea adriatica. Raggiungeremo la costa e faremo tappa a Molfetta per procedere in direzione di Bari, città famosa per la presenza del santuario di San Nicola. Infine, prima di imbarcarci alla volta della Grecia, ci concederemo una piccola deviazione, come facevano i pellegrini medievali che raggiungevano la costa pugliese dalla via per compendium, che collegava Taranto a Brindisi. Questo percorso, segnalato fin dagli itinerari più antichi, ci permetterà di visitare i santuari rupestri che sorgono lungo le gravine che caratterizzano questa zona.

Prima ancora del patrimonio artistico e delle emergenze monumentali, i pellegrini del passato e i viaggiatori moderni sono colpiti dalla bellezza naturale di questa terra, così la dipinge Cesare Brandi nel suo celebre libro di viaggio Pellegrino di Puglia del 1960:

La Puglia è un meraviglioso, austero, paese arcaico. L’unico dove si assiste ancora allo spettacolo incontaminato, e per interminabili distese, di una flora anteriore alla calata degli indeuropei: solo ulivi e viti, viti e ulivi, le piante che nel nome, tenacemente conservato e trasmesso, rivelano ancora di essere state trovate sul posto dagli invasori ariani. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Come il nostro raffinato viandante del XX secolo, molti pellegrini medievali riservano parole di ammirazione per il paesaggio pugliese. Due colti nobiluomini fiamminghi, Giovanni e Anselmo Adorno, di ritorno dalla Terrasanta approdano in questa regione nel XV secolo, nel loro affascinante diario di viaggio scrivono di non avere mai visto una terra altrettanto fertile, né boschi di ulivi altrettanto belli:

La Puglia o Apulia […] credo che sia la più fertile al mondo per la produzione di olio e di grano. Produce in abbondanza anche dell’eccellente vino, […] ci sono boschi di ulivi, che è piacevole attraversare. È possibile altrove, come in Siria, in Barberia, vedere boschi di ulivi, tuttavia questi ci sono sembrati più piacevoli a guardarli e più grandi. (A. Adorno, Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte)

Il verde dell’ulivo e della vite, il giallo oro del grano ci accompagneranno lungo il nostro cammino su quella strada che, tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, diverrà l’itinerario terrestre privilegiato non solo dai pellegrini, ma anche dai crociati che dovevano imbarcarsi verso la Terrasanta. Uno di questi crociati fu il principe Boemondo che amò sinceramente la Puglia, in particolare la città di Canosa, prima tappa di questo nostro itinerario.

Già importante centro di età romana, grazie alla vicinanza al fiume Ofanto e alla sua posizione strategica di raccordo fra le strade che provenivano dagli Appennini e la Puglia, divenne centro del potere normanno e sede di una prestigiosa diocesi. Proprio in questa cittadina possiamo visitare il mausoleo, dalle forme ispirate a quelle del Santo Sepolcro di Gerusalemme e all’architettura islamica, che fece costruire lo stesso Boemondo, a fianco della Cattedrale (La Cattedrale Di Canosa).

Il principe normanno, figlio di Roberto il Guiscardo, aveva partecipato alla conquista di Antiochia di cui divenne signore, condusse una vita avventurosa, ricca di amori, rapimenti e conquiste che lo trattennero molti anni in Oriente prima di rientrare in Puglia.

Canosa, Mausoleo di Boemondo (foto di “File:Paolo Monti – Servizio fotografico (Canosa di Puglia, 1970) – BEIC 6358124.jpg” by Federico Leva (BEIC) is licensed under CC BY-SA 4.0 )

Duomo di Molfetta e molo

Lasciamo che sia Cesare Brandi, il cui pellegrinaggio letterario e artistico ha fatto tappa a Canosa, a raccontarci qualcosa di più sul principe e a guidarci nella conoscenza di questo insolito monumento del XII secolo dalle pareti marmoree, decorate esternamente dal leggero scorrere di arcate cieche, e che, più che una tomba monumentale, sembra un prezioso scrigno o un reliquiario, come quelli che i pellegrini riportavano in patria dall’Oriente.

Come s’arriva là davanti, e sembra un cofanetto d’avorio, si penserebbe piuttosto alla cappella privata o alla tomba di una possente gentildonna sul tipo di Galla Placidia o a un marabutto arabo, mai al ricettacolo del più straordinario personaggio della Prima Crociata, a quel colosso di nome e di fatto che fu Boemondo, il figlio di Roberto il Guiscardo. Orlando fra i Paladini, e, nella Prima Crociata, Goffredo di Buglione e Tancredi, sono riusciti a sopravvivere per merito della Poesia. A Boemondo che, al suo tempo, fu di tutti il più famoso, non è toccata uguale sorte […] Boemondo è mezzo eroe e mezzo farabutto, e come farabutto riesce ad innalzarsi fino all’eroe: resta sempre il figlio di quella malaugurata razza di avventurieri senza un soldo a cui aveva appartenuto suo padre. Se la leggenda o la poesia l’avessero passato al filtro, a quest’ora, il bello scrigno marmoreo sarebbe famoso al mondo, e il nome di Canosa suonerebbe almeno come quello di Roncisvalle […]. Orlando sembra d’averlo conosciuto come una persona morta presto e di cui tutti in famiglia dicevano bene, con Tancredi siamo andati a scuola[…], questo Boemondo, cinico, traditore, insaziabile, ma nato capo con i capelli biondi, Boemondo non si arriva a vederlo. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Consigliamo al viaggiatore di visitare il suggestivo tempietto che la leggenda vuole conservi le spoglie di Boemondo; potrà ammirare la bella porta bronzea a due valve impreziosita da motivi decorativi di chiara origine islamica. Sul battente sinistro rimane leggibile parte di un’iscrizione celebrativa in onore del principe crociato: non hominem possum dicere, nolo deum. (non posso dirlo uomo, ma neanche Dio.)

Lasciamo Boemondo e la città di Canosa per proseguire in direzione di Molfetta, che come altri centri costieri pugliesi fu un importante tramite fra Oriente e Occidente, quando il suo vasto porto divenne approdo di velieri crociati e galee veneziane, che oggi hanno lasciato posto ad una vivace e colorata flotta di pescherecci che ne anima la vita.

Nel mare Adriatico di questo pittoresco porto si specchia la cittadina pugliese con le sue mura:

[…] vecchie mura che ancora cingono, ammansite e utilizzate a case, sopra a cui scorre una strada anulare, la città vecchia, minuscola e complicatissima città. Ancora più che a un labirinto o a un meandro, fa pensare d’essere entrati in una serratura: né solo per quella porta che può simulare il foro della chiave. Le straducole strettissime e alte seguono un itinerario proprio, e non hanno mai un punto d’arrivo preciso, una piazza, una chiesa. Si direbbe, se quelle ci sono, che la costeggiano, vi arrivano per la tangente: cunicoli scavati nella pietra tenera e chiara su cui arrivano i riflessi del mare. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Il pellegrino che giungeva qui nel Medioevo aveva due importanti punti di riferimento devozionali che diventeranno anche le tappe del nostro cammino: il Duomo e il Santuario della Madonna dei Martiri.

