Canosa, Molfetta, Bari, Mottola, Corfù, Kassiopi.

[Tedesco

[Spagnolo]

In questo itinerario invitiamo il viaggiatore a vestire idealmente il bordone del pellegrino o, più laicamente, a farsi viandante, per percorrere il tratto pugliese di quella strada ricca di storia, arte e cultura, nota come via Francigena del sud o Via Sacra Longobardorum. Seguendo quello che era il tracciato di una vecchia consolare romana mai totalmente abbandonata, la via Appia-Traina, raggiungeremo le città portuali della regione, da sempre importanti punti d’imbarco, lungo tutto il Medioevo, per pellegrini, crociati, templari o mercanti che volevano raggiungere il favoloso Oriente. Sui loro passi, guidati dai loro racconti e dai loro diari di viaggio, faremo infine rotta verso le Isole Ionie, tappa di passaggio quasi obbligata per chi, in passato, navigava in direzione o di ritorno dalla Terrasanta o dai ricchi mercati orientali.

Gli itinerari che dall’Occidente conducevano Oltremare, in particolare a Gerusalemme, hanno disegnato, nel corso del tempo, percorsi che sono insieme materiali, spirituali e culturali, un sistema di vie d’acqua e di terra che attraversano l’Europa e il Mediterraneo, al cui centro si trovano proprio la Puglia e le Isole Ionie, con i loro approdi e luoghi santi.

L’itinerario che ci accingiamo a percorrere lungo il tratto meridionale della Via Francigena non è solo un cammino di fede, ma il percorso di una delle principali rotte della cultura mediterranea; seguendola potremo scoprire come natura, storia e patrimonio artistico concorrono a rendere questo viaggio non un viaggio, ma tanti viaggi, come scrisse Cesare Brandi, raffinato viaggiatore, letterato, storico dell’arte, che con i pellegrini del passato, ci accompagnerà alla scoperta di queste terre.

Consigliamo al viaggiatore di iniziare il proprio cammino, come facevano i pellegrini medievali, in primavera, come scrive il celebre poeta inglese del XIV secolo Geoffrey Chauser, nel prologo dei Canterbury Tales:

San Marino, California, Huntington Library, The Ellesmere Chaucer
(MS EL 26 C 9) Ritratto di G. Chauser in veste di pellegrino, XV sec.
Quando pioggia d’aprile ha penetrata

l’aridità di marzo e impregnata

ogni radice e vena dell’umore

la cui virtù ravviva ogni foglia e fiore;

e in folto di brughiere e boschi spogli

Zeffiro ingemma teneri germogli

con mite soffio, e metà del corso

il sole nell’Ariete ha già percorso,

e quando gli uccelletti fan concerto

e tengono di notte l’occhio aperto,

così com’essi loro natura inclina,

[…] allor la gente viaggia pellegrina

e vanno a santuari, quei palmieri, in lidi anche remoti e forestieri […]

Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, Prologo

La Puglia, una lunga fascia di terra, incastonata tra l’Appennino e l’Adriatico, con i suoi 400 km di territori che alternano paesaggi e architetture straordinariamente diversificate e con 800 km di coste balneabili, è attraversata da un reticolo di vie che intersecano il tracciato principale della via Francigena del sud.

Tratto pugliese della via Appia e Appia-Traina, chiamata durante il Medioevo via Francigena del Sud. –pubblico dominio-
Canosa, Mausoleo di Boemondo

Il nostro itinerario inizierà percorrendo una di queste strade, quella che da Canosa portava i viaggiatori sino alla litoranea adriatica. Raggiungeremo la costa e faremo tappa a Molfetta per procedere in direzione di Bari, città famosa per la presenza del santuario di San Nicola. Infine, prima di imbarcarci alla volta della Grecia, ci concederemo una piccola deviazione, come facevano i pellegrini medievali che raggiungevano la costa pugliese dalla via per compendium, che collegava Taranto a Brindisi. Questo percorso, segnalato fin dagli itinerari più antichi, ci permetterà di visitare i santuari rupestri che sorgono lungo le gravine che caratterizzano questa zona.

