Boccaccio

dal Decameron

Novella di Landolfo Rufolo

Introduzione a cura di Rita Nicolì

È una storia di peripezie quella che ha come protagonista il mercante Landolfo Rufolo e, quarta nella seconda giornata decameroniana, «espone i casi di un filibustiere fortunato nei tempi in cui genovesi e pisani, siciliani e catalani, greci ed arabi correvano da pirati il Mediterraneo e costruivano sulla rapina della “guerra di corsa” le grandi fortune di certi nobili e mercanti».[1] Landolfo, partendo da Ravello, attraversa tutto il Mediterraneo orientale. In questo transito per mare, e durante le varie tappe sulle coste (Reggio Calabria, Gaeta, Amalfi, Cipro, Costantinopoli, Cefalonia, Corfù, Brindisi e Trani), l’uomo vive alterne vicende: si arrichisce, perde tutti i suoi averi, cambia la sua connotazione da mercante in pirata, poi vittima egli stesso di corsari naufraga presso Corfù e infine, passando per le coste pugliesi, ritorna a Ravello, ma vi ritorna «il doppio più ricco di quando partito s’era». I giovani dell’«allegra brigata», infatti, sotto il reggimento di Filomena, sono chiamati a narrare le avventure di «chi da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine».

Questa novella, insieme ad altre del Decameron accuratamente classificate da Alberto Asor Rosa,[2] è rappresentativa, alle soglie dell’Umanesimo, di un genere in cui il viaggio ha un rapporto intrinseco con la narrazione e l’idea stessa di viaggio «entra come consustanziale al percorso di formazione e realizzazione dell’io».[3]

Per quanto riguarda la specificità del percorso di Landolfo, il tema della navigazione e la simbologia legata agli umori del mare hanno da sempre esercitato un indiscusso fascino perché rappresenterebbero le prove escatologiche che l’uomo deve affrontare, mentre la barca e la nave rappresenterebbero il suo potenziale di controllo degli eventi.[4] Il viaggio del mercante prende avvio per una contingenza precisa, qual è l’interesse economico e commerciale, ma al termine di esso Landolfo potrà affermare il valore dell’esperienza in sé da cui trae una serie di insegnamenti per i quali «senza più voler mercatare […] onorevolmente visse infino alla fine.».

Tutti i luoghi toccati da Landolfo sono emblematici di quel mondo mercantile che proprio nella prima metà del XIV secolo ha vissuto un momento di intensa attività nello spazio dell’intero Mediterraneo e che tale è rimasto nel tempo, fino alla più recente definizione di Braudel:

Il mediterraneo è un insieme di vie marittime e terrestri collegate tra loro, e quindi di città che si tengono tutte per mano. Strade e ancora strade, ovvero tutto un sistema di circolazione. È attraverso questo sistema che possiamo arrivare a comprendere fino in fondo il Mediterraneo, che si può definire, nella totale pienezza del termine, uno spazio-movimento.[5]

Anche nel caso di questa novella, il mare è quindi un sistema fluido e agile di scambi soprattutto commerciali, una porzione di spazio che collega città che via terra sarebbero tra loro troppo distanti, ma il suo attraversamento non è per niente scontato dal momento che le figure che si muovono al suo interno, con più facilità che sulla terra ferma, subiscono indebite sottrazioni, fortuiti recuperi, inaspettate acquisizioni.

Scevra da qualunque influsso divino, come invece voleva la cultura medievale, la Fortuna, ora requisitrice ora dispensatrice, gioca nella novella il ruolo di forza casuale e del tutto priva di una volontà trascendente, contro la quale il mercante, e più in generale l’uomo, deve misurarsi, con alterni risultati. La porzione di mare tra Adriatico e Ionio, che di quell’irrazionalità fluttuante è il correlativo, supporta gli alterni ruoli della Fortuna, collaborando con le sferzate dei suoi venti inquieti, con le immobili bonacce, con le tempeste improvvise e con i flussi delle sue correnti in balia delle quali si trova il protagonista. Saranno proprio gli umori di quel mare, scenario delle tante avventure dei romanzi greci, a dettare i tempi e a governare le circostanze fino al lieto fine delle vicende.