Tra il blu dell’Adriatico e del cielo, lungo le mura medievali e proteso verso il mare, si staglia il Duomo di San Corrado (Duomo Di Molfetta). Il santo, cui è intitolata la bella chiesa molfettese, era un nobile pellegrino germanico, giunto in città al ritorno dalla Terrasanta. La presenza delle sue reliquie e la fama dei suoi miracoli accrebbero il flusso di devoti viaggiatori in cerca di grazia e l’importanza di Molfetta e della sua chiesa. Entriamoci guidati dalle parole di Cesare Brandi:

[…] impossibile evitare il tono solenne per questo solennissimo monumento tagliato nella pietra a spigoli vivi come una pietra preziosa, estratto dall’Armenia si direbbe, e posato sulla sponda di un porticciolo vero e attivo, pieno di barche e bragozzi, che si carica e si scarica di pesce alle sue ore. […] [I riflessi del mare] danzanti e capricciosi rappresentano il fascino saltuario, ma indimenticabile della Cattedrale, […]. Le tre cupole non sono meno splendide all’interno, quando il rivestimento prismatico, con angoli così aguzzi, le fa parere tende tartariche issate sul tetto della Cattedrale. Dopo San marco a Venezia, è forse la chiesa dagli spazi più misteriosi: quel senso aspirante o da incubatrice che hanno le tre cupole, la cui presenza è davvero inscindibile e talmente preparata dalle volte delle navate laterali, a mezza botte, rampanti, che sembrano spalle curve a sostenere il peso superiore o ben piuttosto il volo aereo di un volteggio. Così le cupole si issano scavalcando la chiesa. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Una volta usciti dalla chiesa, il viaggiatore non può negarsi l’esperienza di una passeggiata nel centro storico di questa cittadina adriatica così descritta dalla nostra guida letteraria Cesare Brandi:

[…] e si vien presi nelle volute, nei giri viziosi delle viuzze, che sembrano come i fili, ma sempre lo stesso, di un gomitolo, ci si sente consegnati a uno spazio volubile, a un percorso interno alle cose, che mai ci consentirà una libera uscita, o, pur così tangente al mare, una veduta sul mare con borghese panchina. Il percorso diviene allora una segreta dimensione di spazio che non è più nostro: ed è in questo, che lo sviluppo delle vie diviene come un brancolare a mosca cieca. Ma un brancolare luminoso che la pietra tenera e bianca, d’un bianco leggermente livido e rosato, come la pelle di chi sta sempre vestito, restituisce con quel saltellio di luci marine, screziate dalle onde robuste e rovinose che stanno per inghiottirsi, un morso alla volta, questa meravigliosa città vecchia di Molfetta. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Attraversato il centro storico, sull’altro sprone che delimita la bocca del porto, si intravede il Santuario della Madonna dei Martiri, con l’annesso ospedale, dove trovavano accoglienza e cure sia i crociati che i pellegrini diretti o di ritorno dalla Terrasanta. All’indomani della prima crociata, il Mezzogiorno accolse un gran numero di ospedali, strutture adibite alla sosta dei pellegrini, affidati alla gestione di Ospedalieri, Templari e Cavalieri Teutonici.

Il santuario molfettese sorse nel 1162 e, poco dopo, fu costruito anche l’ospedale (L’ospadale Dei Crociati ). Uno dei pochi rimasti pressoché intatti. Ancora oggi il viaggiatore potrà visitare i suoi ambienti a sviluppo longitudinale, divisi in tre navate di pari altezza da robusti pilastri cruciformi. L’edificio è voltato a botte parallele, scandite da archi trasversali a tutto sesto. L’ambiente è illuminato da una serie di monofore che si affacciano sul mare.

Lasciato l’Ospedale dei Crociati, come i viandanti del passato, consigliamo di visitare il Santuario molfettese della Madonna dei Martiri, dove si può ancora ammirare l’icona considerata miracolosa e dai poteri taumaturgici che, secondo la leggenda, proveniva dalla Terrasanta, portata in salvo dai crociati nel 1188, all’indomani della caduta di Gerusalemme. Si tratta dell’icona della Madonna dei Martiri, una tavola in realtà di dubbia datazione, fortemente ridipinta, ma verosimilmente risalente al XIV, che rappresenta il tipo iconografico della vergine affettuosa.

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Molfetta, icona della Madonna dei Martiri
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Basilica di San Nicola
(Foto di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=61405024)

Questo luogo non poteva lasciare indifferenti i pellegrini, sempre alla ricerca di un segno divino, e, per questo, in poco tempo, Molfetta da tappa di pellegrinaggio ne divenne meta. La fortuna del Santuario era legata a quella dell’icona per la sua fama di oggetto miracoloso.

Il pellegrino Anselmo Adorno nel suo diario di viaggio si dilunga nel racconto dei prodigi operati dalla venerata immagine:

La Chiesa Nostra Signora dei Martiri è situata ad un miglio da Molfetta sul mare; è grande e frequentato luogo di culto. Sono sepolti numerosi corpi di martiri: perciò è chiamata Nostra Signora dei Martiri. Si trova isolata sul litorale con alcune case di pertinenza della medesima chiesa. I preti che amministrano la chiesa abitano nelle case vicine e danno accoglienza ai pellegrini in caso di bisogno. In essa c’è l’immagine di Nostra Signora, che compie molti miracoli, così come leggiamo in chiesa. Stando all’interno abbiamo ascoltato un prete di Barletta raccontare uno dei grandi miracoli compiuti sulla nave dove si trovava.

Questa nave era andata dispersa nella tempesta. Spinti dal padrone che promise la metà del suo bastimento a Nostra Signora dei Martiri, coloro che si trovavano a bordo e che speravano di salvarsi fecero un voto alla Vergine. Compiuto il voto, la Vergine apparve loro sulla prua della nave. Apparve anche un giudeo coperto di lebbra, che si mise ad adorarla, che chiedeva di essere liberato dalla malattia e dal pericolo del mare e si dichiarò subito cristiano. E grazie a tutto questo la nave giunse nel porto di Corfù. La Beata Vergine fece in questo luogo altri miracoli. Per questo motivo annualmente confluiscono molti pellegrini. (A. Adorno, Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte)

Nel XV secolo il santuario era una meta molto frequentata dai pellegrini e, ieri come oggi, poteva accadere che, in luoghi così affollati, si potesse diventare vittime di piccoli o grandi furti come racconta fra’ Mariano da Siena nel 1431, di ritorno dal suo pellegrinaggio in Terrasanta e di passaggio nella città di Molfetta.

[…] e venimo a rinfrescarci a Morfetto.[…]

e visitammo S. Maria de’ Martiri , e mentre che noi eravamo in Chiesa , fu tolta la tasca con molte coselline, che valevano parecchi fiorini , a uno de’ nostri compagni . Questa Chiesa è cosa

di grande devozione […] (Mariano da Siena, Del viaggio in Terra Santa fatto e descritto da ser Mariano da Siena nel secolo XV)

Lasciamo Molfetta e, proseguendo lungo la litoranea adriatica, ci dirigiamo verso Bari, che per i pellegrini medievali non è solo una semplice tappa del loro faticoso cammino, ma è soprattutto la città dove sorge uno dei santuari più popolari della cristianità medievale. Si tratta della Basilica di San Nicola, chiesa che riveste un’enorme importanza nella storia stessa dell’identità civica di Bari. Pur non essendo la cattedrale cittadina, bensì una chiesa di pellegrinaggio, è sicuramente l’edificio sacro più caro ai baresi, e quello più frequentato, nel corso dei secoli, dai ‘viaggiatori di Dio’ .

Il cammino dei pellegrini giunti a Bari conduce alla Basilica dove riposano le spoglie del santo venuto dal mare. Questo luogo divenne l’ideale punto d’incontro delle grandi vie di terra e d’acqua che portavano o venivano da Gerusalemme e a Santiago di Compostela, mete estreme dei grandi itinerari del pellegrinaggio medievale.

