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Introduzione a L. Romano

A cura di R. Nicolì

Questa edizione digitale della Biblioteca di POLYSEMI, presenta la trascrizione di alcune celebri pagine tratte da Il Diario di Grecia di Lalla Romano contenuto, insieme alla totalità dell’opera dell’autrice, in Opere, due volumi a cura di Cesare Segre, editi da Arnoldo Mondadori, nel 1991 e nel 1992.

A quasi un ventennio dalla sua morte, vari convegni, pubblicazioni di studi e mostre hanno riportato l’attenzione su una delle scrittrici più avvincenti della letteratura italiana contemporanea. Di origine cuneese, ma formatasi nel circolo dell’élite culturale torinese degli anni trenta, la Romano dipana il suo percorso creativo lungo l’arco di un cinquantennio. La sua produzione sfugge a qualsiasi categorizzazione e a qualsiasi possibilità di essere ascritta, almeno in modo rigido, ad una specifica “corrente letteraria”.

La sua vita letteraria è stata schiva, la sua scrittura connotata da un essenziale equilibrio stilistico. La scrittrice, dice Ferroni, «si situa in un civile e pacato orizzonte borgese, che si difende e resiste al turbine ossessivo della vita contemporanea».[1] Come Ferroni, molti altri critici e scrittori (da Eugenio Montale a Carlo Bo, da Italo Calvino a Pier Paolo Pasolini) hanno tentato di individuare le chiavi interpretative della sua produzione, mettendo in evidenza il terreno di sperimentazione della sua scrittura, spesso collocata sul confine tra linguaggio visivo dell’immagine e linguaggio verbale della letteratura[2], e la corrispondenza costante tra scrittura e sguardo attento continuamente rivolto al mondo.

Il breve viaggio lungo la costa adriatica italiana fino a Brindisi e poi nella Grecia, che sorprendentemente racconterà senza gli obbligati riferimenti ai suoi miti, si svolse nel 1957 e la allora cinquantenne scrittrice cuneese ne pubblicò il resoconto per la prima volta due anni dopo.[3] Calvino sottolineò subito «l’aerea semplicità di stile» e il «continuo dialogo con le meditazioni di Pavese sul mito e i luoghi». Si tratta, come avvisa il titolo, di un diario vero e proprio in cui, in alto nelle pagine, data, ora e riferimento del luogo scandiscono gli spostamenti e la cui prosa, agile e nitida, è connotata sempre dalla brevità delle scelte descrittive. È una registrazione minuta di piccoli eventi, degli spostamenti anche brevi lungo l’itinerario, di cose viste e sentite anche minime, raccontate in prima persona, da un unico punto di vista, e riferite in una prosa sempre controllata. Per quanto la forma del diario di viaggio rappresenti un modello in parte precostituito, quello della Romano evade i precedenti riferimenti rivelando l’educazione letteraria e spesso i caratteri della solida coscienza artistica dell’autrice.

È aprile, la scrittrice e il marito Stefano, compagno di molti viaggi che ella definisce «fonte di visione, di avventure», partono in treno da Milano alla volta della Puglia. Da Brindisi, nei giorni che precedono la Pasqua, si imbarcheranno per la Grecia.

«Il treno è foderato internamente in cuoio scuro, impresso a disegni floreali. […] Il nostro scompartimento è angusto, ammobiliato, vestito; tempestato di borchie, ganci, rampini lucidi di ottone. Anche la scaletta mobile, ridicolmente piccola, è interamente rivestita di panno blu a disegni». È questo l’incipit del Diario, il luogo liminare del testo in cui l’autrice introduce la scena al lettore, «Ai dettagli dello scompartimento va la prima e più infantile curiosità della viaggiatrice (tappezzeria, borchie, lavabo, saponetta)»[4]; nel vagone, gli interni di velluto – questa volta blu – ricordano quelli del «simbolo di tutti i viaggi», il primo viaggio in treno a Montecarlo che il padre aveva immortalato in foto, poi raccolte e commentate dalla scrittrice molti anni dopo[5]. Scorrendo verso sud e passando da Parma, la Romano sembra saper leggere i pensieri del marito che a quella città è legato, lo sguardo che l’uomo volge dal finestrino al cupolone del Battistero e il suo silenzio si caricano per lei di potenziale comunicativo.

L’arrivo in Puglia è descritto nel secondo capitolo: «Ogni campagna intravveduta all’alba dal buio e dal chiuso di un treno è una apparizione di purezza», ma sono gli aspetti coloristici a produrre in lei l’impressione più profonda, ad appagare quel peculiare gusto per l’immagine che trova giustificazione nelle sue inclinazioni pittoriche: l’oro verde della vite e del fico, l’azzurro terso del cielo, la bianca facciata del Duomo di Trani, il rosso intenso dei campi di papaveri.