Prima ancora del patrimonio artistico e delle emergenze monumentali, i pellegrini del passato e i viaggiatori moderni sono colpiti dalla bellezza naturale di questa terra, così la dipinge Cesare Brandi nel suo celebre libro di viaggio Pellegrino di Puglia del 1960:

La Puglia è un meraviglioso, austero, paese arcaico. L’unico dove si assiste ancora allo spettacolo incontaminato, e per interminabili distese, di una flora anteriore alla calata degli indeuropei: solo ulivi e viti, viti e ulivi, le piante che nel nome, tenacemente conservato e trasmesso, rivelano ancora di essere state trovate sul posto dagli invasori ariani. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Come il nostro raffinato viandante del XX secolo, molti pellegrini medievali riservano parole di ammirazione per il paesaggio pugliese. Due colti nobiluomini fiamminghi, Giovanni e Anselmo Adorno, di ritorno dalla Terrasanta approdano in questa regione nel XV secolo, nel loro affascinante diario di viaggio scrivono di non avere mai visto una terra altrettanto fertile, né boschi di ulivi altrettanto belli:

La Puglia o Apulia […] credo che sia la più fertile al mondo per la produzione di olio e di grano. Produce in abbondanza anche dell’eccellente vino, […] ci sono boschi di ulivi, che è piacevole attraversare. È possibile altrove, come in Siria, in Barberia, vedere boschi di ulivi, tuttavia questi ci sono sembrati più piacevoli a guardarli e più grandi. (A. Adorno, Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte)

Il verde dell’ulivo e della vite, il giallo oro del grano ci accompagneranno lungo il nostro cammino su quella strada che, tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, diverrà l’itinerario terrestre privilegiato non solo dai pellegrini, ma anche dai crociati che dovevano imbarcarsi verso la Terrasanta. Uno di questi crociati fu il principe Boemondo che amò sinceramente la Puglia, in particolare la città di Canosa, prima tappa di questo nostro itinerario.

Già importante centro di età romana, grazie alla vicinanza al fiume Ofanto e alla sua posizione strategica di raccordo fra le strade che provenivano dagli Appennini e la Puglia, divenne centro del potere normanno e sede di una prestigiosa diocesi. Proprio in questa cittadina possiamo visitare il mausoleo, dalle forme ispirate a quelle del Santo Sepolcro di Gerusalemme e all’architettura islamica, che fece costruire lo stesso Boemondo, a fianco della Cattedrale (La Cattedrale Di Canosa).

Il principe normanno, figlio di Roberto il Guiscardo, aveva partecipato alla conquista di Antiochia di cui divenne signore, condusse una vita avventurosa, ricca di amori, rapimenti e conquiste che lo trattennero molti anni in Oriente prima di rientrare in Puglia.

Canosa, Mausoleo di Boemondo (foto di “File:Paolo Monti – Servizio fotografico (Canosa di Puglia, 1970) – BEIC 6358124.jpg” by Federico Leva (BEIC) is licensed under CC BY-SA 4.0 )

Duomo di Molfetta e molo

Lasciamo che sia Cesare Brandi, il cui pellegrinaggio letterario e artistico ha fatto tappa a Canosa, a raccontarci qualcosa di più sul principe e a guidarci nella conoscenza di questo insolito monumento del XII secolo dalle pareti marmoree, decorate esternamente dal leggero scorrere di arcate cieche, e che, più che una tomba monumentale, sembra un prezioso scrigno o un reliquiario, come quelli che i pellegrini riportavano in patria dall’Oriente.

Come s’arriva là davanti, e sembra un cofanetto d’avorio, si penserebbe piuttosto alla cappella privata o alla tomba di una possente gentildonna sul tipo di Galla Placidia o a un marabutto arabo, mai al ricettacolo del più straordinario personaggio della Prima Crociata, a quel colosso di nome e di fatto che fu Boemondo, il figlio di Roberto il Guiscardo. Orlando fra i Paladini, e, nella Prima Crociata, Goffredo di Buglione e Tancredi, sono riusciti a sopravvivere per merito della Poesia. A Boemondo che, al suo tempo, fu di tutti il più famoso, non è toccata uguale sorte […] Boemondo è mezzo eroe e mezzo farabutto, e come farabutto riesce ad innalzarsi fino all’eroe: resta sempre il figlio di quella malaugurata razza di avventurieri senza un soldo a cui aveva appartenuto suo padre. Se la leggenda o la poesia l’avessero passato al filtro, a quest’ora, il bello scrigno marmoreo sarebbe famoso al mondo, e il nome di Canosa suonerebbe almeno come quello di Roncisvalle […]. Orlando sembra d’averlo conosciuto come una persona morta presto e di cui tutti in famiglia dicevano bene, con Tancredi siamo andati a scuola[…], questo Boemondo, cinico, traditore, insaziabile, ma nato capo con i capelli biondi, Boemondo non si arriva a vederlo. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Consigliamo al viaggiatore di visitare il suggestivo tempietto che la leggenda vuole conservi le spoglie di Boemondo; potrà ammirare la bella porta bronzea a due valve impreziosita da motivi decorativi di chiara origine islamica. Sul battente sinistro rimane leggibile parte di un’iscrizione celebrativa in onore del principe crociato: non hominem possum dicere, nolo deum. (non posso dirlo uomo, ma neanche Dio.)