Il viandante di ieri e di oggi vi arriva solo dopo essersi addentrato nel tessuto urbano della città vecchia. Scrive Brandi:

Quasi a picco sul mare […]. Dal mare viene la sua vita e la sua morte, i commerci e le flotte piratesche dei Saraceni. Da questa apertura che deve essere al tempo stesso chiusura nasce il carattere asserragliato della città vecchia, le strade come cunicoli e le ampie oscure volte che le scavalcano. […]. Sembra che, prima delle strade, sia stata fatta una costruzione tutta di massello, e poi forata da strani, industri litofagi. […]. Bari vecchia è l’aggregato arabo, e quando non è Gerusalemme, è Damasco: le volte hanno il senso del mercato coperto, che sia Bazar o Suk. E sono anche le volte di un paese che vuole deviare e rompere i venti gelidi che vengono da Settentrione, e ripararsi dal sole che, d’estate, ossia otto mesi l’anno, calcina gli occhi e le pietre. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

In questo dedalo di vie, dopo aver costeggiato il castello (Il Castello Svevo) e la cattedrale (La Cattedrale Di Bari), e aver percorso l’attuale Via delle Crociate, si raggiunge l’attuale via Palazzo di città, una strada il cui nome antico era Ruga Fragigena, cioè strada Francigena. Questa via, che taglia il centro storico e conduce finalmente nella piazza della Basilica di San Nicola (La Basilica Di San Nicola), fin dalla toponomastica, ci ricorda che stiamo percorrendo esattamente il tratto dell’antico itinerario europeo di pellegrinaggio che attraversava Bari, per permettere ai pellegrini di far visita al santuario nicolaiano, venerare le reliquie e ottenere la benedizione per proseguire in sicurezza il resto del cammino.

I pellegrini del passato, come suggeriamo di fare anche al viaggiatore che sta seguendo questo itinerario, cercavano di far coincidere il loro arrivo a Bari con il giorno in cui si celebra il santo Patrono in città, l’8 maggio. Attraverso i loro scritti è possibile scoprire usi e costumi di questa festa religiosa e popolare che, ancora oggi, continua ad attirare devoti e turisti.

Un viaggio nel viaggio a ritroso nell’immaginario devozionale che ha inizio proprio nella cripta della Basilica: vi si accede ancora tramite una scalinata posta sulla navata laterale che conduce il fedele in una dimensione mistica, dal sapore orientale e bizantino, grazie alla profusione di icone, lampade, arredi in metalli preziosi, tessuti e ricami che concorrono a rendere estremamente suggestiva la vista delle reliquie di San Nicola, qui conservate. Ne parla nel suo diario medievale Anselmo Adorno:

Le spoglie riposano in un’arca di marmo sotto il grande altare della cripta. La parte anteriore dell’altare è istoriata con immagini sbalzate in argento. Sempre sul fronte dell’altare c’è una porticina attraverso cui, da un foro che penetra all’interno del monumento, ove una lampada accesa pende da una catena d’argento, si distinguono le reliquie di S. Nicola. Da esse dicono che scaturisca un olio santo, ovvero un liquido con cui vengono unti occhi e fronti delle persone nelle festività solenni, così come fu nel tempo in cui noi fummo a Bari, cioè nel giorno di S. Nicola. (A. Adorno, Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte)

Sono moltissimi i pellegrini del passato che visitano il santuario per procurarsi un miracoloso liquido, chiamato manna, che si dice stilli ancora dal corpo del santo.

Flussi interrotti di pellegrini, provenienti sia da Oriente che da Occidente, hanno continuato nel corso dei secoli ad affollare la tomba del santo barese, alla fine dell’Ottocento ne scrive anche lo storico dell’arte francese Emile Bertaux:

[…] sin dai primi giorni di maggio, la città vecchia, che con i suoi vicoli tortuosi stringe le mura della basilica fortificata dai re angioini, si agita e trabocca. I visitatori hanno preso d’assalto la chiesa; si sono stabiliti nelle navate laterali e persino nelle cappelle; sono lì accampati, dormono, mangiano. […] Così scendono fin giù nella cripta, con la testa che batte sugli scalini, e quando si rialzano vacillanti, vedono al di sopra della buia folla, tra le colonne annerite, la volta rivestita d’argento, tutta rutilante di luci, e il massiccio altare d’argento, dove il corpo di San Nicola, nell’ombra, stilla una miracolosa manna. […]. È necessario che ogni famiglia porti via la sua bottiglia piena del misterioso liquido che stilla dalle ossa di San Nicola come da fonte inesauribile. (E. Bertaux, Sur les chemins des pèlerins et des émigrantes, 1897)

La città, ancora oggi, per ben tre giorni, 7-8-9 maggio, si veste a festa e si consegna interamente alle celebrazioni, tra sacro e profano, del suo Santo. Invitiamo il viaggiatore giunto sin qui, seguendo questo itinerario, a prendere idealmente parte alle festività o a programmare il viaggio in modo da potersi immergere nel clima festoso che si respira a Bari durante i giorni di San Nicola, come fece il ‘pellegrino di Puglia’ Cesare Brandi, che con le sue parole ci introduce nella dimensione folklorica, allegra e caotica che regna in città:

[…] per i festosi viali di Bari, archi di lampadine a non finire, che rientravano l’uno nell’altro, come cerchi concentrici di un tiro a segno. La strada, fitta di popolo a contatto di gomito – e del resto – sembrava ridotta a un palcoscenico in lieve pendenza. […]

Gli archi luminosi non erano le sole luci, sotto le stelle compiacenti, della vigilia della festa: non potevano mancare i fuochi, quest’altro costoso lusso del Meridione, dei poveri che si danno allo scialo. E in quanto allo scialo, per San Nicola, i Baresi si sprecano. […] Si comincia, appunto, dalla sera della vigilia [il 7 maggio], quando una tremolante caravella a ruote, fra nubi di fumo e modeste crepitanti torce di fuoco greco, con un’immagine di San Nicola a bordo e alcuni vecchietti in costume da Cena delle beffe, passa tra la folla della città fino a trascorrere sotto gli archi luminosi. Questa rievocazione del famigerato furto perpetrato dai Baresi a Mira, in gara nobilissima coi Veneziani, è dunque una specie di Sacra Rappresentazione, senza preti e senza canti, dove la voce è messa solo dai botti dei fuochi d’artificio, […]. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

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Bari Vecchia, luminarie per la festa di San Nicola
(foto di just_jeanette is licensed under CC BY-NC-SA 2.0 )
Bari, la statua di San Nicola portata in processione a mare.
(Foto di daromeo76 is licensed under CC BY-ND 2.0 )

I festeggiamenti continuano il giorno successivo, l’8 maggio, «quando – continua Brandi – il Santo va in mare, sotto un sole, che, se anche è maggio, è già piena estate, in un cielo che è chiaro come in Africa», a bordo di un peschereccio che vuole ricordare il legame della città con il mare e l’arrivo, proprio da quel mare, delle reliquie di San Nicola, trafugate nell’XI secolo da Myra, in Turchia, da un gruppo di marinai baresi.

Scrive ancora Brandi:

Il Santo va in mare, vestito, sulla statua d’argento, di paramenti d’oro e circondato, invece che da torce e flabelli, da mazzi di fiori nuziali – garofani bianchi e calle – montati su lunghe aste d’argento, come quelle che reggono i baldacchini. Il Vescovo in persona, che comanda la processione, getta allora un’ampolla con la manna di San Nicola. […] Il mare, allora, questo eterno ricetto materno, la Teti antica e dell’inconscio, alla fecondazione nuziale risponde con l’urlo subitaneo e lacerante, discorde fino a raggiungere il più implacabile salasso elettrico, di non so quante sirene, dalle navicelle, dai trabiccoli, dai motopescherecci, raccolti attorno al motopeschereccio del Santo, come le api intorno all’Ape regina. […] Ora la fecondazione è avvenuta, il santo si riposa, la gente dalla terra esulta, perché il patto col mare, la parentela indissolubile, è per il bene della terra. […] Il pubblico straboccante, meravigliosamente nero e rosso, brulicava sul lungomare, fitto come puntini di un quadro di Seurat. Finché il Santo rimane in mare, il brulichio non cesserà.

(C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Il giorno dopo, la statua di San Nicola torna nella sua bella Basilica romanica, e il viaggiatore potrà decidere se imbarcarsi immediatamente, sotto la protezione del Santo, o proseguire il viaggio in Puglia ancora per un po’, prima di prendere uno dei traghetti che regolarmente collegano il capoluogo pugliese con le Isole Ionie greche.

Molti pellegrini del passato sceglievano spesso di imbarcarsi da Brindisi percorrendo il tracciato della via Appia-Antica, in particolare la deviatio che collegava Taranto alla città salentina fu molto praticata durante tutto il Medioevo.