Di Bari, la città che più di ogni altra di Puglia sovrappone la sua storia a quella del Levante, la Romano coglie il duplice volto: troppo «milanese» nella sua parte nuova, anche per quell’insegna campeggiante della Motta che la omologa alle città settentrionali, povera nelle pieghe più recondite della parte vecchia, dove, sotto l’incombenza maestosa del Duomo, assiste ad un «trasloco di poveri» i cui «mobili miseri vengono calati dal balcone» e dove percepisce tutta la miseria «bianca» serpeggiante tra le case intonacate di fresco, tra gli angusti vicoli tuttavia rallegrati dalla presenza ingenua e leggera dei bambini.

Il legame tra la narrazione e la memoria, tra il racconto e il ricordo, si coglie nel barlume di percezione nella piazza «irregolare, strana, meravigliosa», scena teatrale di un mercato concluso di cui restano – oggetti scenici – i resti degli ortaggi invenduti, dove la Romano avverte la sensazione di essere già stata, da bambina «quasi l’avessi davvero attraversata, tanti anni fa, un giorno di passeggiata scolastica, “in fila”», scrive. Il passato viene, in generale, vivificato attraverso una sorta di invasione emozionale che compie nello spazio del presente. I ricordi sedimentati riemergono per rielaborare il vissuto autobiografico in chiave narrativa, come davanti alla casa editrice Laterza: «Le edizioni Laterza sono state il latte, per noi. Vagheggiate, centellinate nelle biblioteche al tempo dell’adolescenza squattrinata, poi i primi gelosi acquisti: l’Estetica di Croce, la Nascita della tragedia». Ma quello che doveva essere un simbolo positivo della città, nell’ottica laica della Romano, tradisce la sua natura offrendosi anche al commercio di statuette di santi e catechismi, che invadono gran parte delle sue vetrine, relegando «i veri Laterza» ad uno spazio ridotto di «sottile rarefatto silenzio del pensiero laico». La Laterza, cardine della cultura barese, è spesso oggetto di digressione da parte dei viaggiatori in transito nella città pugliese. Il 1957, anno del viaggio in Grecia e del passaggio da Bari della Romano, è anche l’anno della prima pubblicazione del Viaggio in Italia di Piovene[6] che, non fermandosi alle vetrine ma decidendo di verificarne gli archivi, così scrive della celebre casa editrice:

La cultura barese fa perno nella casa editrice Laterza, che pubblicò e pubblica le opere di Benedetto Croce. Giacché fu l’unica in Italia che mise in commercio opere filosofiche e letterarie fondamentali, serve come nessun’altra a conoscere con sincerità la diffusione reale di alcuni studi, ed a sentire il polso della nostra cultura. Uno sguardo ai registri per esempio ci informa che di Aristotele sono state vendute mille copie in vent’anni, cinquanta copie all’anno. Si dovrebbe dunque supporre che alcuni insegnanti di filosofia si accontentino anch’essi di conoscerlo indirettamente.[7]

A Brindisi, dove si imbarcheranno sull’Angelika, una anticipazione di Grecia è nel volto di un oste, ma a catalizzare l’attenzione sono le suggestioni derivate dalla visione del mare, pura e immediata, che la Romano modula incrociando ad essa il tema del viaggio: «Vi è laggiù un senso di pace e di silenzio. Il mare, calmo, è esso stesso elemento del silenzio, è uno spazio incorporeo, una eterea pianura che introduce a un viaggio al di là del tempo». Il silenzio ha quindi lo steso valore del non-scritto nella pagina o del non-colore sulla tela, è spazio di elaborazione personale del vissuto. Sul silenzio, qui determinato dalla quiete del mare che dovranno attraversare, così scriverà la Romano nel suo romanzo del 1987, Nei mari estremi: «Per me scrivere è stato sempre cogliere, dal tessuto fitto e complesso della vita qualche immagine, dal rumore del mondo qualche nota, e circondarle di silenzio»[8]. E fra tutte, si ricordano le osservazioni di Montale, il quale scriveva che Lalla Romano «si è sempre mantenuta fedele a quella che potrebbe dirsi l’arte del silenzio»[9], intesa proprio come capacità di coglierne il potenziale evocativo tra i frastuoni del mondo. Alla mancanza di suoni che precede la partenza, si oppongono, lungo il viaggio sull’Angelika, rumori disturbanti «il ronfare sordo sotterraneo della nave, il martellare del finestrino che sbatte». Il silenzio ritornerà a Corfù per avvolgere l’Achilleion e risvegliare il ricordo dei versi pascoliani, mandati a memoria solo per il gusto del loro suono, senza consapevolezza, quando la scrittrice adolescente credeva che la Grecia fosse «un libro».