Lasciamo Boemondo e la città di Canosa per proseguire in direzione di Molfetta, che come altri centri costieri pugliesi fu un importante tramite fra Oriente e Occidente, quando il suo vasto porto divenne approdo di velieri crociati e galee veneziane, che oggi hanno lasciato posto ad una vivace e colorata flotta di pescherecci che ne anima la vita.

Nel mare Adriatico di questo pittoresco porto si specchia la cittadina pugliese con le sue mura:

[…] vecchie mura che ancora cingono, ammansite e utilizzate a case, sopra a cui scorre una strada anulare, la città vecchia, minuscola e complicatissima città. Ancora più che a un labirinto o a un meandro, fa pensare d’essere entrati in una serratura: né solo per quella porta che può simulare il foro della chiave. Le straducole strettissime e alte seguono un itinerario proprio, e non hanno mai un punto d’arrivo preciso, una piazza, una chiesa. Si direbbe, se quelle ci sono, che la costeggiano, vi arrivano per la tangente: cunicoli scavati nella pietra tenera e chiara su cui arrivano i riflessi del mare. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Il pellegrino che giungeva qui nel Medioevo aveva due importanti punti di riferimento devozionali che diventeranno anche le tappe del nostro cammino: il Duomo e il Santuario della Madonna dei Martiri.

Tra il blu dell’Adriatico e del cielo, lungo le mura medievali e proteso verso il mare, si staglia il Duomo di San Corrado (Duomo Di Molfetta). Il santo, cui è intitolata la bella chiesa molfettese, era un nobile pellegrino germanico, giunto in città al ritorno dalla Terrasanta. La presenza delle sue reliquie e la fama dei suoi miracoli accrebbero il flusso di devoti viaggiatori in cerca di grazia e l’importanza di Molfetta e della sua chiesa. Entriamoci guidati dalle parole di Cesare Brandi:

[…] impossibile evitare il tono solenne per questo solennissimo monumento tagliato nella pietra a spigoli vivi come una pietra preziosa, estratto dall’Armenia si direbbe, e posato sulla sponda di un porticciolo vero e attivo, pieno di barche e bragozzi, che si carica e si scarica di pesce alle sue ore. […] [I riflessi del mare] danzanti e capricciosi rappresentano il fascino saltuario, ma indimenticabile della Cattedrale, […]. Le tre cupole non sono meno splendide all’interno, quando il rivestimento prismatico, con angoli così aguzzi, le fa parere tende tartariche issate sul tetto della Cattedrale. Dopo San marco a Venezia, è forse la chiesa dagli spazi più misteriosi: quel senso aspirante o da incubatrice che hanno le tre cupole, la cui presenza è davvero inscindibile e talmente preparata dalle volte delle navate laterali, a mezza botte, rampanti, che sembrano spalle curve a sostenere il peso superiore o ben piuttosto il volo aereo di un volteggio. Così le cupole si issano scavalcando la chiesa. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Una volta usciti dalla chiesa, il viaggiatore non può negarsi l’esperienza di una passeggiata nel centro storico di questa cittadina adriatica così descritta dalla nostra guida letteraria Cesare Brandi:

[…] e si vien presi nelle volute, nei giri viziosi delle viuzze, che sembrano come i fili, ma sempre lo stesso, di un gomitolo, ci si sente consegnati a uno spazio volubile, a un percorso interno alle cose, che mai ci consentirà una libera uscita, o, pur così tangente al mare, una veduta sul mare con borghese panchina. Il percorso diviene allora una segreta dimensione di spazio che non è più nostro: ed è in questo, che lo sviluppo delle vie diviene come un brancolare a mosca cieca. Ma un brancolare luminoso che la pietra tenera e bianca, d’un bianco leggermente livido e rosato, come la pelle di chi sta sempre vestito, restituisce con quel saltellio di luci marine, screziate dalle onde robuste e rovinose che stanno per inghiottirsi, un morso alla volta, questa meravigliosa città vecchia di Molfetta. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Attraversato il centro storico, sull’altro sprone che delimita la bocca del porto, si intravede il Santuario della Madonna dei Martiri, con l’annesso ospedale, dove trovavano accoglienza e cure sia i crociati che i pellegrini diretti o di ritorno dalla Terrasanta. All’indomani della prima crociata, il Mezzogiorno accolse un gran numero di ospedali, strutture adibite alla sosta dei pellegrini, affidati alla gestione di Ospedalieri, Templari e Cavalieri Teutonici.

