Canosa, Ruvo, Bari, Egnazia, Gravina, Altamura, Taranto, Corfù, Lefkada, Itaca

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L’itinerario dei miti e degli eroi è un percorso che, tra racconto mitologico e storia, guiderà il viaggiatore o il lettore attraverso le aree archeologiche della Puglia, lungo la via Appia e le sue deviationes, seguendo gli scritti odeporici di celebri scrittori del passato, come Orazio, e prestigiose firme contemporanee, come Paolo Rumiz, viaggiatori che quella strada hanno percorso e descritto. Le principali tappe saranno Canosa, Ruvo, Bari, Egnazia, Gravina, Altamura e infine Taranto, centro tra i più importanti della Magna Grecia, che vanta uno dei più bei musei archeologici al mondo: il Marta. Seguendo questo itinerario, il viaggiatore sarà invitato infine ad attraversare l’Adriatico per raggiungere le Isole Ionie, che godono di una posizione unica nell’immaginario mitico ed epico occidentale. I poemi omerici, ambientati in questo fascinoso e fantastico mondo insulare, hanno portato nel corso del tempo a sovrapporre all’immagine reale di Corfù quella letteraria dell’isola dei Feaci, e a riconoscere in Itaca la patria del più celebre viaggiatore di ogni tempo: Ulisse. Intere generazioni sono state ammaliate da un viaggio forse mai avvenuto e nonostante le evidenze storico-archeologiche non siano tali da permettere una sicura identificazione delle Isole Ionie come l’effettivo teatro delle peregrinazioni descritte nell’Odissea, «il turista che, appressandosi per mare alla Grecia, oggi vede da lontano Itaca – fa notare Umberto Eco – prova un’emozione omerica». Proponiamo al viaggiatore che seguirà questo itinerario di andare alla ricerca proprio di quelle emozioni omeriche percorrendo queste isole con in mano l’Odissea e guidati da un colto scrittore-viaggiatore settecentesco, Saverio Scrofani, che di questi luoghi ci ha lasciato intense descrizioni, cariche di suggestioni mitologiche e classiche, nel suo libro Viaggio in Grecia.

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Itinerario pugliese
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Itinerario Isole Ionie
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Canosa, Basilica di San Leucio,
(foto di Habemusluigi Luigi Carlo Capozzi – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3989167)

Il nostro itinerario ha inizio in Puglia in compagnia del poeta Orazio, che all’età di 28 anni, nel 37 a.C., insieme a Mecenate, Cocceo e Virgilio, si recò in viaggio da Roma a Brindisi. Anni dopo, il ricordo di quell’esperienza divenne il tema della V satira del primo libro di Saturae del poeta latinoConosciuta come Iter Brundisinum, proponiamo al viaggiatore di seguirne il tragitto. Orazio e i suoi compagni di viaggio raggiungono la Puglia da Benevento e invece di seguire la strada maestra, cioè l’Appia antica, chiamata anche regina viarum, scelgono una via all’epoca ancora secondaria. Con il passare del tempo, questo percorso alternativo, sarebbe diventato una delle strade più importanti del Meridione: l’Appia-Traiana, l’asse viario fatto costruire tra il 108 e il 110 d. C, per volere dell’imperatore romano Traiano.

La nostra prima tappa pugliese è Canosa, a dire di Orazio, una città dove il pane è più duro della pietra e «che è stata fondata un tempo dal valoroso Diomede». («qui locus a forti Diomede est conditus olim»). La figura dell’eroe acheo è legata alla nascita di molti centri pugliesi. La leggenda vuole che al ritorno dalla guerra di Troia approdò su questi lidi e fondò numerose città, tra cui Canosa. I rapporti tra la Puglia e la civiltà greca sono antichissimi, come dimostrano le fondazioni di numerosi insediamenti legati all’universo minoico, miceneo e acheo già a partire dal II millennio a.C. Ciò contribuì alla diffusione di racconti leggendari e mitologici in vario modo legati agli eroi della guerra di Troia. Tra tutti, Diomede è uno dei personaggi più amati, protagonista di romantiche leggende. L’eroe, compagno di Ulisse, dopo essere scampato a una congiura orchestrata dalla moglie per volere di Afrodite, approdò in Daunia e scelse questa terra, che gli dei vollero che chiamasse ‘Terra Felice’ per fondare numerose città. I confini furono tracciati con delle pietre gigantesche che Diomede aveva portato con sé dalla Tracia e, avanzatene tre, le scagliò in mare. Queste divennero altrettanti isolotti, le isole Diomedee, oggi note come isole Tremiti.

Non è solo il mito e la leggenda della sua fondazione ad attestare l’antichità di Canosa, ma anche i numerosi reperti archeologici emersi dal sottosuolo e alcuni dei suoi monumenti più belli. A soli venti minuti dal centro, il viaggiatore potrà visitare, nel Parco Archeologico di San Leucio, i resti di una Basilica paleocristiana immersa in una verdeggiante campagna di ulivi e viti, sorta su un preesistente tempio italico del III secolo a. C., secondo gli studiosi dedicato alla dea Minerva. Tra alte colonne in marmo bianco, sormontate da capitelli ionici e da pulvini bizantini, sono ancora visibili lacerti musivi policromi di pregiata fattura. Dell’antico tempio si può ammirare il capitello corinzio, di rara bellezza, con protome femminile, i rocchi di numerose colonne scanalate e i piedi di un gigantesco telamone.

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Canosa, Capitello figurato nell’area della Basilica di San Leucio
(Foto di Paola Liliana Buttiglione – own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=37652236)

Dopo aver visitato l’annesso Antiquarium, proseguiamo il nostro itinerario, in direzione di Ruvo di Puglia, dove giungono anche Orazio e i suoi illustri compagni di viaggio «stanchi, come chi ha percorso un lungo tratto e reso più difficile dalla pioggia».