Su alcuni elementi relativi al mare è opportuno soffermarsi: la presenza dei pirati, la tempesta e il naufragio.

Nell’Egeo, Landolfo è sorpreso da una tempesta sciroccale che fa «grossissimo il mare»: per proteggersi si ripara in un golfo, dove poco dopo si accostano anche le due navi mercantili genovesi, che provengono da Costantinopoli. È qui che, scoprendo di chi è la nave e quante ricchezze porta, i genovesi la assaltano e Landolfo viene fatto prigioniero. A loro volta però anche i genovesi sono vittime di «un vento tempestoso, il quale facendo i mari altissimi divise le due cocche l’una dall’altra» e la nave su cui è Landolfo naufraga nei pressi di Cefalonia. Solo in mezzo al mare, senza riferimenti visivi, si aggrappa ad una cassa e alla fine le maree lo conducono, stremato, alla costa di Corfù.

Per l’ampio spazio che l’autore dedica alle conseguenze dell’improvvisa tempesta che determina il naufragio, oltre che agli scontri tra pirati, la novella è stata tradizionalmente ricondotta ai romanzi ellenistici, sebbene Boccaccio declini la materia della tradizione in modo assai innovativo, ricorrendo alla dissoluzione spesso ironica dei consueti topoi.[6] Nei romanzi antichi, infatti, tempeste, naufragi e corsari erano responsabili per lo più della separazione forzata (o dell’inatteso ricongiungimento) degli innamorati, qui è invece il patrimonio di Landolfo ad essere in balia dei predoni. Ciò che il personaggio ritrova, non è la fanciulla amata, bensì una cospicua quantità di pietre preziose. Sarà il contenuto dello scrigno a rappresentare il risarcimento che il mare gli donerà a lieto fine delle sue traversie.

Una considerazione va fatta poi sull’estrema attendibilità della geografia e della tempistica segnate dal transito di Landolfo. Un esempio relativo proprio alla Isole Ionie: il mercante, assecondando le correnti malamente aggrappato alla cassa, arriva in meno di due giorni da Cefalonia a Corfù:

Ed in questa maniera, gittato dal mare ora in qua ed ora in lá, […] senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente.

Il dí seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che il facesse, costui, divenuto quasi una spugna, […] pervenne al lito dell’isola di Gurfo.[7]

Risale ormai ad un decennio fa il testo, curato da Roberta Morosini e unico nel suo genere, Boccaccio geografo. Un viaggio nel Mediterraneo tra le città, i giardini e…il ‘mondo’ di Giovanni Boccaccio,[8] che, ripercorrendo le tappe umane e intellettuali e i viaggi reali compiuti dall’autore, indaga sulle sue conoscenze geografiche. Il fulcro degli studi a più voci che si intrecciano nel sempre attuale volume è relativo all’analisi del modo in cui il Certaldese trasferisce nelle sue narrazioni le sue reali conoscenze. Fin dal Filocolo, infatti, il viaggio nell’economia della narrativa boccaccesca privilegia «un’ottica decisamente realistica, basata sulle pratiche mercantili più che sulla geografia classica o sull’odeporica medievale».[9] Osservando le tappe del viaggio dell’eroe nel Filocolo, si rilevano subito quegli elementi geografici che diverranno tipici di tutte le peripezie mediterranee decameroniane e che già sono significativi della volontà di fornire quelle esatte notazioni necessarie alla credibilità dei testi, come in questa novella si verifica nella circostanziata indicazione del tempo che un corpo trasportato dalle correnti impiegherebbe per coprire la frangia di mare tra Cefalonia e Corfù. Un dettaglio quindi che coscientemente l’autore fornisce ai lettori e che consente di evidenziare l’intersezione esatta qui presente tra geografia e letteratura.[10]

Mentre il mare viene descritto in tutti i suoi cangianti caratteri, mentre vengono forniti dettagli sui tempi di percorrenza all’interno delle sue acque, praticamente assenti sono invece le descrizione dei luoghi della terra ferma, eccezion fatta per il tratto di costa che da Reggio conduce a Gaeta, funzionale solo a collocarvi la città di Ravello, cioè il punto di arrivo e di partenza nel circolare percorso del personaggio. Sulle Isole Ionie e sulla costa pugliese compresa tra Brindisi e Trani, Boccaccio non fornisce dettagli descrittivi, ma si limita a nominare le località riducendole a sfondo, descrivendole piuttosto come ‘spazi sociali’, dando cioè centralità assoluta all’alterità umana incontrata dal protagonista all’interno di quelle cornici.