Il santuario molfettese sorse nel 1162 e, poco dopo, fu costruito anche l’ospedale (L’ospadale Dei Crociati ). Uno dei pochi rimasti pressoché intatti. Ancora oggi il viaggiatore potrà visitare i suoi ambienti a sviluppo longitudinale, divisi in tre navate di pari altezza da robusti pilastri cruciformi. L’edificio è voltato a botte parallele, scandite da archi trasversali a tutto sesto. L’ambiente è illuminato da una serie di monofore che si affacciano sul mare.

Lasciato l’Ospedale dei Crociati, come i viandanti del passato, consigliamo di visitare il Santuario molfettese della Madonna dei Martiri, dove si può ancora ammirare l’icona considerata miracolosa e dai poteri taumaturgici che, secondo la leggenda, proveniva dalla Terrasanta, portata in salvo dai crociati nel 1188, all’indomani della caduta di Gerusalemme. Si tratta dell’icona della Madonna dei Martiri, una tavola in realtà di dubbia datazione, fortemente ridipinta, ma verosimilmente risalente al XIV, che rappresenta il tipo iconografico della vergine affettuosa.

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Molfetta, icona della Madonna dei Martiri
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Basilica di San Nicola
(Foto di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=61405024)

Questo luogo non poteva lasciare indifferenti i pellegrini, sempre alla ricerca di un segno divino, e, per questo, in poco tempo, Molfetta da tappa di pellegrinaggio ne divenne meta. La fortuna del Santuario era legata a quella dell’icona per la sua fama di oggetto miracoloso.

Il pellegrino Anselmo Adorno nel suo diario di viaggio si dilunga nel racconto dei prodigi operati dalla venerata immagine:

La Chiesa Nostra Signora dei Martiri è situata ad un miglio da Molfetta sul mare; è grande e frequentato luogo di culto. Sono sepolti numerosi corpi di martiri: perciò è chiamata Nostra Signora dei Martiri. Si trova isolata sul litorale con alcune case di pertinenza della medesima chiesa. I preti che amministrano la chiesa abitano nelle case vicine e danno accoglienza ai pellegrini in caso di bisogno. In essa c’è l’immagine di Nostra Signora, che compie molti miracoli, così come leggiamo in chiesa. Stando all’interno abbiamo ascoltato un prete di Barletta raccontare uno dei grandi miracoli compiuti sulla nave dove si trovava.

Questa nave era andata dispersa nella tempesta. Spinti dal padrone che promise la metà del suo bastimento a Nostra Signora dei Martiri, coloro che si trovavano a bordo e che speravano di salvarsi fecero un voto alla Vergine. Compiuto il voto, la Vergine apparve loro sulla prua della nave. Apparve anche un giudeo coperto di lebbra, che si mise ad adorarla, che chiedeva di essere liberato dalla malattia e dal pericolo del mare e si dichiarò subito cristiano. E grazie a tutto questo la nave giunse nel porto di Corfù. La Beata Vergine fece in questo luogo altri miracoli. Per questo motivo annualmente confluiscono molti pellegrini. (A. Adorno, Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte)

Nel XV secolo il santuario era una meta molto frequentata dai pellegrini e, ieri come oggi, poteva accadere che, in luoghi così affollati, si potesse diventare vittime di piccoli o grandi furti come racconta fra’ Mariano da Siena nel 1431, di ritorno dal suo pellegrinaggio in Terrasanta e di passaggio nella città di Molfetta.

[…] e venimo a rinfrescarci a Morfetto.[…]

e visitammo S. Maria de’ Martiri , e mentre che noi eravamo in Chiesa , fu tolta la tasca con molte coselline, che valevano parecchi fiorini , a uno de’ nostri compagni . Questa Chiesa è cosa

di grande devozione […] (Mariano da Siena, Del viaggio in Terra Santa fatto e descritto da ser Mariano da Siena nel secolo XV)

Lasciamo Molfetta e, proseguendo lungo la litoranea adriatica, ci dirigiamo verso Bari, che per i pellegrini medievali non è solo una semplice tappa del loro faticoso cammino, ma è soprattutto la città dove sorge uno dei santuari più popolari della cristianità medievale. Si tratta della Basilica di San Nicola, chiesa che riveste un’enorme importanza nella storia stessa dell’identità civica di Bari. Pur non essendo la cattedrale cittadina, bensì una chiesa di pellegrinaggio, è sicuramente l’edificio sacro più caro ai baresi, e quello più frequentato, nel corso dei secoli, dai ‘viaggiatori di Dio’ .