A Ruvo, l’antica Rubi, importante centro di sosta lungo la via Appia-Traiana, nuovamente storia antica e mito, i due assi portanti di questo itinerario, si incontrano. La cittadina è un importante centro agricolo della Murgia pugliese e la sua origine risale al tempo dei Peuceti, antica popolazione italica, che si era stanziata in queste terre già a partire dal VII secolo a.C.

Fu municipio romano e la sua importanza è legata alla posizione strategica lungo la via che collegava le zone interne della regione con le città portuali della costa adriatica. Il viaggiatore, giunto fin qui seguendo il viaggio di Orazio, non può lasciare Ruvo senza aver prima visitato il Museo Jatta, non solo per il ricco patrimonio di vasi apuli che ospita, ma anche per la cornice museografica entro cui sono esposti: il neo-classicheggiante Palazzo Jatta. Il Museo è uno dei pochissimi esempi in Italia di una raccolta privata, formatasi tra il 1820 e il 1935, rimasta intatta e allestita secondo il gusto tardo ottocentesco.

Contiene una pregevole collezione di oltre 2000 vasi, rinvenuti nel territorio di Ruvo grazie all’impegno e alle appassionate ricerche archeologiche di Giovanni Jatta e della sua famiglia. Gli Jatta volevano porre fine alla pratica, largamente diffusa nel XIX secolo, di saccheggiare tombe e sepolcreti antichi a fini commerciali e speculativi, per questo iniziarono ad acquistare manufatti sul mercato antiquario e a presiedere campagne di scavo, salvando da tombaroli e contrabbandieri gran parte del patrimonio storico-archeologico del territorio. La preziosa raccolta di famiglia costituisce la collezione del Museo Jatta. Uno dei pezzi più pregevoli del museo si trova nella stanza IV: si tratta di un cratere attico risalente probabilmente al V secolo a.C. Vi è rappresentata una scena delle Argonautiche di Apollonio Rodio, la Morte di Talos. Ed ecco riaffacciarsi il mito. Talos era un gigantesco demone, custode di Creta, che venne ucciso dai Dioscuri, Castore e Polluce, con l’aiuto di Medea, per permettere a Giasone di sbarcare sull’isola, dopo aver conquistato il vello d’oro.

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Ruvo, Museo Jatta, vaso di Talos
(foto di julianna.lees is licensed under CC BY-NC-SA 2.0 )
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Bari, Lungomare Imperatore Augusto, colonna miliare

Il vaso, dal punto di vista artistico eccezionale, anche a dispetto di alcune ridipinture ottocentesche, presenta in primo piano la figura del gigante, ferito a morte, che si accascia sostenuto dai Dioscuri. Il Dio del mare Poseidone e la compagna Anfitrite assistono alla scena, mentre una figura femminile, personificazione di Creta, fugge spaventata per aver perso la protezione del suo custode.

Lasciamo Ruvo, i suoi miti e i suoi tesori archeologici, e proseguiamo il nostro viaggio lungo la via Appia-Traiana per raggiungere Bari, definita sinteticamente da Orazio come città «pescosa».

Il viaggiatore che giunge oggi nel capoluogo pugliese è più facilmente catturato dall’aspetto medievale della città, che invece custodisce i suoi tesori archeologici nel recentemente restaurato Museo archeologico di Santa Scolastica, sul Lungomare Imperatore Augusto, che corre sotto l’antica muraglia cittadina. Qui sono ancora allineati i resti di antiche colonne romane, probabilmente appartenenti ad edifici oggi scomparsi. Tra queste, il viaggiatore potrà imbattersi in una delle colonne miliari proprio della via Traiana, rinvenuta nelle immediate vicinanze. Su di essa è ancora leggibile la scritta dedicatoria in onore dell’imperatore Traiano e l’indicazione della distanza di CXXVIII miglia da Bari e Benevento.

Nel cuore dei vicoli del centro storico, del quale consigliamo comunque di visitare la Cattedrale di San Sabino e la Basilica di San Nicola, il viaggiatore potrà compiere un suggestivo percorso a ritroso nel tempo, visitando le esposizioni allestite nel bel Palazzo Simi – Centro Operativo per l’Archeologia –, in strada Lamberti 1. All’interno di questa dimora rinascimentale si può apprezzare una fitta e serrata stratificazione archeologica sia verticale che orizzontale che mostra, attraverso reperti, utensili e manufatti ceramici, la lunga storia di Bari e delle sue preesistenze archeologiche che ne contraddistinguono il sottosuolo.

Da Bari, il nostro itinerario alla scoperta del patrimonio archeologico e delle storie mitologiche delle città e dei paesi pugliesi ci conduce nei pressi di Monopoli, sulla costa adriatica, dove si trovano i resti di un antico insediamento, risalente all’Età del Bronzo: Egnazia.

Il poeta latino, arrivato in quella che all’epoca era già diventata una fiorente città romana, ironizza sulle leggende del luogo e scrive:

Egnazia, costruita in ira alle Ninfe, ci offrì motivi di risa e di scherzi, giacché desiderava convincerci che l’incenso sulla soglia del tempio si consuma senza fiamma. Ci creda Apella il giudeo, non io: io infatti ho imparato che gli dei conducono vita tranquilla e, se qualche prodigio la natura produce, non sono gli dei irati a mandarlo giù dall’alto tetto del cielo. (Orazio, Satire, I, V)

Egnazia, l’antica Gnathia dei Messapi, conserva ancora oggi i resti delle sue antiche mura, che attirarono l’attenzione anche di un altro illustre viaggiatore, come noi, alla ricerca dell’antico. Passò da questo luogo, sul finire del XVIII secolo, il barone Von Riedesel corrispondente del famoso archeologo Winckelmann, a cui descrisse il sito con queste parole:

[…] si veggono, ancora, le sue antiche mura, che si elevano di qualche palmo dal suolo, e son di pietra da taglio, posto a crudo, ossia senza calce e cemento; inoltre, una tomba antica, una conserva di acqua sotterranea, che può aver servito a dei bagni, e che si riconosce essere stata decorata di stucco; ed infine, un altro edificio sotterraneo, di forma quadrata, con un’apertura in ogni angolo, probabilmente, per dargli luce ed aria. Io lo credo, del pari, una conserva d’acqua, essendo necessarii simili edificii in un paese di pianura come questo, nel quale mancano buone sorgenti, e nel quale bisogna ricorrere all’acqua piovana. (H. Von Riedesel, Viaggio attraverso la Sicilia e la Magna Grecia)

Ancora oggi il viaggiatore potrà apprezzare le rovine di Egnazia, un tempo importante civitas foederata romana, poi municipium, situato lungo la via Traiana, entro la sua scenografica posizione difronte al mare. La città romana conobbe il suo massimo sviluppo a cavallo tra il II e III secolo d. C.