A Corfù, è una «buona femina» mossa da compassione a salvare Landolfo stremato dalle acque, a rifocillarlo e curarlo offrendogli ospitalità. A Trani, egli incontra provvidenzialmente un gruppo di mercanti di tessuti, che ascolta il racconto delle sue traversie e «per l’amore di Dio» gli dona abiti e gli presta un cavallo con cui tornare a Ravello.

Se il mare, pure vicino e conosciuto, aveva rappresentato un luogo di iniziazione al male da perpetrare e da subire, le due coste liminari delle Isole Ionie e della Puglia mettono in relazione il protagonista con personaggi funzionali a bilanciare l’umanità avversa incontrata (ma anche rappresentata) per mare. In definitva, Boccaccio costruisce con lucidità progettuale un rapporto di corrispondenza e diretta proporzionalità tra mare periglioso e alterità umana foriera di pericolo così come tra rassicurante costa e alterità umana risolutiva dell’avversità.

Nota al testo

La novella di seguito trascritta riproduce fedelmente il testo curato da V. Branca, nei Testi dell’Accademia della Crusca (G. Boccaccio, Decameron, Edizione critica secondo l’autografo Hamiltoniano a c. di V. Branca, Firenze, presso l’Accademia della Crusca 1976), poi ristampato in tutte Tutte le opere di G. Boccaccio, a c. di V. Branca, Milano, Mondadori 1976, vol. IV e proposto in G. Boccaccio, Decameron, con Prefazioni di Cecchi, Bevilaqua, Galletti, Alicata, Russo, Fubini, Muscetta, Montale, Baldini, Petronio, Salinari, Roma, Editori Riuniti 1980, vol. I, pp. 122-8.

Landolfo Rufolo, impoverito, divien corsale, e da’ genovesi preso, rompe in mare e sopra una cassetta di gioie carissime piena scampa, ed in Gurfo ricevuto da una femina, ricco si torna a casa sua.

La Lauretta appresso Pampinea sedea; la qual veggendo lei al glorioso fine della sua novella, senza altro aspettare, a parlar cominciò in cotal guisa:

Graziosissime donne, niuno atto della fortuna, secondo il mio giudicio, si può veder maggiore che vedere uno d’infima miseria a stato reale elevare, come la novella di Pampinea n’ha mostrato essere al suo Alessandro addivenuto. E per ciò che a qualunque della proposta materia da quinci innanzi novellerà, converrà che infra questi termini dica, non mi vergognerò io di dire una novella la quale, ancora che miserie maggiori in sé contenga, non per ciò abbia cosí splendida riuscita. Ben so che, pure a quella avendo riguardo, con minor diligenza fia la mia udita: ma altro non potendo, sarò scusata.

Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno è una costa sopra il mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la Costa d’Amalfi, piena di piccole cittá, di giardini e di fontane e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantía sí come alcuni altri. Tra le quali cittadette n’è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe giá uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di raddoppiarla, venne presso che fatto di perder con tutta quella se stesso.

Costui adunque, sí come usanza suole esser de’ mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo legno e quello tutto, di suoi denari, caricò di varie mercatantíe ed andonne con esse in Cipri. Quivi, con quelle qualità medesime di mercatantíe che egli aveva portate, trovò essere più altri legni venuti; per la qual cagione non solamente gli convenne far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via, laonde egli fu vicino al disertarsi. E portando egli di questa cosa seco grandissima noia, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che là onde ricco partito s’era povero non tornasse. E trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantía avuti avea comperò un legnetto sottile da corseggiare, e quello d’ogni cosa opportuna a tal servigio armò e guerní ottimamente, e diessi a far sua della roba d’ogni uomo, e massimamente sopra i turchi.