Il cammino dei pellegrini giunti a Bari conduce alla Basilica dove riposano le spoglie del santo venuto dal mare. Questo luogo divenne l’ideale punto d’incontro delle grandi vie di terra e d’acqua che portavano o venivano da Gerusalemme e a Santiago di Compostela, mete estreme dei grandi itinerari del pellegrinaggio medievale.

Il viandante di ieri e di oggi vi arriva solo dopo essersi addentrato nel tessuto urbano della città vecchia. Scrive Brandi:

Quasi a picco sul mare […]. Dal mare viene la sua vita e la sua morte, i commerci e le flotte piratesche dei Saraceni. Da questa apertura che deve essere al tempo stesso chiusura nasce il carattere asserragliato della città vecchia, le strade come cunicoli e le ampie oscure volte che le scavalcano. […]. Sembra che, prima delle strade, sia stata fatta una costruzione tutta di massello, e poi forata da strani, industri litofagi. […]. Bari vecchia è l’aggregato arabo, e quando non è Gerusalemme, è Damasco: le volte hanno il senso del mercato coperto, che sia Bazar o Suk. E sono anche le volte di un paese che vuole deviare e rompere i venti gelidi che vengono da Settentrione, e ripararsi dal sole che, d’estate, ossia otto mesi l’anno, calcina gli occhi e le pietre. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

In questo dedalo di vie, dopo aver costeggiato il castello (Il Castello Svevo) e la cattedrale (La Cattedrale Di Bari), e aver percorso l’attuale Via delle Crociate, si raggiunge l’attuale via Palazzo di città, una strada il cui nome antico era Ruga Fragigena, cioè strada Francigena. Questa via, che taglia il centro storico e conduce finalmente nella piazza della Basilica di San Nicola (La Basilica Di San Nicola), fin dalla toponomastica, ci ricorda che stiamo percorrendo esattamente il tratto dell’antico itinerario europeo di pellegrinaggio che attraversava Bari, per permettere ai pellegrini di far visita al santuario nicolaiano, venerare le reliquie e ottenere la benedizione per proseguire in sicurezza il resto del cammino.

I pellegrini del passato, come suggeriamo di fare anche al viaggiatore che sta seguendo questo itinerario, cercavano di far coincidere il loro arrivo a Bari con il giorno in cui si celebra il santo Patrono in città, l’8 maggio. Attraverso i loro scritti è possibile scoprire usi e costumi di questa festa religiosa e popolare che, ancora oggi, continua ad attirare devoti e turisti.

Un viaggio nel viaggio a ritroso nell’immaginario devozionale che ha inizio proprio nella cripta della Basilica: vi si accede ancora tramite una scalinata posta sulla navata laterale che conduce il fedele in una dimensione mistica, dal sapore orientale e bizantino, grazie alla profusione di icone, lampade, arredi in metalli preziosi, tessuti e ricami che concorrono a rendere estremamente suggestiva la vista delle reliquie di San Nicola, qui conservate. Ne parla nel suo diario medievale Anselmo Adorno:

Le spoglie riposano in un’arca di marmo sotto il grande altare della cripta. La parte anteriore dell’altare è istoriata con immagini sbalzate in argento. Sempre sul fronte dell’altare c’è una porticina attraverso cui, da un foro che penetra all’interno del monumento, ove una lampada accesa pende da una catena d’argento, si distinguono le reliquie di S. Nicola. Da esse dicono che scaturisca un olio santo, ovvero un liquido con cui vengono unti occhi e fronti delle persone nelle festività solenni, così come fu nel tempo in cui noi fummo a Bari, cioè nel giorno di S. Nicola. (A. Adorno, Itinéraire d’Anselme Adorno en Terre Sainte)

Sono moltissimi i pellegrini del passato che visitano il santuario per procurarsi un miracoloso liquido, chiamato manna, che si dice stilli ancora dal corpo del santo.