È ancora perfettamente leggibile l’asse viario lastricato della via imperiale, ai cui lati sorgevano le botteghe, il foro, le basiliche civili e una vasta aria santuariale di epoca augustea.

La zona è stata oggetto di numerose campagne di studio e scavi archeologici e, dal 2016, sono stati aperti al pubblico numerosi percorsi, che permettono di visitare la città supportati da moderne tecnologie multimediali. I reperti provenienti dagli scavi di Egnazia sono oggi conservati nel vicino Museo Nazionale Giuseppe Andreassi.

Il viaggiatore, dopo questa passeggiata archeologica, potrebbe, se la stagione lo permette, concedersi un tuffo nelle limpide acque dell’Adriatico che lambiscono, a volte pericolosamente, l’area archeologica ‘invisa alle Ninfe’. Molti stabilimenti balneari attrezzati si susseguono lungo questo tratto di costa.

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Scavi di Egnazia
(foto di SilviaS75 is licensed under CC BY-SA 3.0)
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Il tratto della via Traiana che passa da Egnazia
(foto di Steve Jay from Amberley, West Sussex, England – Remains of the Roman Road at Egnazia, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3903019)

A questo punto del nostro itinerario, lasciamo il poeta e la sua comitiva procedere verso Brindisi, mentre noi devieremo il nostro percorso verso le zone interne della regione per raggiungere Taranto, riallacciandoci al tracciato originario della via Appia.

Se Orazio può essere considerato, tra gli scrittori antichi, uno dei più illustri viaggiatori di Puglia, in tempi molto più recenti, nel 2015, un altro famoso scrittore e affermato giornalista, Paolo Rumiz ne ha idealmente raccolto il testimone. Questi ha percorso a piedi, insieme a un gruppo di amici, la via Appia antica da Roma a Brindisi, in parte ricalcando l’iter brundisinum oraziano, ma, diversamente dal poeta, restando fedele al tracciato stradale più antico. Il racconto di questo incredibile viaggio è diventato un libro, intitolo Appia, che, accogliendo l’augurio del suo scrittore, abbiamo scelto di utilizzare come guida durante le ultime tappe pugliesi di questo viaggio sulle strade dei miti e degli eroi.

Il tragitto che proponiamo al viaggiatore è quello che da Gravina porta a Taranto, ripercorrendo esattamente il tracciato di una delle strade più importanti dell’antichità, un cammino che può ambire a diventare il Cammino di Santiago italiano e che Rumiz «come un pifferaio magico» ci invita a seguire sia con le gambe che con l’immaginazione.

Lo scrittore arriva in Puglia, dopo aver attraversato il Lazio e la Campania, dal confine con la Basilicata e così scrive:

Dalla Basilicata alla Puglia un lungo andare nel silenzio, fra panorami e infinite e nude distese a seminativo. […] Scampoli di tratturo Tarantino-Appia Antica conducono su e giù verso Gravina, gioiello che prende il nome dal canyon inserito nel Parco nazionale dell’Alta Murgia. Sul lato del burrone opposto a quello dell’attuale città, nel sito di Botromagno, che fu colonizzato dai Peuceti, i Romani avrebbero costruito la stazione di Silvum. (P. Rumiz, Appia)

Consigliamo al viaggiatore di fare tappa in questo paese, costruito sui versanti di un profondo burrone, dalle caratteristiche paesaggistiche uniche, per scoprirne le numerose cripte, chiese rupestri e i suoi monumenti.

Lasciamo a Paolo Rumiz il compito di descriverci questo luogo così suggestivo:

Sull’orlo del precipizio che le dà il nome, Gravina emerge in fondo a una lunga spianata stepposa tipo Arizona. Il contrasto fra la luce calcinata della città e l’ombra smisurata del burrone è impressionante. […] Ma quello che fa la vera differenza è che Gravina è una città in negativo: scavata nella pancia del tufo più che costruita attraverso muri maestri. […]

Il solido tufo di Gravina fa sì che il segno dell’Appia si perda in un labirinto di tracce di carriaggi e antichi marciapiedi. […]

Sulle mappe antiche il nome attuale della città non esiste. Al suo posto, nell’itinerario dell’Appia è segnata Sylvium. Ma Gravina, secondo alcuni, non ha nulla a che fare con questa. E allora Sylvium dov’è? (P. Rumiz, Appia)

Per rispondere a questa domanda il nostro giornalista-viaggiatore interpella esperti di archeologia che gli rivelano che, con ogni probabilità, il paese odierno è il dirimpettaio dell’antica Sylvium, a sua volta erede di un centro greco chiamato Sidinon, termine che deriva dalla parola greca «Side» che significa melagrana. Su alcune monete, rinvenute nella collina ad ovest della profonda gravina che taglia in due l’abitato, è leggibile proprio questo toponimo. Conviene allora dirigersi, in compagnia di Rumiz, su questa altura, chiamata Botromagno. Sebbene l’area archeologica sia rimasta fortunosamente intatta, poiché l’abitato medievale e moderno di Gravina si è sviluppato sull’opposto versante del burrone, il sito è difficilmente raggiungibile e visitabile.