Al qual servigio gli fu molto più la fortuna benivola che alla mercatantía stata non era. Egli, forse infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantía avea perduto, ma di gran lunga quello aver raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato dal primo dolore della perdita, conoscendo che egli aveva assai, per non incappar nel secondo, a se medesimo dimostrò, quello che aveva, senza voler più, dovergli bastare, e per ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua: e pauroso della mercatantía, non s’impacciò d’investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale guadagnati gli avea, dato de’ remi in acqua, si mise al ritornare. E già nell’Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco il quale non solamente era contrario al suo cammino, ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il suo piccolo legno non avrebbe bene potuto comportare, in un seno di mare il quale una piccola isoletta faceva, da quel vento coperto si raccolse, quivi proponendo d’aspettarlo migliore. Nel quale seno poco stante due gran cocche di genovesi le quali venivano di Costantinopoli, per fuggire quello che Landolfo fuggito avea, con fatica pervennero; le genti delle quali, veduto il legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per fama conoscendol ricchissimo, sí come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci, a doverlo aver si disposero. E messa in terra parte della lor gente con balestra e bene armata, in parte la fecero andare che del legnetto niuna persona, se saettato esser non volea, poteva discendere: ed essi, fattisi tirare a’ paliscalmi ed aiutati dal mare, s’accostarono al piccol legno di Landolfo, e quello con piccola fatica in piccolo spazio, con tutta la ciurma senza perderne uomo, ebbero a man salva; e fatto venire sopra l’una delle lor cocche Landolfo ed ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono, lui in un povero farsettino ritenendo.

Il dí seguente, mutatosi il vento, le cocche ver’ Ponente venendo fer vela, e tutto quel di prosperamente vennero al lor viaggio: ma nel fare della sera si mise un vento tempestoso, il qual faccendo i mari altissimi divise le due cocche l’una dall’altra. E per forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e povero Landolfo con grandissimo impeto di sopra all’isola di Cifalonia percosse in una secca, e non altramenti che un vetro percosso ad un muro tutta s’aperse e si stritolò: di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo già il mare tutto pieno di mercatantie che notavano e di casse e di tavole, come in cosí fatti casi suole avvenire, quantunque oscurissima notte fosse ed il mare grossissimo e gonfiato, notando quegli che notar sapevano, s’incominciarono ad appiccare a quelle cose che per ventura lor si paravan davanti.

Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dí davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea, veggendola presta n’ebbe paura, e come gli altri, venutagli alle mani una tavola, a quella s’appiccò, se forse Iddio, indugiando egli l’affogare, gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo: ed a cavallo a quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua ed ora in lá, si sostenne infino al chiaro giorno. Il quale venuto, guardandosi egli da torno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea, ed una cassa la quale sopra l’onde del mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s’appressava, temendo non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse: e sempre che presso gli venia, quando potea, con la mano, come che poca forza n’avesse, l’allontanava. Ma come che il fatto s’andasse, addivenne che, solutosi subitamente nell’aere un groppo di vento e percosso nel mare, sí grande in questa cassa diede, e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo, lasciatala, andò sotto l’onde e ritornò suso notando, più da paura che da forza aiutato, e vide da sé molto dilungata la tavola; per che, temendo non potere ad essa pervenire, s’appressò alla cassa la quale gli era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio poteva, con le braccia la reggeva diritta. Ed in questa maniera, gittato dal mare ora in qua ed ora in lá, senza mangiare, sí come colui che non aveva che, e bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente.

Il dí seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che il facesse, costui, divenuto quasi una spugna, tenendo forte con ammendune le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono quando prendono alcuna cosa, pervenne al lito dell’isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura suoi stovigli con la rena e con l’acqua salsa lavava e facea belli. La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma, dubitando e gridando si trasse indietro. Questi non potea favellare e poco vedea, e per ciò niente le disse: ma pur, mandandolo verso la terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e più sottilmente guardando e veggendo, conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi appresso ravvisò la faccia, e quello esser che era s’imaginò. Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare che giá era tranquillo, e per li capelli presolo, con tutta la cassa il tirò in terra, e quivi con fatica le mani dalla cassa sviluppatogli, e quella posta in capo ad una sua figlioletta che con lei era, lui come un piccol fanciullo ne portò nella terra, ed in una stufa messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavò, che in lui ritornò lo smarrito calore ed alquante delle perdute forze. E quando tempo le parve trattonelo, con alquanto di buon vino e di confetto il riconfortò, ed alcun giorno come poté il meglio il tenne, tanto che esso, le forze recuperate, conobbe lá dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere, la qual salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura; e cosí fece.