Il territorio circostante questo tratto stradale è caratterizzato dal paesaggio lunare e a tratti metafisico delle gravine e delle lame pugliesi, dove si sviluppò una particolarissima forma di civiltà, nota come civiltà rupestre (La Civiltà Rupestre In Puglia): interi villaggi, santuari ed eremi scavati nella roccia introdurranno il viaggiatore in una dimensione mistica, dal fascino discreto e completamente diverso da quello delle maestose basiliche romaniche che abbiamo lasciato lungo la costa. Tra Massafra, Mottola e Castellaneta, in provincia di Taranto, si snoda una fitta rete di strade, dove il cammino del pellegrino si incontra con quello millenario della transumanza.

La nostra guida letteraria, Cesare Brandi, alla ricerca, come noi, delle cripte rupestri, giunge a Mottola. Questo paese, ci ricorda lo scrittore, sorge:

su un’altura che non è un’altura, ma per le Puglie lo diventa: e si vede di lassù uno dei paesi più armoniosi che vi siano, con in fondo il mare. Armoniosa è infatti la discesa degli ulivi corvini, densi come gomitoli, nel pullulare del primo verde delle viti […] armoniosi grani fitti, arditi, rigidissimi, come capelli a spazzola, accanto ai ricciuti boccoli di verde opaco e gagliardo delle fave. Non mi stancavo di guardarlo, quel paese, così scoperto e largo e disteso, che il mare quasi pareva appena l’orice di tanta morbida bellezza.

Invece bisognò staccarsi dal panorama e andare in cerca delle cripte. Naturalmente qui ce n’era un visibilio, volendo: ma a me interessava soprattutto quella di San Nicola, e speravo che trovandosi in aperta campagna, bisognasse cercarsela a piedi […]. Non fui deluso. A un certo punto si arrivò all’antico convento ridotto ad abbazia, e lì la strada campestre finiva.

(C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Mottola, gravine

La chiesa rupestre di San Nicola, una tra le più belle tra le «Mirabili Grotte di Dio» (Charles Diehl), è stata oggetto per secoli della devozione non solo degli abitanti del luogo, ma anche dei crociati e dei pellegrini, di cui stiamo seguendo il cammino, che si recavano a Taranto e Brindisi per imbarcarsi verso la Terrasanta.

La chiesa si trova sul ciglio di una piccola gravina ed è possibile accedervi attraverso scale ricavate direttamente nella roccia.

Questo santuario ipogeo presenta una pianta di tipo cruciforme inscritto all’interno di aula quadrangolare, il cui spazio interno si articola in tre navate, suddivise unicamente da due soli massicci pilastri, secondo una tipologia diffusa anche in area siriaca a partire dal VI secolo. La parte presbiteriale della chiesa, denominata bema, isolata dal resto dell’ambiente interno, grazie alla presenza di un’iconostasi, è suddivisa in tre diverse celle, ognuna con il proprio altare. L’interno, quasi interamente affrescato, presenta uno dei cicli pittorici più interessanti per qualità e per stato di conservazione della Puglia, databile tra l’XI e il XIII secolo. Questo insediamento è stato definito la Cappella Sistina della civiltà rupestre meridionale.

Al nostro viaggiatore, dopo questa deviazione, non rimane che proseguire il suo itinerario imbarcandosi su un traghetto per raggiungere le Isole Ionie, tappa di passaggio quasi obbligata per quanti, durante il Medioevo, navigavano in direzione dell’Oriente o della Terrasanta.

Non per tutti i viaggiatori il momento della partenza era un momento piacevole, soprattutto se a lasciare le coste pugliesi erano i cosiddetti pellegrini armati, cioè i crociati. Il poeta medievale tedesco Tannhäuser, crociato controvoglia, al seguito di Federico II nel 1228, rimpiange in una lirica le gioie che si sta lasciando alle spalle, abbandonando la bella terra di Puglia. I suoi versi ci permettono di tornare indietro nel tempo e immaginare quanto dovesse essere piacevole la vita di dame e cavalieri nelle residenze imperiali della regione. Nella cornice del paesaggio pugliese incontri galanti, tornei e battute di caccia rallegrano le giornate di chi, al contrario del poeta, non è costretto a partire.

Codex Manesse, MSC, Cod. Pal. germ. 848 Heidelberg, Universitätsbibliothek –pubblico dominio-
Codex Manesse, MSC, Cod. Pal. germ. 848 Heidelberg, Universitätsbibliothek –pubblico dominio-
Beato colui che ora può cacciare con il falcone sui campi di Puglia! […]

alcuni vanno alle fonti, gli altri cavalcano guardando il paesaggio ‒ questa gioia mi è tolta ‒ quelli caracollano accanto alle dame […]

io non caccio all'arco con i cani, io non uccello con i falconi, […], e nessuno mi può rimproverare di portare corone di rose […]

neanche mi si può attendere dove cresce il verde trifoglio, né cercare nei giardini accanto alle belle giovani […]

io fluttuo sul mare.

(Tannhäuser, in A. Martellotti, Il viaggio controvoglia del crociato Tannhäuser)

Corfù, baia di Kassiopi

(foto di Bejo, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3086242)

E fluttuando dalla costa adriatica si raggiungono Itaca, Cefalonia e Corfù, dove, per coloro che volevano proseguire il viaggio, attendeva minaccioso lo stretto di Butrinto, con le sue pericolose correnti. I pellegrini o i mercanti che passavano da queste parti preferivano sostare nel riparo naturale offerto dalla baia di Kassiopi, nella parte settentrionale dell’isola di Corfù. Il viaggiatore potrà oggi visitare questo grazioso villaggio di pescatori, le cui origini risalgono ai tempi romani, e potrà conoscerne la storia, scoprendone l’immaginario letterario, tramandato dai diari di pellegrinaggio che ci raccontano di draghi, lampade magiche, eremi, cappelle e di icone miracolose, come quella di cui si conserva ancora un lontano ricordo nella chiesetta della Vergine di Casopoli, protettrice di naviganti e viaggiatori.

I pellegrini medievali narrano che un tempo Kassiopi era una potente città, adesso del tutto deserta a causa di un drago che si era accanito contro la popolazione, dedita anticamente a pratiche sodomitiche. I marinai e i pellegrini iniziarono a frequentare assiduamente una cappellina perennemente illuminata da una lampada. L’olio prodigioso della lampada si diceva che guarisse da ogni febbre. Con il tempo si diffuse anche la leggenda della presenza, in questa cappella, di un’icona miracolosa della Vergine dipinta dall’evangelista San Luca, icona nota come la Vergine di Casopoli. (M. Bacci, Portolano sacro. Santuari e immagini sacre lungo le rotte di navigazione del mediterraneo tra tardo medioevo e prima età moderna)

La cappella, così famosa nel passato, subì gravi danneggiamenti nel corso del XVI secolo, a causa delle incursioni berbere, ma fu prontamente ricostruita dai Veneziani nel 1590. L’immagine considerata miracolosa è oggi scomparsa, ma è stata sostituita da un’icona votiva del XVII secolo che ne riproduce l’aspetto, ed è ancora oggi oggetto di devozione.

Ne parla, tra gli altri, il diario di viaggio del Marchese Nicolò d’Este, redatto dal fedele cancelliere Luchino dal Campo agli inizi del XV secolo. Così scrive:

Et andando il Signore al suo viaggio, la sira andò alla isola di Corfù, in uno porto chiamato Nostra Dona da Casopoli. E qui, gittato ferro e la barcha all’acqua, andò in terra a la giexia di Nostra Donna , ove li è una lampada denanti alla sua figura, la quale sempre arde e sempre sta piena di olio, ní mai se ne mette guzzo di olio; et fu dato de un certo legno bagnato del dicto olio a tucta la compagnia da uno calogiero che sta lì, e disse esser bono de guarir ogni febre. E, visitato questa figura la qual fa miracoli, andorono a vedere uno castello chiamato Casopoli, molto bello ma disabitato per uno serpente il quale habitava lì e avelenava tucto il paexe. (Luchino dal Campo, Viaggio del Marchese Nicolò d’Este al Santo Sepolcro, 1413)

Kassiopi, Cappella della Vergine di Casopoli, interno.