«Gravina – ci dice Rumiz – è una città verticale, un condominio rupestre con le case dei ricchi in alto e quelle dei poveri in basso. Ma ecco che proprio questa città termitaio ha la particolarità unica di avere le sue stratificazioni storiche in orizzontale. Una di fronte all’altra, anziché una sopra l’altra, come normalmente succede». E continua:

Botromagno, oltre la gola, sembra impersonare il “doppio” sepolcrale della città dei vivi. “Botros” per i Greci era nient’altro che il canyon, per cui il toponimo – per dirla con il Signore degli Anelli – può essere efficacemente tradotto con “Gran Burrone”. Ma “burrone” è esattamente come dire “gravina”, parola antichissima derivante dall’accadico “Grab” – fossa, tomba –, tuttora usata nel tedesco, ma con in più una connotazione sacra legata alle acque. (P. Rumiz, Appia)

Il viaggiatore in visita a Gravina non potrà fare a meno di notare come il territorio circostante sia avvolto da un’aura vagamente sepolcrale, conferitagli dalle numerose grotte adibite a necropoli e dai sepolcreti antichi presenti lungo i fianchi del burrone. E, se sarà fortunato, potrà imbattersi in qualche abitante del paese pronto a raccontargli le storie e le leggende che popolano queste rocce. Paolo Rumiz incontrò Pino che gli narrò di come gli anziani del paese credessero che in quel luogo abitassero ancora demoni antichi. Scrive Rumiz:

Quando passo lì accanto la sera, sento voci, vedo fiaccole alle finestre, dice Pino, ricordando che Gravina è luogo di abitazione e di culto da tempo immemorabile. Mio nonno disse che una notte aveva udito urla umane e un rombo di carri e cavalli al galoppo. Era corso dal parroco a raccontare la visione e quello gli aveva dato alcune effigi benedette per proteggersi dai demoni. Ebbene pochi giorni dopo, proprio in quel luogo, furono trovate due tombe greche, e nessuno tolse dalla testa al nonno l’idea che le grida fossero uscite da quella finestra sull’Ade. (P. Rumiz, Appia)

Lasciamo Gravina, le sue grotte e le sue storie, per proseguire il nostro itinerario lungo la via Appia sui passi di Rumiz che, attraversando la Murgia, passa da Altamura, secondo alcuni studiosi l’antica città di Blera, prossima tappa del nostro percorso. Il giornalista mette in guardia il viaggiatore su quanto sia difficile percorrere questo tratto di strada a piedi:

Se c’è un luogo dove sul tracciato dell’Appia non ci sono dubbi, ce lo abbiamo davanti. Lo dicono gli itinerari romani, la Tabula Peutigeriana, le carte IGM del secondo dopoguerra. […] Scavalchiamo le recinzioni, rimontiamo i terrapieni e camminiamo contromano tra i guardrail come lagunari, sfiorati da automobilisti allibiti. […] Ecco dove l’archeologia diventa intralcio per l’italico potere cementizio. Per questo, anche in Apulia, l’Appia è apertamente ignorata dai sindaci e dai loro tirapiedi. Più comodo far finta che non ci sia. (P. Rumiz, Appia)

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Tavola Peutigeriana, probabilmente la più antica mappa stradale del mondo, è una copia medievale di un’antica carta romana che mostrava le vie dell’Impero. È attualmente conservata presso la Hofbibliothek di Vienna in Austria.
(Nel particolare riprodotto in immagine, vediamo la Puglia, la Calabria e la Sicilia)
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Altamura, Cattedrale
(Foto di: Untalented Guy – https://www.flickr.com/photos/129044258@N06/34134875561/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=58996479)

Il viaggiatore, che sta seguendo questo itinerario a piedi, in treno o con altro mezzo, una volta arrivato ad Altamura resterà affascinato da questo centro popolato sin dalla Preistoria. Proprio nell’agro di questa ricca cittadina agricola è stato rinvenuto il primo e unico scheletro di ominide preistorico integro e completo, conosciuto come l’Uomo di Altamura

Consigliamo una visita del centro storico del paese con la sua maestosa Cattedrale e infine una passeggiata tra le strette vie e i suoi claustri che così descrive Rumiz:

Altamura vecchia è acustica del labirinto allo stato puro. Trillo biforcuto di rondoni, solitario canto greco di donna, fruscio di panni stesi. Luce violenta, che ti spinge a parlare sottovoce anziché a gridare più forte. Passeri che tacciono, aspettando la sera. Enormi nubi immobili nonostante il vento. […] Il genius loci aborre il rombo dei rettilinei e si rintana nei “claustri”, piazzette nascoste, dove regna un borbottio claustrale, da accademia talmudica. Diverticoli che ripetono il motivo del grembo femminile. Altamura è una “polis” in miniatura, che si rintana in mille viottoli. Non guarda all’esterno, ma verso il proprio centro. (P. Rumiz, Appia)

Dalla labirintica Altamura, con i suoi claustri, piccoli cortili in cui spesso vengono ancora allestite edicole votive, e che si aprono improvvisamente tra gli stretti vicoli, riprendiamo il cammino in direzione di Taranto.

Il nostro percorso che segue quello dello scrittore, che è diventato la nostra guida sulla via Appia, prosegue tra le terre a cavallo tra Puglia e Basilicata. Dopo aver attraversato i comuni di Laterza e Castellaneta, si comincia finalmente a intravedere il mare Jonio e purtroppo anche l’Ilva, l’enorme stabilimento siderurgico che sorge alle porte di Taranto.

Così racconta il suo arrivo nella città Paolo Rumiz:

[…] oltre una distesa di agrumeti, al termine di un lungo piano inclinato, appare la striscia cobalto dello Jonio, il più greco dei mari. E, poco a sinistra, sotto una massa di nubi portatrici di pioggia, un’altra visione. Inquietante. Una cresta dentata che fuma, come quella di uno stegosauro, trapassata dai fulmini, immensa eppur lontanissima. L’Ilva.