Flussi interrotti di pellegrini, provenienti sia da Oriente che da Occidente, hanno continuato nel corso dei secoli ad affollare la tomba del santo barese, alla fine dell’Ottocento ne scrive anche lo storico dell’arte francese Emile Bertaux:

[…] sin dai primi giorni di maggio, la città vecchia, che con i suoi vicoli tortuosi stringe le mura della basilica fortificata dai re angioini, si agita e trabocca. I visitatori hanno preso d’assalto la chiesa; si sono stabiliti nelle navate laterali e persino nelle cappelle; sono lì accampati, dormono, mangiano. […] Così scendono fin giù nella cripta, con la testa che batte sugli scalini, e quando si rialzano vacillanti, vedono al di sopra della buia folla, tra le colonne annerite, la volta rivestita d’argento, tutta rutilante di luci, e il massiccio altare d’argento, dove il corpo di San Nicola, nell’ombra, stilla una miracolosa manna. […]. È necessario che ogni famiglia porti via la sua bottiglia piena del misterioso liquido che stilla dalle ossa di San Nicola come da fonte inesauribile. (E. Bertaux, Sur les chemins des pèlerins et des émigrantes, 1897)

La città, ancora oggi, per ben tre giorni, 7-8-9 maggio, si veste a festa e si consegna interamente alle celebrazioni, tra sacro e profano, del suo Santo. Invitiamo il viaggiatore giunto sin qui, seguendo questo itinerario, a prendere idealmente parte alle festività o a programmare il viaggio in modo da potersi immergere nel clima festoso che si respira a Bari durante i giorni di San Nicola, come fece il ‘pellegrino di Puglia’ Cesare Brandi, che con le sue parole ci introduce nella dimensione folklorica, allegra e caotica che regna in città:

[…] per i festosi viali di Bari, archi di lampadine a non finire, che rientravano l’uno nell’altro, come cerchi concentrici di un tiro a segno. La strada, fitta di popolo a contatto di gomito – e del resto – sembrava ridotta a un palcoscenico in lieve pendenza. […]

Gli archi luminosi non erano le sole luci, sotto le stelle compiacenti, della vigilia della festa: non potevano mancare i fuochi, quest’altro costoso lusso del Meridione, dei poveri che si danno allo scialo. E in quanto allo scialo, per San Nicola, i Baresi si sprecano. […] Si comincia, appunto, dalla sera della vigilia [il 7 maggio], quando una tremolante caravella a ruote, fra nubi di fumo e modeste crepitanti torce di fuoco greco, con un’immagine di San Nicola a bordo e alcuni vecchietti in costume da Cena delle beffe, passa tra la folla della città fino a trascorrere sotto gli archi luminosi. Questa rievocazione del famigerato furto perpetrato dai Baresi a Mira, in gara nobilissima coi Veneziani, è dunque una specie di Sacra Rappresentazione, senza preti e senza canti, dove la voce è messa solo dai botti dei fuochi d’artificio, […]. (C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

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Bari Vecchia, luminarie per la festa di San Nicola
(foto di just_jeanette is licensed under CC BY-NC-SA 2.0 )
Bari, la statua di San Nicola portata in processione a mare.
(Foto di daromeo76 is licensed under CC BY-ND 2.0 )

I festeggiamenti continuano il giorno successivo, l’8 maggio, «quando – continua Brandi – il Santo va in mare, sotto un sole, che, se anche è maggio, è già piena estate, in un cielo che è chiaro come in Africa», a bordo di un peschereccio che vuole ricordare il legame della città con il mare e l’arrivo, proprio da quel mare, delle reliquie di San Nicola, trafugate nell’XI secolo da Myra, in Turchia, da un gruppo di marinai baresi.

Scrive ancora Brandi:

Il Santo va in mare, vestito, sulla statua d’argento, di paramenti d’oro e circondato, invece che da torce e flabelli, da mazzi di fiori nuziali – garofani bianchi e calle – montati su lunghe aste d’argento, come quelle che reggono i baldacchini. Il Vescovo in persona, che comanda la processione, getta allora un’ampolla con la manna di San Nicola. […] Il mare, allora, questo eterno ricetto materno, la Teti antica e dell’inconscio, alla fecondazione nuziale risponde con l’urlo subitaneo e lacerante, discorde fino a raggiungere il più implacabile salasso elettrico, di non so quante sirene, dalle navicelle, dai trabiccoli, dai motopescherecci, raccolti attorno al motopeschereccio del Santo, come le api intorno all’Ape regina. […] Ora la fecondazione è avvenuta, il santo si riposa, la gente dalla terra esulta, perché il patto col mare, la parentela indissolubile, è per il bene della terra. […] Il pubblico straboccante, meravigliosamente nero e rosso, brulicava sul lungomare, fitto come puntini di un quadro di Seurat. Finché il Santo rimane in mare, il brulichio non cesserà.