Il castello, di cui parlano i viaggiatori e i pellegrini medievali, è ancora oggi visitabile. Dalla via principale del villaggio parte una strada che s’inerpica su un’altura che domina la baia. In cima, in parte avvolte dalla vegetazione, si trovano le rovine di quella che originariamente era una fortificazione bizantina. Il castello fu conquistato nell’XI secolo da un personaggio che abbiamo già conosciuto lungo il nostro itinerario durante la tappa a Canosa, il principe Boemondo. La dominazione normanna di Corfù non durò troppo a lungo e il maniero passò nuovamente in mano agli imperatori bizantini sino all’arrivo degli Angioini nel 1266. Infine, il forte fu distrutto dai Veneziani nel XIV secolo, quando si impadronirono dell’isola. Fu solo agli inizi del XVIII secolo che, per arginare le incursioni ottomane, essi decisero di ricostruire il castello.

Il nostro pellegrinaggio alla ricerca della bellezza e alla scoperta di monumenti medievali, di storie e leggende, nate lungo le strade che abbiamo percorso e intimamente legate all’identità dei luoghi attraversati, si conclude su quest’isola, su questa rocca da cui è possibile dominare con lo sguardo lo stretto di Corfù, nella convinzione che la fine di questo viaggio possa diventare l’inizio di un nuovo itinerario o di un nuovo racconto.

Rovine del castello di Kassiopi
(By Dr.K., CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68635379)

Itinerario culturale di Gregorio Ksenopoulos a Zakynthos

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“Tra gli scrittori più prolifici di questa generazione c’era Gregorios Ksenopoulos (1867-1951), di Zante. […] I suoi romanzi sono influenzati dal realismo e dal naturalismo; ha anche riconosciuto come insegnanti Balzac e Zola, e persino Dickens e Daudet. Vale anche la pena ricordare il grande balzo che la moderna letteratura greca ha fatto con essa dal contesto limitato della narrazione etografica al complesso romanzo urbano. E ancora, non è irrilevante quanto Ksenopoulos sia stato letto da un vasto pubblico, ampliando così l’interesse generale per la letteratura. ”

Linos Politis, Storia della moderna letteratura greca, National Bank Cultural Foundation, Atene 1998 (9 ° ed.), 214-215


La breve autobiografia scritta dallo stesso autore, Gregorios Ksenopoulos, così come il video Seasons and Writers dall’archivio di ERT sono presentati di seguito:

http://www.ekebi.gr/magazines/showimage.asp?file=26893&code=7168&zoom=800

http://www.greek-language.gr/digitalResources/literature/education/literature_history/search.html?details=64#prettyPhoto[iframe]/0/

Zante

1a Fermata: La casa di Gregorios Ksenopoulos – Museo Gregorios Ksenopoulos

Il Museo Gregorios Ksenopoulos è ospitato nella casa del padre dello scrittore in Gaita Street, situato nello storico quartiere di Faneromeni a Zante. Nel museo il visitatore può visitare gli spazi della casa dello scrittore, vedere oggetti personali vicini dello scrittore, manoscritti e pubblicazioni delle sue opere, numeri della rivista “L’educazione dei bambini”.

Inoltre, le mostre includono oggetti, mobili e utensili della casa della famiglia Ksenopoulou, che offrono un quadro completo della vita quotidiana dello scrittore. Ci sono anche diversi effetti personali della figlia dell’autore Efthalia Ksenopoulou-Natsiou e di suo marito, Christopher Natsios, che era un famoso scultore.

2a Fermata: La casa di Gregorios Ksenopoulos – Biblioteca Ksenopouleios

C:\Users\Clio\Desktop\Cyclops, Polysemi\Polysemi\Ionian Literature\Ksenopoulos\Ksenopoulos Photos\bibliothiki.pngLa biblioteca per bambini di Ksenopouleios è ospitata anche al Museo Gregory Ksenopoulos. La biblioteca è stata organizzata con l’aiuto di insegnanti dell’isola di Zante ed è stata sostenuta finanziariamente dal Comune di Zante come Biblioteca Comunale. La biblioteca ospita libri di letteratura, conoscenza, enciclopedie, libri di scrittori di Zante, scuola materna, riviste scolastiche e per adolescenti. I visitatori possono anche vedere e studiare la vasta collezione di opere di Gregory Ksenopoulos. Nella biblioteca c’è anche una sezione con libri per adulti, per i genitori che accompagnano i loro bambini piccoli nei vari e interessanti eventi / attività che si svolgono durante tutto l’anno nella biblioteca di Xenopuleios.

3a Fermata: Museo di D. Solomos ed eminente popolo di Zante, piazza San Marco

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Piazza San Marco era un tempo il centro della cultura di Zante. Durante l’occupazione veneziana, scrittori, poeti, persone nobili e generalmente influenti si scambiarono opinioni nel bar che esisteva al suo interno. In questa piazza si sono verificati eventi storici che hanno modellato gli sviluppi politici sull’isola. Nel 1797 i Popolari si ribellarono e bruciarono il libro d’oro del nobile “Libro D`Oro”. I Popolari piantarono “l’albero della libertà” al centro della piazza, volendo simboleggiare la loro liberazione dai veneziani e dare il benvenuto ai democratici francesi.

 

 

 

C:\Users\Clio\Desktop\Cyclops, Polysemi\Polysemi\Cultural Itinaries-Solomos Zakynthos\Photos Solomos\mouseio Zakynthos.jpgIl primo pensiero di creazione per il Museo Solomos è registrato nel 1903, quando i manoscritti del poeta nazionale furono donati alla commemorazione del centenario. Il Museo di D. Solomos e Eminent People of Zakynthos, tuttavia, fu costruito dopo il terremoto del 1953, nella storica piazza di San Marco, in un sito donato dalla Chiesa Metropolitana di Zante, e fu ricostruito con aiuti finanziari dallo Stato , varie istituzioni e molti individui. In queste camere sono esposte icone portatili della scuola cretese e cretese-eptina dei ritratti del XVII-XVIII secolo di importanti busti di bronzo di Zante del XVII-XX secolo di gerarchi e persone dello spirito di Zante, mobili d’epoca delle dimore di Zante, strumenti musicali, plastica -ceramica, intaglio del legno, lavorazione dei metalli, stampi per monete, ricami, maglieria, gioielleria, incisioni, melanografi, fotografie e stemmi Dal ricco materiale d’archivio si distingue da quello donato da Aspasia Sordina Rigler e salvato da Nick. Manoscritti varvianiani di Dionysios Solomos, Nikolaos Mantzaros, Nicholas Loudzis, Antonios Matesis, Ioannis Tsakasianos, Dionysios Roma, Paul Karreris e Gregorios Ksenopoulos. Il Museo ospita il Mausoleo unico in Grecia e numerose reliquie, donate da varie istituzioni e individui, ed è operativo dal 24 agosto 1966. Nel 2000, è stato nominato per il premio Museo europeo dell’anno 2001.