Ci aspetta sornione, a fauci spalancate, in fondo alla nostra strada. Si è disteso apposta sul cammino dell’Appia Antica col corpo smisurato e la pancia abitata dal fuoco perenne. Tra noi e Taranto è l’ultimo ostacolo. Un passaggio obbligato, come la Sfinge dei Greci, come il Maligno appostato sui ponti delle fiabe. (P. Rumiz, Appia)

Anche il viaggiatore che sta seguendo questo itinerario, prima di poter apprezzare le bellezze del capoluogo jonico, dovrà superare la «Sfinge», oltrepassare la coltre di fumi che avvolge la città, che un tempo era il capolinea della via Appia, prima che Brindisi ne diventasse il terminale. Con ogni probabilità dovrà aggirare le palazzine rossicce abbandonate del rione Tamburi, dove alloggiavano gli operai dello stabilimento siderurgico che, da miraggio di sviluppo e benessere, si è presto rivelato un pericolosissimo incubo per la popolazione e per l’ambiente. Ma Taranto non è solo l’Ilva. La città, con la sua scenografica posizione su un’insenatura naturale di acque ancora cristalline, potrà stupire il viaggiatore, come stupì Rumiz che scrive:

Ma ecco Taranto Vecchia, aggrappata all’isolotto che fa da intercapedine tra il Mar Grande e il Mar Piccolo. Reti colorate alla greca, odore di pescheria di una volta, vicoli più autentici che a Sorrento, popolane sfrontate, case che il tempo ha lasciato invecchiare in pace. […] Sul lato della città nuova, due poderose colonne doriche, di gran lunga anteriori alla tracciatura dell’Appia, snobbano il presente voltando le spalle all’acciaieria e dicono che la storia di Taranto che conta è tutta anteriore al dominio romano. Taranto significa una grande epopea ignorata. (P. Rumiz, Appia)

Questa epopea tarantina, secondo la leggenda e il mito, ebbe inizio intorno al 2000 a. C., quando Taras, figlio di Poseidone, sarebbe giunto in città a dorso di un delfino. Secondo Strabone, geografo e storico greco vissuto alla fine del I secolo a.C., fu un gruppo di Spartani guidati da Falanto a fondare Taranto nel 708 a.C.

Negli ultimi decenni del IV secolo, la città era una delle più potenti e floride colonie della Magna Grecia, come testimoniano le esportazioni di vasi e ceramiche in tutto il Mediterraneo e i numerosi capitali che vennero mobilitati per erigere incredibili opere d’arte e raffinati prodotti di oreficeria, oggi esposti al Marta , una delle eccellenze museali italiane ed europee.

Entriamo tra le sue sale seguendo il racconto di Rumiz:

[…] è vietato andarsene da Taranto senza aver visto il museo archeologico. All’ex-convento dei frati alcantarini si deve andare semplicemente perché ce lo ordina la bellezza, e la bellezza se ne frega se Roma è distratta e lontana, se a Taranto non arriva nessun Frecciarossa e non c’è aeroporto. […]

In quelle sale venerabili abita una delle meraviglie d’Europa. Un’antichità che non è marmo freddo ma scintillio di ori e argenti, gioielleria greca sepolta e riemersa dalle necropoli del IV e III secolo avanti Cristo. Taranto delle grandi botteghe degli orafi, Taranto trionfo di un universo femminile che Roma è ancora lontana dal concepire. Taranto dagli orecchini a navicella tintinnanti di pendagli, dalle foglie d’alloro e dai petali rosa in lamina d’oro zecchino. Taranto degli anelli, dei monili, delle teste di leone, fucina di smalti favolosi, cristalli di rocca, granulati d’oro, anelli, cammei e raffinati sigilli. (P. Rumiz, Appia)

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Stabilimento dell’Ilva di Taranto
(foto di Jacopo Werther is licensed under CC BY-SA 2.0 )
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Taranto, Colonne doriche del Tempio di Poseidone
(Di Livioandronico2013 – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30324726)
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Antica moneta tarantina, recante il toponimo Taras
(GFDL con disclaimer, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1211605)
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Taranto, Marta, Diadema in oro
( foto di Francesco Giusto photography – Flickr, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20018732)
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Taranto, Marta, testa femminile
(foto di Maria – Flickr, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20263809)
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Corfù, Vecchio Forte Veneziano
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Corfù, Paleokastrizza
“DSC_6083” by almekri01 is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

Al viaggiatore adesso, dopo aver ammirato gli splendori del passato di Taranto custoditi al Marta, non resta che proseguire il suo cammino lungo la via Appia per raggiungere Brindisi che con il suo porto è ancora oggi, come in passato, uno dei punti d’imbarco per eccellenza verso l’Oriente e la Grecia. Su uno dei traghetti, che collegano la città dell’Alto Salento alla Grecia, lasciamo la Puglia per approdare nelle Isole Ionie. La traversata non durerà che una notte e, all’alba, il viaggiatore potrà scorgere da lontano l’isola da sempre identificata come la Scheria dei Feaci: Corfù. Non una notte ci mise invece Ulisse per raggiungerla, ma 18 giorni, dopo aver lasciato la bella Calipso ad Ogigia.

Con in mano l’Odissea, nella poetica traduzione di Ippolito Pindemonte, letterato e poeta dalle solide basi classiciste, ma vicino alla sensibilità pre-romantica, vissuto a cavallo tra XVIII e il XIX secolo, l’arrivo a Corfù di Ulisse ci introdurrà nella dimensione omerica di questa ultima parte dell’itinerario.

Lieto l’eroe dell’innocente vento,

La vela dispiegò. Quindi al timone

Sedendo, il corso dirigea con arte,

Né gli cadea su le palpèbre il sonno

Mentre attento le Pleiadi mirava,

E il tardo a tramontar Boòte e l’Orsa

Che detta è pure il Carro, e là si gira,

Guardando sempre in Orïone, e sola

Nel liquido Oceàn sdegna lavarsi

L’Orsa, che Ulisse, navigando, a manca

Lasciar dovea, come la diva ingiunse.

Dieci pellegrinava e sette giorni

Su i campi d’Anfitrite. Il dì novello

Gli sorse incontro co’ suoi monti ombrosi

L’isola de’ Feaci, a cui la strada

Conducealo più corta, e che apparìa

Quasi uno scudo alle fosche onde sopra.