(C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Il giorno dopo, la statua di San Nicola torna nella sua bella Basilica romanica, e il viaggiatore potrà decidere se imbarcarsi immediatamente, sotto la protezione del Santo, o proseguire il viaggio in Puglia ancora per un po’, prima di prendere uno dei traghetti che regolarmente collegano il capoluogo pugliese con le Isole Ionie greche.

Molti pellegrini del passato sceglievano spesso di imbarcarsi da Brindisi percorrendo il tracciato della via Appia-Antica, in particolare la deviatio che collegava Taranto alla città salentina fu molto praticata durante tutto il Medioevo.

Il territorio circostante questo tratto stradale è caratterizzato dal paesaggio lunare e a tratti metafisico delle gravine e delle lame pugliesi, dove si sviluppò una particolarissima forma di civiltà, nota come civiltà rupestre (La Civiltà Rupestre In Puglia): interi villaggi, santuari ed eremi scavati nella roccia introdurranno il viaggiatore in una dimensione mistica, dal fascino discreto e completamente diverso da quello delle maestose basiliche romaniche che abbiamo lasciato lungo la costa. Tra Massafra, Mottola e Castellaneta, in provincia di Taranto, si snoda una fitta rete di strade, dove il cammino del pellegrino si incontra con quello millenario della transumanza.

La nostra guida letteraria, Cesare Brandi, alla ricerca, come noi, delle cripte rupestri, giunge a Mottola. Questo paese, ci ricorda lo scrittore, sorge:

su un’altura che non è un’altura, ma per le Puglie lo diventa: e si vede di lassù uno dei paesi più armoniosi che vi siano, con in fondo il mare. Armoniosa è infatti la discesa degli ulivi corvini, densi come gomitoli, nel pullulare del primo verde delle viti […] armoniosi grani fitti, arditi, rigidissimi, come capelli a spazzola, accanto ai ricciuti boccoli di verde opaco e gagliardo delle fave. Non mi stancavo di guardarlo, quel paese, così scoperto e largo e disteso, che il mare quasi pareva appena l’orice di tanta morbida bellezza.

Invece bisognò staccarsi dal panorama e andare in cerca delle cripte. Naturalmente qui ce n’era un visibilio, volendo: ma a me interessava soprattutto quella di San Nicola, e speravo che trovandosi in aperta campagna, bisognasse cercarsela a piedi […]. Non fui deluso. A un certo punto si arrivò all’antico convento ridotto ad abbazia, e lì la strada campestre finiva.

(C. Brandi, Pellegrino di Puglia)

Mottola, gravine

La chiesa rupestre di San Nicola, una tra le più belle tra le «Mirabili Grotte di Dio» (Charles Diehl), è stata oggetto per secoli della devozione non solo degli abitanti del luogo, ma anche dei crociati e dei pellegrini, di cui stiamo seguendo il cammino, che si recavano a Taranto e Brindisi per imbarcarsi verso la Terrasanta.

La chiesa si trova sul ciglio di una piccola gravina ed è possibile accedervi attraverso scale ricavate direttamente nella roccia.

Questo santuario ipogeo presenta una pianta di tipo cruciforme inscritto all’interno di aula quadrangolare, il cui spazio interno si articola in tre navate, suddivise unicamente da due soli massicci pilastri, secondo una tipologia diffusa anche in area siriaca a partire dal VI secolo. La parte presbiteriale della chiesa, denominata bema, isolata dal resto dell’ambiente interno, grazie alla presenza di un’iconostasi, è suddivisa in tre diverse celle, ognuna con il proprio altare. L’interno, quasi interamente affrescato, presenta uno dei cicli pittorici più interessanti per qualità e per stato di conservazione della Puglia, databile tra l’XI e il XIII secolo. Questo insediamento è stato definito la Cappella Sistina della civiltà rupestre meridionale.

Al nostro viaggiatore, dopo questa deviazione, non rimane che proseguire il suo itinerario imbarcandosi su un traghetto per raggiungere le Isole Ionie, tappa di passaggio quasi obbligata per quanti, durante il Medioevo, navigavano in direzione dell’Oriente o della Terrasanta.

Non per tutti i viaggiatori il momento della partenza era un momento piacevole, soprattutto se a lasciare le coste pugliesi erano i cosiddetti pellegrini armati, cioè i crociati. Il poeta medievale tedesco Tannhäuser, crociato controvoglia, al seguito di Federico II nel 1228, rimpiange in una lirica le gioie che si sta lasciando alle spalle, abbandonando la bella terra di Puglia. I suoi versi ci permettono di tornare indietro nel tempo e immaginare quanto dovesse essere piacevole la vita di dame e cavalieri nelle residenze imperiali della regione. Nella cornice del paesaggio pugliese incontri galanti, tornei e battute di caccia rallegrano le giornate di chi, al contrario del poeta, non è costretto a partire.