4a Fermata: quartiere di Ammos – Statua di Gregorios Ksenopoulos

Nel 1961, il busto in marmo dell’accademico Gregorios Ksenopoulos (1867-1951) fu dipinto dallo scultore Nikolaos Sofiolakis (1914-2002) nell’area di Ammos. La costruzione del progetto è dovuta all’iniziativa degli studenti del Secondo Ginnasio di Atene e alla partecipazione degli studenti dell’istruzione secondaria di Atene e del Pireo. Alla base del busto è scritto: “A PHAIDONA / GLI STUDENTI DELL’ISTRUZIONE SECONDARIA / ATENE-PIRAEUS / 1959-1960”

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Ammos Quarter. Zante, 1949.
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Statua di Gregorios Ksenopoulos
5a Fermata: Centro culturale della città di Atene – Statua di Gregorios Ksenopoulos

Il centro culturale della città di Atene è il centro culturale del comune di Atene, in Grecia. È ospitato in un edificio neoclassico del 1836 nel centro di Atene. In origine l’edificio ospitava l’Ospedale Municipale. Comprende tre sale espositive, le sale Fotis Kontoglou, Georgios Iakovidis e Nikolaos Gyzis, nonché l’anfiteatro Antonis Tritsis, che ospita vari seminari interdisciplinari, conferenze e altri eventi. Nel giardino del Centro Culturale viene collocato il busto dello scrittore Grigorios Ksenopoulos.

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Gregorios Ksenopoulos's Statue
6a Fermata: la casa di Gregorious Ksenopoulos nel 42, Euripidou Str. Ad Atene

Al terzo piano di una residenza al 42, via Euripidou viveva Grigorios Ksenopoulos. Lì aveva il suo quartier generale e la sua rivista, “L’educazione dei bambini”. Lì aveva i manoscritti delle sue opere teatrali, che furono infine persi a causa della completa distruzione della sua casa da parte di una bomba incendiaria in una battaglia nel dicembre 1944. Palamas, considerò la casa di Ksenopoulos “Museo della nostra cultura nel futuro” perché dell’enorme e importante archivio di Ksenopoulos (le sue opere aneddotiche, l’archivio di “Diaplasis”, la sua corrispondenza con autori greci e stranieri, altri suoi testi, fotografie e immagini, persino documenti per il teatro, le Lettere, le Arti in generale, il cimeli personali dello scrittore, ecc.).

Di particolare interesse è la narrazione di Lambros Gouliadis, che si occupa di commercio alimentare, con un negozio in 42 Evripidou Street. “Molto tempo fa, Grigorios Ksenopoulos viveva qui. La sua casa fu esplosa durante la guerra civile e questo è il nuovo edificio che fu costruito da mio padre. Un giorno, quindici anni fa, una delle sue figlie venne qui. Mi ha chiesto: “Sai cosa c’era prima?”. Risposi: “Certo, era la casa di Ksenopoulos”. Poi la donna pianse, non disse altro e se ne andò. Ha appena detto di essere sua figlia. Voleva vedere se la memoria di suo padre esiste ancora. “[Fonte: www.lifo.gr]

http://www.thetoc.gr/images/articles/5/article_169696/upl5add9313ac145.jpg
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Euripidou 42
7a Fermata: primo cimitero di Atene – tomba della famiglia Gregorios Ksenopoulos

Domenica 14 gennaio 1951, alle 17:56, Grigorios Ksenopoulos morì nella sua stessa famiglia, a casa di Vassos Valassakis (il marito della sua prima figlia, Leonis), in via Eptanissos 38 Agios Meletios (angolo), dove si era stabilito negli ultimi anni, dopo l’esplosione della sua dimora storica, in 38 Evripidou Street (42).

“Il corpo morto di Ksenopoulos fu trasferito nel primo cimitero di Atene, dove fu sepolto nella tomba della famiglia Ksenopoulos. La Filarmonica del Comune suonava canzoni in lutto, al momento della sepoltura, in seguito al desiderio del defunto, il lutto triste della composizione “Eroica” di Beethoven fu risolto. La bara portata da famosi scrittori e letterati, in onore del malato. La scultura della figura del defunto è stata presa dagli scultori Natsios e Lamare. Il funerale era una spesa pubblica, la maggior parte delle corone erano depositate. “

Estratto dalla descrizione del funerale pubblicata sul quotidiano “The Kathimerini” martedì 16 gennaio 1951

Itinerario Digitale

Itinerario culturale di Angelos Sikelianos a Lefkada

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Angelos Sikelianos (nato il 28 marzo 1884 a Lefkada, in Grecia – morto il 19 giugno 1951, Atene, Grecia), è stato un poeta e drammaturgo greco lirico i cui temi includono la storia greca, il simbolismo religioso e l’armonia universale.

Lefkada

1a Fermata: La casa di Angelos Sikelianos – Museo Angelos Sikelianos (Cyprus Str. Lefkada 31100 Greece)

Presentazione del Museo Angelos Sikelianos a Lefkada

C:\Users\Clio\Desktop\Cyclops, Polysemi\Polysemi\Ionian Literature\Sikelianos Final\Photos Sikelianos\mouseio-sekelianou.jpg“La casa di Sikelianos, che ospita l’omonimo museo, è stata acquistata dalla Banca Nazionale di Grecia nel 2009. È stata rinnovata e trasformata in uno spazio museale pionieristico consegnato al Comune di Lefkada e inaugurato il 6 ottobre 2017. è un museo speciale che non espone solo i ricordi del poeta di Alafroiskiotos, ma viaggia il visitatore per ogni aspetto, non solo della sua vita, ma anche della sua opera, attraverso un approccio architettonico e museologico pioneristico, il lavoro di un gruppo di illustri scienziati, nella sua zona troverete mostre che riguardano la vita e il lavoro di Sikelianos, che sono stati offerti da grandi musei, collezionisti e istituzioni di tutta la Grecia.Nel museo ci sono mostre speciali come l’abito da sposa di Anna e tessuti , Gli abiti fatti a mano di Eva per sé e per le feste delfiche, il suo passaporto, la sua treccia di capelli rossi, edizioni rare e manoscritti, materiale fotografico, film e recital registrati con voce del poeta stesso. “(Nota introduttiva, https://sikelianosmuseum.gr/)

2a Tappa: Boschetto, Giardino dei poeti
Bosketto, i Lefkadiani chiamano il boschetto, il giardino comunale della spiaggia all’ingresso della città, tra Angelou Sikelianou Square e gli hotel Nikeos e Lefkas. Il giardino ospita i busti di Aristotle Valaoritis, Angelos Sikelianos, Lefkadio Hern, Klearetis Dallas Malamos, Dimitris Golemis e il monumento dei Caduti della Guerra del 1897. Ecco perché è chiamato il Giardino dei Poeti.
3a Tappa: piazza Angelos Sikelianos e via Angelos Sikelianos.
Angelos Sikelianos Street raccoglie i visitatori dell’isola per godere di piacevoli sapori musicali e tradizionali, nonché di un meraviglioso tramonto.
4a Tappa: “Angelos Sikelianios Island” o Agios Nikolaos
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L’isola di Sikelianos si trova all’ingresso di Lefkada e prende il nome da una piccola cappella che ospita: Agios Nikolaos. Su questo pezzo di terra c’erano le usanze dell’isola, secoli fa. La cappella fu costruita sulle rovine di un antico tempio dedicato ad Afrodite. In questo posto, Angelos Sikelianos è andato con sua moglie Eva Palmer e il loro figlio appena nato, Glafko. Su quest’isola, Angelos Sikelianos, nel centro del mare, fu ispirato e scrisse le sue grandi poesie.

5a Tappa: i villaggi di Sfakioton
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Nei villaggi di Sfakioton (Lazarata, Asprogerakata, Spanohori, Kavalos, Pinakohori) nella montuosa Lefkada, Angelos Sikelianos trascorse la sua estate nel 1909 con Eva Palmer e il suo neonato Glafko.

6a Tappa: Angelos & Evas Sikelianos House a Delfi
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Nella zona di Delfi, molto vicino al sito archeologico e con vista su Parnaso, la valle di Amfissa e il mare è l’antica residenza a due piani di Angelos ed Eva Sikelianos, che ospita il Museo delle feste delfiche. E ‘stato costruito nel 1924-1926 da artigiani locali sotto la supervisione di Eva Sikelianou.
7a Tappa: Angelos Sikelianos House in Salamina
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8a Tappa: Angelos Sikelianos House a Sikies Korinthias
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9a Tappa: tomba di Angelos Sikelianos nel primo cimitero di Atene
Angelos Sikelianos, con anni di problemi finanziari e problemi di salute, morì ad Atene il 19 giugno 1951. La sua tomba si trova nel primo cimitero di Atene. Dopo la sua morte, Nikos Kazantzakis ha dichiarato: “La Grecia è ora vuota”.