(Odissea, V, 346-361.)

In questi versi possiamo seguire Odisseo felice al timone della sua zattera che si orienta attraverso le stelle, come consigliato dalla bella Calipso, tenendo sempre a sinistra il Carro, l’unica stella che non cambia mai posizione. Il diciottesimo giorno, ecco apparire i monti ombrosi dell’isola dei Feaci.

L’arrivo sulle coste greche ha sempre suscitato un’incredibile emozione negli scrittori di ogni epoca, che soprattutto a cavallo tra illuminismo e romanticismo, elessero la Grecia a ideale patria della cultura occidentale. Leggiamo ad esempio l’emozione del prolifico intellettuale siciliano Saverio Scrofani, quando intravide all’orizzonte le Isole Ione, nel corso di un viaggio del 1794, nato sulla scia del Grand Tour illuminista, ma con uno sguardo alla Grecia antica che «anticipa l’adesione lirica che il mito dell’Ellade conoscerà nei grandi romantici europei». (R. Nicolì, Introduzione a Viaggio in Grecia di Saverio Scrofani, Biblioteca digitale di Polysemi)

Così scrisse:

Finalmente, dopo otto giorni di navigazione, ecco le Montagne dell’Epiro, ecco gli scogli Acrocerauni, ecco Corfù. A questi nomi mille idee mi si affollarono in mente: Alessandro, Pirro, Nausica, Alcinoo, Ulisse occuparono ad un tratto la mia fantasia: io non mi stancava di riguardare da lontano quelle rocche e quei monti così famosi. (S. Scrofani, Viaggio in Grecia, Lettera V)

Ancora oggi il viaggiatore potrà, arrivando a Corfù in nave, osservare il profilarsi delle montagne albanesi all’orizzonte – che emozionarono Scrofani e che ci piace immagine siano gli stessi ombrosi monti che intravide Ulisse– e, entrando nel porto, lo sguardo sarà catturato dalla mole del Vecchio Forte veneziano con i suoi bastioni sul mare.

Quando approdò su questi lidi, Ulisse incontrò la bella Nausicaa che lo condusse in città nella reggia del padre Alcinoo, re dell’isola. Sono molti i luoghi qui che si contendono il primato di essere stati il teatro di questo primo incontro, tra tutti segnaliamo al viaggiatore, sulla costa occidentale, a circa una trentina di chilometri dalla città di Corfù, Paleocastrizza e, sulla costa orientale, la baia di Kanoni.

Una volta sbarcato a Corfù, al viaggiatore non rimane che cominciare ad aggirarsi per Kerkyra, centro principale dell’isola, nel tentativo di riconoscervi la città dei Feaci.

Così è descritta nell’Odissea:

È la città da un alto

Muro cerchiata, e due bei porti vanta

D’angusta foce, un quinci e l’altro quindi,

Su le cui rive tutti in lunga fila

Posan dal mare i naviganti legni.

Tra un porto e l’altro si distende il foro

Di pietre quadre, e da vicina cava

Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo

L’antico tempio di Nettun si leva.

(Odissea, VI, 366-373)

Nulla rimane, né a Kerkyra né nelle altre cittadine dell’isola, delle alte mura cantate in questi versi o del foro lastricato e tantomeno del tempio di Nettuno, al punto che il colto viaggiatore siciliano Scrofani fece fatica a nascondere la delusione e scrisse:

[…] dove son dunque i resti della reggia e de’ giardini d’Alcinoo? Non si vede più nulla. Il tempo distrugge, è vero, le fabbriche e le coltivazioni; ma le fonti, ma i fiumi che le irrigavano dove sono? Temo che tutte le bellezze e le magnificenze d’Alcinoo, le porte d’oro, le mura d’argento, i chiodi di gemme, non siano un effetto della fantasia d’Omero come le statue ch’ei fa lavorare per lo scudo d’Achille. Se si vuole prestar fede al racconto del poeta, qui presso era il luogo dove Ulisse fu rigettato dalla tempesta; qui ha dovuto nascondersi e qui mostrarsi nudo alla figlia del re. Ecco la fonte dove Nausica lavava i panni quando il re d’Itaca le si scoperse, quando ella se ne innamorò, quando le sue ancelle lo rivestirono dopo aver in un segreto abboccamento ottenuta la protezione della padrona. Ma come è possibile che Ulisse, giunto in Feacia, non sapesse riconoscere le montagne dell’Epiro che le stanno in faccia, né la stessa Leucade che doveva quasi scoprire co’ propri occhi? Di più: Ulisse, un re, un viaggiatore, un eroe che ritorna dopo aver distrutto il regno di Priamo, ignora poi qual popolo abiti in quell’Isola e quali sieno i Feacesi? Eppure Corfù non è distante che 100 miglia da Itaca. Misero colui, che ardisse oggigiorno scrivere un poema su questo gusto. Che dico? Felice chi potesse solamente imitarlo. (S. Scrofani, Viaggio in Grecia, Lettera X)

Poco importa forse se il viaggiatore giunto a Corfù non vi scorgerà, come accadde a Scrofani, le tracce della reggia di Alcinoo, l’isola e la città riusciranno comunque ad incantarlo con il loro fascino veneziano e orientale, con gli incredibili scorci paesaggistici e le belle spiagge.

Esiste un altro luogo strettamente legato al racconto omerico: l’isolotto di Pontikonissi, pochi chilometri a sud del centro di Kerkyra. Secondo una tenace tradizione si tratterebbe della nave con cui i Feaci riportarono Ulisse ad Itaca. Si racconta che, per vendetta, Poseidone pietrificò e affondò qui l’imbarcazione, quando questi fecero ritorno in patria.