Costui, che di cassa non si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella non potere sì poco valere, che alcun dí non gli facesse le spese; e trovandola molto leggera, assai mancò della sua speranza: nondimeno, non essendo la buona femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse, e trovò in quella molte preziose pietre, e legate e sciolte, delle quali egli alquanto s’intendea. Le quali veggendo e di gran valor conoscendole, lodando Idio che ancora abbandonare non l’aveva voluto, tutto si riconfortò: ma sí come colui che in piccol tempo fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte, dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose poter conducere a casa sua; per che in alcuni stracci come meglio potè, ravoltele, disse alla buona femina che più di cassa non aveva bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella.

La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì; e montato sopra una barca, passò a Brandizio e di quindi, marina marina, si condusse infino a Trani, dove trovati de’ suoi cittadini, li quali eran drappieri, quasi per l’amor di Dio fu da lor rivestito, avendo esso giá loro tutti li suoi accidenti narrati, fuori che della cassa; ed oltre a questo, prestatogli cavallo e datagli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto diceva di voler tornare, il rimandarono. Quivi parendogli esser sicuro, ringraziando Idio che condotto ve l’avea, sciolse il suo sacchetto, e con più diligenza cercata ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e sì fatte pietre, che, a convenevole pregio vendendole ed ancor meno, egli era il doppio più ricco che quando partito s’era. E trovato modo di spacciar le sue pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantitá di denari, per merito del servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l’avea tratto, ed il simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l’aveano; ed il rimanente, senza più voler mercatare, si ritenne, ed onorevolemente visse infino alla fine.

  1. A. Galletti, Prefazione alla seconda giornata, in G. Boccaccio, Decameron, con Prefazioni di Cecchi, Bevilaqua, Galletti, Alicata, Russo, Fubini, Muscetta, Montale, Baldini, Petronio, Salinari, Roma, Editori Riuniti 1980, vol. I, p. 95.

  2. Secondo la classificazione proposta da Asor Rosa, le altre novelle in cui il viaggio è strettamente connesso alla narrazione, ed ha valenza formativa per chi lo compie, sarebbero: II 3 (i tre fratelli scialacquatori e il nipote Alessandro che sposerà la figlia del re d’Inghilterra); II 6 (madama Beritola); II 7 (Alatiel); II 8 (Il Conte d’Anguersa); II 9 (Zinevra e Bernabò); III 9 (Giletta di Nerbona e Beltramo), IV 3 (Tre giovani amano tre sorelle); V 1 (Cimone); V 2 (Gostanza e Martuccio); V 3 (Pietro Boccamazza e l’Agnolella); V 6 (Gian di Procida) e X 9 (Il Saladino e messer Torello), A. Asor Rosa, «Decameron» di Giovanni Boccaccio, in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, a c. di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi 1992, Vol. I, p. 549.

  3. F. Pierangeli, M. F. Papi, L. Pacelli, Il viaggio nei classici italiani. Storia ed evoluzione di un tema letterario, Milano, Mondadori Education 2011, p. 20.

  4. Cfr. R. Morosini, Penelopi in viaggio “fuori rotta” nel Decameron e altrove. “Metamorfosi” e scambi nel mediterraneo medievale, in «California Italian Studies», I, (2010), p. 4.

  5. F. Braudel Il Mediterraneo, Milano, Bompiani 1994, p. 85.

  6. Cfr. C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi 1985.

  7. Miei i corsivi.

  8. Boccaccio geografo. Un viaggio nel Mediterraneo tra le città, i giardini e… il ‘mondo’ di Giovanni Boccaccio, a c. di R. Morosini con la collaborazione di A. Cantile, Firenze, Mauro Pagliai 2010.

  9. L. Marcozzi, Raccontare il viaggio: tra Itineraria Ultramarina e dimensione dell’immaginario, in Boccaccio geografo, cit., p. 163.

  10. Cfr. D. Papotti, Attività odeporica ed impulso scrittorio: la prospettiva geografica sulla relazione di viaggio, in «Annali d’Italianistica», XXI, (2003), pp. 393-407.