Digital Itinerary

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Itinerario culturale di Dionysios Solomos a Zakynthos-Italia-Corfù

Dionysios Solomos è il principale poeta della tradizione della poesia ionica del 19 ° secolo. È considerato il poeta nazionale della Grecia, poiché i primi due giri dell’opera di Inno alla Libertà, melodizzata da Nicholaos Mantzaros, furono istituiti nel 1865, cfr. come l’inno nazionale greco.  

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Zante

1a Stazione: La casa di Nicolaos Solomos vicino alla piazza San Marco

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Piazza San Marco era un tempo il centro della cultura di Zante. Durante l’occupazione veneziana, scrittori, poeti, persone nobili e generalmente influenti scambiavano vedute nel caffè che esisteva al suo interno. In questa piazza si sono verificati eventi storici che hanno modellato gli sviluppi politici sull’isola. Nel 1797 i Popolari si ribellarono e bruciarono il libro d’oro del nobile “Libro D`Oro”. I Popolari hanno piantato “l’albero della libertà” al centro della piazza, volendo simboleggiare la loro liberazione dai veneziani e dare il benvenuto ai democratici francesi.

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Il poeta trascorse la sua infanzia fino al 1808 nella casa di suo padre a Zante, sotto la supervisione del suo insegnante, ava Santo Rossi, un rifugiato italiano. Dopo la morte di suo padre, Dionysios Messalas rilevò la sua custodia, mentre sua madre sposò Manolis Leontarakis il 15 agosto dello stesso anno.

L’anno seguente, Messalas mandò il piccolo Dionisio in Italia per studiare, secondo l’usanza dei nobili delle Isole Ionie. La sua permanenza è durata un decennio. Dopo aver studiato al liceo di Cremona, ha studiato per due anni presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, senza conseguire la laurea in giurisprudenza.

 Fermata intermedia: Italia

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Dionisio va a Cremona per essere vicino a Rosi e frequenta la scuola superiore di Cremona, dalla quale si laureerà il 30 settembre 1815, dopo rigorosi esami di Fisica, Matematica, Retorica, Educazione politica e Logica. Tra i professori di questi tempi, si distinguono almeno tre nomi: Giovanni Pini, Cosimo Galeazzo Scotti e Bernardo Bellini. Il primo e il secondo erano professori della retorica, il terzo del latino e la letteratura greca antica. Durante i sei anni della sua permanenza, Dionysios avrà l’opportunità di assistere alle celebrazioni del liceo e connettere la vita scolastica alla vita della città. L’attività principale in questi festival era di leggere poesie. Anche gli insegnanti stessi sono spesso poeti, come Pini. Le poesie sono anche scritte dagli studenti delle scuole superiori e del liceo e spesso, nel contesto delle gare di poesia degli alunni, le presentano al pubblico esigente degli insegnanti e della gente delle arti della città.

 

 

C:\Users\Clio\Desktop\Cyclops, Polysemi\Polysemi\Cultural Itinaries-Solomos Zakynthos\Photos Solomos\Pavia Uni.jfifDiplomata alla scuola superiore di Cremona, Dionisio effettuerà gli esami e sarà scritto all’inizio del novembre 1815 presso la facoltà di giurisprudenza di Pavia. L’università è rinomata e ha insegnanti eminenti. All’università Allesandro Volta insegna Fisica. C’è anche il matematico e poeta Lorenzo Mascheroni, il matematico Gregorio Fontana e il famoso poeta Vincenzo Monti e Hugo Foscolo (Ugo Foscolo). Indubbiamente, a Pavia Dionisio è più interessato alla poesia e meno alla Facoltà di Giurisprudenza. Dopo due anni di studio, il 15 maggio 1817, Dionysios supererà un esame davanti a un comitato di sette membri (composto da Giardini, Tampourini, Prinna, Beretta, Bellardi-Grannelli e Boutourini), passandoli con il massimo dei voti e acquisirà il laurea baccellierato. La frequentazione dei corsi, tuttavia, sembra proseguire almeno fino alla fine del 1817. Durante i suoi tre anni a Pavia per i suoi studi di giurisprudenza, Dionisio ebbe l’opportunità di recarsi nella vicina Cremona dove era il suo guardiano, Santo Rossi e i suoi amici , ma viaggia anche a Milano, capitale della Lombardia e centro spirituale dell’Italia settentrionale. Lì incontrerà molte persone d’arte e si ritroverà nell’atmosfera di questa particolare era che inizia nel 1815 e affronta il neoclassicismo con il romanticismo.

2a Stazione: Museo di D. Solomos ed eminente popolo di Zante, Piazza San Marco

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Il primo pensiero della creazione per il Museo Solomos è registrato nel 1903, quando i manoscritti del poeta nazionale furono donati alla commemorazione del centenario. Il Museo di D. Solomos ed Eminent People of Zakynthos, tuttavia, fu costruito dopo il terremoto del 1953, nella storica piazza di San Marco, su un sito donato dalla Metropolitan Church of Zakynthos, e fu ricostruito con aiuti finanziari dallo Stato , varie istituzioni e molte persone. Il Museo ospita l’unico Mausoleo in Grecia e numerose reliquie, donate da varie istituzioni e individui, ed è attivo dal 24 agosto 1966. Nel 2000, è stato nominato per il premio del Museo Europeo dell’Anno 2001.

 

 

C:\Users\Clio\Desktop\Cyclops, Polysemi\Polysemi\Cultural Itinaries-Solomos Zakynthos\Photos Solomos\Solomos.jpgLa sala Solomos espone i preziosi manoscritti e il ritratto originale del poeta, realizzato da un artista sconosciuto poco prima della morte del poeta. Ci sono anche i ritratti dei membri della sua famiglia e della sua amata: suo fratello di Dimitrios, il padre del conte Nikolaos Solomos, suo zio e il suo tutore dopo la morte di suo padre, Nicholas Messalas, la sua nipotina Elisabetta Dimitriou Solomos, che morì all’età di tre anni, e il suo insegnante Antonios Martelaos. Anche le traduzioni del suo amico Nicholas Loutzis, che aveva tradotto i filosofi tedeschi in italiano, i cui prototipi sono esposti nella stanza, insieme al suo ritratto. Un dipinto con fotografie digitali elaborate mostra il viaggio del poeta tra Grecia, Italia, Zante, Corfù e ancora Zante, dove risiede nella sua ultima casa. Nella stanza è lo stemma della famiglia Solomos, raffigurante un pesce salmone! Ci sono anche le cose personali del poeta, come le sue cartucce e i libri della sua biblioteca. In una speciale vetrina, sono esposti la sua uniforme ufficiale e il grado della dichiarazione di suo fratello Dimitrios, come presidente del Senato ionico. Un’atmosfera emotiva è creata dalla corona inviata dai Psarians insieme ad un po ‘di terra da Psara, per l’epigramma che Solomos scrisse sulla distruzione di Psara, durante le celebrazioni dedicate a Solomos organizzate nel 1902. 