Nei versi del libro XIII dell’Odissea, qui di seguito riportati, è descritto il momento in cui il Dio del mare, dopo essersi consultato con Zeus, opera il prodigio e, avvicinandosi alla nave, con un solo tocco di mano la trasformò in pietra, tramutandola in quella che la leggenda vuole sia oggi proprio lo scoglio di Pontikonissi:

“[…] quando

I Feacesi scorgeran dal lido

Venir la nave a tutto corso, e poco

Sarà lontana, convertirla in sasso

Che di naviglio abbia sembianza, e oggetto

Si mostri a ognun di maraviglia; e in oltre

Grande alla lor città montagna imporre”.

Lo Scuotiterra, udito questo appena,

Si portò a Scheria in fretta, e qui fermossi.

Ed ecco spinta dagl’illustri remi

Su per l’onde venir l’agile nave.

Egli appressolla, e convertilla in sasso,

E d’un sol tocco della man divina

La radicò nel fondo. Indi scomparve.

(Odissea, XIII, 188-201)

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Guido Reni, Ulisse e Nausicaa, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
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Corfù, isolotto di Pontikonissi
(foto di Sascha Askani, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=204175)
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Pontikonissi e il Monastero della Vlacherna veduta

Il viaggiatore deciderà se credere o meno a questa leggenda, tuttavia è un’esperienza assolutamente consigliabile visitare questa alta scogliera sul mare, circondata da un boschetto di cipressi, raggiungibile in barca dal molo su cui sorge il bianco Monastero della Vlacherna del XVII secolo.

Prima di lasciare Corfù e proseguire l’itinerario in direzione dell’isola di Lefkada e infine verso la ‘petrosa’ Itaca, consigliamo al viaggiatore di visitare la Villa Mon Repos che ospita un’interessante collezione archeologica con i reperti provenienti dall’antica area di Paleopolis e il Museo Archeologico situato in via Vraila Armeni n.1. Qui, tra gli altri interessanti ritrovamenti, è conservato ed esposto il frontone di un tempio arcaico, dedicato alla dea Artemide, che reca scolpita un’impressionante figura mitologica, quella di una delle Gorgoni, secondo il poeta e scrittore britannico Lawrence Durrell, la celebre Medusa.

Qui a Corfù, si racconta di un’altra terrificante donna della mitologia classica, Medea che sull’isola convolò a nozze con Giasone, l’eroe viaggiatore che insieme agli Argonauti peregrinò lungo tutto il Mediterraneo alla ricerca del vello d’oro. Secondo la mitologia fu proprio Alcinoo, il re dei Feaci, ad accogliere sull’isola Medea e Giasone e a far sì che si sposassero regolarmente. Alle nozze seguì un’intensa notte d’amore. Ed è proprio durante quella notte che inizia il celebre film di Pasolini, interpretato da Maria Callas, intitolato: Medea.

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Kerkyra, Museo archeologico, frontone del tempio di Artemide
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Gustave Moreau, Medea e Giasone, Parigi Museo d’Orsay
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A-J. Gros, Saffo a Leucade
(di Antoine-Jean Gros – Web Gallery of Art: Image Info about artwork, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15462031)

Al viaggiatore adesso non resta che seguire l’esempio di Ulisse e proseguire il viaggio. Nonostante le bellezze di Corfù invitino trattenersi, è giunto il momento di salpare e proseguire il nostro itinerario dei miti e degli eroi in direzione di Lefkada, approfittando dei collegamenti via mare che collegano le Isole Ionie. Lungo la nostra rotta ci imbatteremo nei due piccoli isolotti di Paxos e Antipaxos. Non è neanche necessario toccare terra per imbatterci nuovamente in miti e storia. Proprio poco lontano dalle acque che stiamo navigando si è combattuta una delle battaglie più famose del mondo antico, la battaglia di Azio, dove si infransero i sogni d’amore e di potere di Antonio e Cleopatra. Leggenda narra che i due amanti banchettarono a largo di questi isolotti, proprio alla vigilia dello scontro fatale. Questo tratto di mare Ionio è anche un gioiello di biodiversità, dove è possibile ammirare alcune rare specie marine come la tartaruga embricata e la foca monaca.

Arriviamo a Lefkada, chiamata dai Veneziani Santa Maura. Oggi l’isola è famosa per le sue spiagge incontaminate e per essere una delle mete preferite da camminatori ed escursionisti.

Oltre che per le sue bellezze naturali Lefkada è celebre, nell’immaginario classico e romantico, per le bianche scogliere, immortalate da pittori e cantate da molti poeti, da dove la poetessa Saffo decise di gettarsi in mare per porre fine al suo tormentato amore con Faone.

Ne scrive, chiaramente emozionato, Saverio Scrofani nella relazione del suo viaggio in Grecia del 1794, composta sotto forma di resoconto epistolare e pubblicata nel 1799:

Al far del giorno ci trovammo in faccia a’ famosi regni d’Ulisse: questa è Leucade, quella è Itaca, quella è Ceffalonia, quello è il Zante. Ecco il capo Colonna e le ruine del tremendo tempio d’Apollo. […] dall’alto di quello scoglio che sto osservando co’ propri occhi, che biancheggia da lontano e spaventa, in quel mare profondo che si frange a’ suoi piedi, funesto sempre a’ nocchieri e sempre agitato, si precipitò e perì ebria d’amore, di dispetto, di noia la divina, la sensibile, l’appassionata Saffo. E i Sacerdoti, gl’interpreti, i ministri de’ numi avevano inventato quest’assassinio? E i numi che amavano l’umanità e l’innocenza, i numi che punivano le altrui sceleraggini lasciarono sussistere per più secoli quest’esempio della lor tirannia e della loro impotenza? O come ti vedrei volentieri, Faone, in mezzo a Tizio ed a Sisifo pagar la pena della tua durezza: ti vedrei rodere… Ma questo rimprovero è sicuramente un’ingiustizia, un effetto della mia fantasia riscaldata. Qual colpa ebbero Faone, i preti, i numi? L’uno non poté amar Saffo, e quando non si può non v’ha colpa; gli altri la tolsero dagli affanni che soffriva amando chi non l’amava: in effetto la morte è il solo efficace rimedio per un amore non corrisposto. Alle porte d’ogni città, si dovrebbe trovare un salto di Leucade: gli amanti disperati ritornerebbero saggi o finirebbero di penare, e i governi sarebbero più tranquilli. (S. Scrofani, Viaggio in GreciaLettera XI)

Si racconta che gli antichi credevano che si potessero raggiungere direttamente gli Inferi saltando da queste scogliere o almeno il fiume Acheronte. In realtà, stando a Strabone, pare che il tuffo dalla rupe di Lefkada fosse una pratica abbastanza comune nell’antichità classica e che i sacerdoti di Apollo lo eseguissero regolarmente. Il salto, che probabilmente aveva anche una qualche funzione propiziatoria, veniva chiamato Katapontismos.