La Grecia di Lalla Romano, con il suo pochissimo spazio dedicato alla descrizione delle vestigia antiche e l’assenza pressoché totale di riferimenti ai miti classici[10], presenta di sé, nella scrittura della viaggiatrice, aspetti che mai un qualsiasi turista coglierebbe. Eppure si tratta di un viaggio turisticamente organizzato, con piccoli spostamenti predisposti in jeep e traghetti, con la presenza di guide del posto che propongono storie preconfezionate sui luoghi, ostacolando talvolta l’autonomia del visitatore. Come scriverà molti anni dopo, nel 1982, nel suo saggio introduttivo al volume del Touring Club Italiano Finlandia, Norvegia, Svezia: «con tutto rispetto per i gusti altrui, io detesto la visione “turistica” del mondo». È una attitudine la sua, che già chiaramente emerge da queste pagine del Diario, dal suo insistere sulla presenza forse più ovvia attorno a quella piccola porzione di Grecia rappresentata dalle Isole Ionie, quella del mare, «Un mare liscio come un lago», che predispone alla contemplazione e nel quale le isole diventano metafora di immobilità, apparendo come «statue che si debbono aggirare», restituendo il senso di fissità in una dimensione inamovibile.

Nulla di turisticamente scontato, quindi, annebbia mai il nitore del suo Diario, eppure siamo ai primi albori di quella che sarà una duratura stagione di turismo di massa, ma l’autrice sembra compiere piuttosto un maturo pellegrinaggio, ai luoghi idealizzati durante gli anni del liceo. Ed alle memorie liceali più libresche ricorrerà analogamente Arbasino, negli stessi anni, per guardare anche egli la Grecia con gli occhi disincantati, forse appesantito dalla vasta conoscenza classica che, in qualche misura predispone, scontrandosi, come accade in Lalla Romano, con ciò che il paesaggio greco offre come possibilità di immediata e sottile rispondenza alle reazioni interiori di chi lo scopre.

L’ammirazione per la Grecia poteva rivelare e rivestire molti aspetti e avere molte accezioni; da quelle del mito, alla ricerca di una natura capace di consentire felicità altrove impossibili. Lalla Romana sceglie invece di liberarsi da «cognizioni e condizioni, schermi culturali e schemi di classe»[11], per acquistare uno sguardo di più acuta e personale penetrazione dei luoghi.

  1. Giulio Ferroni, Profilo storico della Letteratura italiana, Einaudi, Milano, 2000, vol. II, p. 1141.
  2. Cfr. Marino Toni, Paratesti figurativi al femminile: il caso di Lalla Romano, in La Letteratura degli Italiani. Rotte confini passaggi, Atti del XIV Congresso nazionale Adi, Genova, 15-18 settembre 2010, a cura di Alberto Beniscelli, Quinto Marini, Luigi Surdich, redazione elettronica consultabile al link http://www.italianisti.it/upload/userfiles/files/Marino%20Toni_1.pdf (data consultazione 12 luglio 2019).
  3. Una versione più ampia de Il Diario di Grecia venne pubblicata per Einaudi nel 1974. La riedizione più recente, sempre per Einaudi, è del 2013, cura di Antonio Ria, e contiene anche Le lune di Hvar e altri racconti di viaggio.
  4. Giulia Dell’Aquila, L’Adriatico di Lalla Romano, in Il viaggio Adriatico. Aggiornamenti bibliografici sulla letteratura di viaggio in Albania e nelle terre dell’Adriatico, Atti del I Convegno Internazionale del CISVA, Tirana, 1-2 giugno 2010 Scutari, 3 giugno 2010, a cura di Giovanni Sega, p. 458.
  5. Lalla Romano, Nuovo romanzo di figure, Einaudi, Torino, 1997.
  6. Il viaggio si svolse tra il maggio del 1953 e l’ottobre del 1956.
  7. Guido Piovene, Viaggio in Italia, Bompiani, Milano, 2017, p. 738.
  8. Lalla Romano, Nei mari estremi, Nuova edizione, Einaudi, Torino 1996, p. 75.
  9. Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, A. Mondadori, Milano, 1996, vol. II, p. 2921.
  10. L’influsso della classicità nel Diario di Grecia, oltre che ne La penombra che abbiamo attraversato, è ben indagato nel saggio di Massimo Gioseffi, Didone ritrovata, in Lalla Romano scrittrice a Milano. Atti del Convegno 1 e 8 giugno 2007 – Università degli studi di Milano, a cura di Giuliana Nuvoli, Franco Cesati, Milano Firenze, 2012, pp. 63-89.
  11. Vincenzo Consolo, Et in Arcadia Lalla, in A. Ria (a cura di), Intorno a Lalla Romano. Saggi critici e testimonianze,

    Mondadori, Milano, 1996, p. 223.