 

 

C:\Users\Clio\Desktop\Cyclops, Polysemi\Polysemi\Cultural Itinaries-Solomos Zakynthos\Photos Solomos\maysoleio.jpgDal 1968, il Mausoleo è stato la dimora delle ossa dei poeti nazionali Andreas Kalvos e Dionysios Solomos e si trova al piano terra del Museo di Solomos ed Eminent People of Zakynthos. È stato costruito sulla proposta dell’allora prefetto di Zante, Andreas Ioannou. Le ossa di Solomos furono trasferite al Mausoleo dopo quattro sepolture consecutive: la prima dopo la sua morte a Corfù (9/21 febbraio 1857), la seconda dopo il trasferimento delle sue ossa a Zante nell’odierna Piazza San Marcos (14/27 luglio 1865) , il terzo nello stesso luogo dopo il completamento della costruzione del Museo e la collocazione temporanea delle ossa nella Chiesa della Signora degli Angeli (21 aprile 1962) e la quarta e ultima sepoltura, dal 17 gennaio 1968, in Mausoleo. Nella stessa stanza si trova su una colonna la baia di Solomos, opera dei fratelli Phytalis del monumento, che si trovava in piazza San Marcos, di fronte al tempio di Pantokrator. Alle pareti ci sono i testi delle poesie dei due poeti e l’architrave della porta, all’uscita del Mausoleo, versi di “Ode to Thanaton” di Calvos.

3a Stazione: Piazza Dionysios Solomos

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La piazza di D. Solomou è la piazza centrale e più grande della città e qui si svolgono molti eventi culturali. C’è anche la statua del poeta nazionale Dionysios Solomos, una copia dell’originale che fu opera dello scultore ateniese George Vroutos. Intorno alla piazza ci sono edifici notevoli costruiti principalmente seguendo la loro forma pre-sismica, così come la chiesa di San Nicolao di Molos. Sul lato sinistro della piazza di D. Solomos si trova il Municipio della Municipalità di Zante e sul margine meridionale della piazza la statua di Hugo Foscolo. Ci sono ancora le statue del musicista Paul Karer e la Statua della Libertà. 

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4a stazione : La casa di Nicolaos Solomos, Akrotiri

Zante Akrotiri è un insediamento del comune di Zante. Vicino al villaggio c’è una spiaggia ripida di 2,5 km. I limiti della spiaggia sono fissati dal faro di Kryoneri fino all’isola di Trenton-nove (o Voda). Nelle immediate vicinanze della punta meridionale dell’isola si trova Cape Red Rock, dove, secondo la tradizione locale, Fodini Sandri si è suicidato, una persona che è anche l’eroina del romanzo di Grigorios Xenopoulos. La spiaggia ha una bellezza naturale speciale ed è stata dichiarata monumento dal Ministero della Cultura.

Un notevole monumento architettonico di Zante era anche la famosa villa di Nikolaos Solomos – Tabakieri, nella sua terra nella zona di Akrotiri. Fu costruito nella posizione dominante del Capo, dopo il 1765, nei disegni dell’architetto francese Bocher. Il padre del poeta nazionale Dionysios Solomos, Nicholas, lasciò in eredità la villa al suo primo figlio, Roberto. Dal matrimonio di Roberto Solomos e Stella Makris, nacque Betina, che sposò Nicholas Kyvetos. Così, la villa venne alla proprietà di quest’ultimo, che lo affittò al pubblico, come residenza del commissario inglese delle Isole Ionie, quando quest’ultimo visitò Zante. Queste visite erano regolari e la villa di Akrotiri acquisì la reputazione di uno dei centri più importanti della vita sociale dei nobili, durante la dominazione britannica. Fu ospitato da Lord Nugent, il primo re di Grecia, Oto quando visitò Zante il 10 ottobre 1833. Dopo l’unione delle Isole Ionie con la Grecia, la villa fu acquistata da Nicholas Anastasios Loutzis. Il figlio di quest’ultimo, Dimitrios, che in seguito lo vendette alla famiglia Chronopoulos. Dopo i terremoti del 1953, la villa è stata restaurata e ospita notevoli opere d’arte, cimeli di famiglia e testimonianze della famiglia Chronopoulos. Dionysios Solomos non ha mai vissuto in questa villa, ma a casa di suo padre, che era vicino a San Marcos Square. 

5th Stop: Strani Hill, the house of Dionysios Solomos

A soli due chilometri dalla città di Zante si trova Strani Hill. Qui il poeta nazionale Dionysios Solomos, ascoltando i cannoni di Messolonghi, ispirò e scrisse l’inno nazionale. Nella piazzetta, dove domina il busto di Dionisio Solomos, c’era l’albero nella cui ombra scriveva “Inno alla libertà” e “Libero assediato”. La villa del poeta si trova appena sopra la collina, che è ancora in buone condizioni anche oggi.

Ludovico Strani visse a Zante tra il XVIII e il XIX secolo ed era di nobile origine italiana e il nome della famiglia Strani si riferisce a Limbro d’Horo, di Zante, dove la famiglia Stranis proveniva dalla città italiana di Trani e allo stesso tempo , gli antenati di Louis Stranis si trovarono nelle Isole Ionie, che a quel tempo era il territorio della Repubblica di Venezia, precisamente a Zante, e lui nacque lì. Visse nella villa della sua famiglia sulla famosa collina di Strani, dove spesso ospitava Dionisio Solomos, e in seguito scrisse l’Inno alla libertà. Oggi la collina di Stranis a Zante è un polo di attrazione per i visitatori, principalmente per la sua esistenza come punto di ispirazione dell’inno nazionale greco di Solomos, ma anche per la straordinaria vista panoramica dell’isola che offre.

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Corfu

6a Stazione : Corfu, Museo di Solomos

Dionysios Solomos si stabilì a Corfù alla fine del 1828, alla ricerca di un’atmosfera pacifica che gli permettesse di dedicarsi al suo lavoro. Come poeta, ha una così brillante reputazione che i professori della Ionian University sono contenti del suo arrivo. Tra il 1828 e il 1832 vivrà in diverse case, ma queste sono a noi sconosciute oggi. Una delle case dove era stato installato era in un appartamento di un edificio di quattro piani di fronte all’attuale municipio di Corfù, nella piazza, vicino alla Metropolis cattolica. Nello stesso edificio, purtroppo rovinato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, la famiglia dell’ultimo studente di Iakovos Polylas, che sarebbe diventato l’editore dei suoi manoscritti e il primo editore delle sue opere, morì dopo la sua morte. A Corfù ha conosciuto il grande musicista Nikolaos Halikiopoulos Mantzaros (1795-1875), che prima dell’installazione di Solomos a Corfù, ha eseguito il poema “Pharmakomeni” e poi ha anche eseguito altri poemi solisti, tra cui “Inno alla libertà”, che dal 1865 è stato istituito come l’inno nazionale greco. Nell’edificio che oggi ospita il Museo Solomos, il poeta si stabilì all’inizio di agosto del 1832 e apparteneva allo studioso italiano Flaminio Lolly. In questa casa visse negli ultimi anni della sua vita, compose le sue opere migliori e vi morì il 21 febbraio 1857. A causa dell’annuncio della morte del poeta, la Casa delle Isole Ionie interruppe immediatamente il suo lavoro e dichiarò il lutto pubblico. Le attività del carnevale si fermarono e il teatro si chiuse. Tutti vennero al suo funerale e il poeta fu sepolto nel primo cimitero di Corfù. Nel 1865 suo fratello Dimitrios portò le sue ossa nella sua città natale di Zante. La Tomba del Poeta è conservata come cenotafio. Nel 2010 il Museo Solomos di Corfù è stato gemellato con il Museo di Solomos ed Eminent People of Zakynthos.  

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Museum_solomu
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Museo Solomos di Corfù

7a Stazione: Statua di Dionysios Solomos, viale Dimokratias, Aktaion, Corfù
Τα αγάλματα στην πόλη της Κέρκυρας
Il busto in marmo di Dionysios Solomos è opera dello scultore Michael Tompras e si trova su Dimokratias Avenue, vicino ad Aktaion.

Itinerario Digitale

Κωνσταντίνος Θεοτόκης

Itinerario culturale di Konstantinos Theotokis a Corfù

Konstantinos Theotokis (13 Μaggio 1872, Corfù, Grecia — morto il 1° luglio 1923, Corfù), romanziere greco della scuola realista, il cui chiaro e puro greco demotico è stato aromatizzato da corfiote idiomi. Theotokis proveniva da una famiglia aristocratica che era fuggita a Corfù dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453.

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