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Rupe di Leucade
(foto di almekri01 is licensed under CC BY-NC-ND 2.0)
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Itaca, Vathy, foto partner
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Itaca, sentiero per la fonte Aretusa
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Itaca, spiaggia di Dexa

Lasciamo le sue romantiche scogliere di Saffo per raggiungere la sospirata meta del viaggio di Ulisse e l’ultima tappa del nostro itinerario.

Itaca, nei versi 26-33 del canto IX dell’Odissea, è sinteticamente descritta: domina il paesaggio l’alto monte Nerito, su cui si infrangono i venti, è circondata dalle isole vicine più spostate ad Oriente, come la rigogliosa Zacinto. La terra è aspra e montuosa, ma buona nutrice di giovani:

[…] dove

Lo scotifronde Nérito si leva

Superbo in vista, ed a cui giaccion molte

Non lontane tra loro isole intorno,

Dulichio, Same, e la di selve bruna

Zacinto. All’orto e al mezzogiorno queste,

Itaca al polo si rivolge, e meno

Dal continente fugge: aspra di scogli,

Ma di gagliarda gioventù nutrice.

(Odissea, IX, 26-33)

Non ci resta che consigliare al viaggiatore che voglia immergersi nella dimensione omerica dell’isola alcune escursioni. Spostandosi di circa 10 km a sud di Vathy, il centro principale di Itaca, nei pressi del villaggio di Anemothouri, ci si può imbattere nella vera o presunta fonte Aretusa, cioè dove nell’Odissea si racconta che Ulisse incontrò il fidato servo Eumeo, che era solito andare lì a far abbeverare i maiali.

Il percorso, sebbene non sempre agevole, riserva panorami e scorci molto suggestivi. Un semplice cartello blu indica il sito dove si trova la fonte.

Un altro luogo che suggeriamo di visitare è l’anfratto naturale, vicino alla rinomata spiaggia di Dexa, noto come la grotta delle Ninfe, «la convessa spelonca», dove l’eroe compiva sacrifici in onore delle divine creature. Qui ci si può anche improvvisare novelli Indiana Jones alla ricerca dei tesori che si dice Ulisse abbia nascosto nei pressi della grotta. Il viaggiatore, se vorrà, leggendo i versi dell’Odissea che cantano questo luogo, potrà riconoscerne il paesaggio, caratterizzato dalle fronde degli ulivi che ancora oggi impreziosiscono questo tratto della costa itacese sacro alle Ninfe dette Naiaidi che qui, tra anfore e vasi dove le api producono il miele, tessevano su telai di marmo drappi color porpora di incredibile bellezza.

Così cantò Omero:

[…] Spande sovra la cima i larghi rami

Vivace oliva, e presso a questa un antro

S’apre amabile, opaco, ed alle ninfe

Nàiadi sacro. Anfore ed urne, in cui

Forman le industri pecchie il mel soave,

Vi son di marmo tutte, e pur di marmo

Lunghi telai, dove purpurei drappi,

Maraviglia a veder, tesson le ninfe.

(Odissea, XIII, 126-132)

In fine, non rimane che dirigerci sul monte Aetos, nei pressi del piccolo villaggio di Alalkomenés. Su questa cima, il celebre archeologo Heinrich Schliemann, colui che con in mano l’Iliade riuscì a ritrovare la città di Troia, si persuase di essere riuscito a trovare anche i resti della reggia di Ulisse. Non esistono ancora evidenze archeologiche tali da confermare questa ipotesi, ma sulla base di recenti scavi, un’altra località di Itaca si è candidata ad essere il sito dove si troverebbe il palazzo dell’eroe greco.

Nei pressi del piccolo villaggio di Stavròs, sulla collinetta di Pelikata, nella parte settentrionale dell’isola, tra colline coperte di ulivi e coltivate a viti, vicino a un piccolo museo archeologico, sono stati identificati i resti di un palazzo dalle mura ciclopiche di epoca micenea che, ci piace immaginare, abbia, un tempo lontano, potuto ospitare, se non Ulisse e la fedele Penelope, sicuramente qualche nobile guerriero o aristocratico.

Come probabilmente starà facendo il viaggiatore, anche il colto scrittore siciliano settecentesco, di cui stiamo seguendo in parte l’itinerario, Saverio Scrofani, davanti alle rovine di Itaca, non può fare a meno di porsi questi interrogativi:

Qui dunque visse, quell’uomo eloquente, e in conseguenza artificioso, che dopo aver fatto il pirata fra questi scogli infecondi, fu poi cagione in Asia della strage e del pianto di migliaia d’uomini e di cui Omero ha fatto un eroe? Qui i Proci assediavano Penelope, qui visse Telemaco, qui Mentore filosofava, qui scese Minerva a proteggere Ulisse, a conversare con lui? (S. Scrofani, Viaggio in Grecia, Lettera XI)

 

Lasciamo a conclusione di questo nostro itinerario, come suggerisce Scrofani, che «I geografi, e gl’istorici ne disbrighino la questione fra loro», poiché, parafrasando alcuni versi del poeta greco Kostandinos Kavafis, siamo certi che pur senza avere le risposte ai nostri dubbi omerici:

[…] non per questo Itaca ti avrà deluso

Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso

già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

(K. Kavafis, Itaca)