Codex Manesse, MSC, Cod. Pal. germ. 848 Heidelberg, Universitätsbibliothek –pubblico dominio-
Codex Manesse, MSC, Cod. Pal. germ. 848 Heidelberg, Universitätsbibliothek –pubblico dominio-
Beato colui che ora può cacciare con il falcone sui campi di Puglia! […]

alcuni vanno alle fonti, gli altri cavalcano guardando il paesaggio ‒ questa gioia mi è tolta ‒ quelli caracollano accanto alle dame […]

io non caccio all'arco con i cani, io non uccello con i falconi, […], e nessuno mi può rimproverare di portare corone di rose […]

neanche mi si può attendere dove cresce il verde trifoglio, né cercare nei giardini accanto alle belle giovani […]

io fluttuo sul mare.

(Tannhäuser, in A. Martellotti, Il viaggio controvoglia del crociato Tannhäuser)

Corfù, baia di Kassiopi

(foto di Bejo, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3086242)

E fluttuando dalla costa adriatica si raggiungono Itaca, Cefalonia e Corfù, dove, per coloro che volevano proseguire il viaggio, attendeva minaccioso lo stretto di Butrinto, con le sue pericolose correnti. I pellegrini o i mercanti che passavano da queste parti preferivano sostare nel riparo naturale offerto dalla baia di Kassiopi, nella parte settentrionale dell’isola di Corfù. Il viaggiatore potrà oggi visitare questo grazioso villaggio di pescatori, le cui origini risalgono ai tempi romani, e potrà conoscerne la storia, scoprendone l’immaginario letterario, tramandato dai diari di pellegrinaggio che ci raccontano di draghi, lampade magiche, eremi, cappelle e di icone miracolose, come quella di cui si conserva ancora un lontano ricordo nella chiesetta della Vergine di Casopoli, protettrice di naviganti e viaggiatori.

I pellegrini medievali narrano che un tempo Kassiopi era una potente città, adesso del tutto deserta a causa di un drago che si era accanito contro la popolazione, dedita anticamente a pratiche sodomitiche. I marinai e i pellegrini iniziarono a frequentare assiduamente una cappellina perennemente illuminata da una lampada. L’olio prodigioso della lampada si diceva che guarisse da ogni febbre. Con il tempo si diffuse anche la leggenda della presenza, in questa cappella, di un’icona miracolosa della Vergine dipinta dall’evangelista San Luca, icona nota come la Vergine di Casopoli. (M. Bacci, Portolano sacro. Santuari e immagini sacre lungo le rotte di navigazione del mediterraneo tra tardo medioevo e prima età moderna)

La cappella, così famosa nel passato, subì gravi danneggiamenti nel corso del XVI secolo, a causa delle incursioni berbere, ma fu prontamente ricostruita dai Veneziani nel 1590. L’immagine considerata miracolosa è oggi scomparsa, ma è stata sostituita da un’icona votiva del XVII secolo che ne riproduce l’aspetto, ed è ancora oggi oggetto di devozione.

Ne parla, tra gli altri, il diario di viaggio del Marchese Nicolò d’Este, redatto dal fedele cancelliere Luchino dal Campo agli inizi del XV secolo. Così scrive:

Et andando il Signore al suo viaggio, la sira andò alla isola di Corfù, in uno porto chiamato Nostra Dona da Casopoli. E qui, gittato ferro e la barcha all’acqua, andò in terra a la giexia di Nostra Donna , ove li è una lampada denanti alla sua figura, la quale sempre arde e sempre sta piena di olio, ní mai se ne mette guzzo di olio; et fu dato de un certo legno bagnato del dicto olio a tucta la compagnia da uno calogiero che sta lì, e disse esser bono de guarir ogni febre. E, visitato questa figura la qual fa miracoli, andorono a vedere uno castello chiamato Casopoli, molto bello ma disabitato per uno serpente il quale habitava lì e avelenava tucto il paexe. (Luchino dal Campo, Viaggio del Marchese Nicolò d’Este al Santo Sepolcro, 1413)

Kassiopi, Cappella della Vergine di Casopoli, interno.

Il castello, di cui parlano i viaggiatori e i pellegrini medievali, è ancora oggi visitabile. Dalla via principale del villaggio parte una strada che s’inerpica su un’altura che domina la baia. In cima, in parte avvolte dalla vegetazione, si trovano le rovine di quella che originariamente era una fortificazione bizantina. Il castello fu conquistato nell’XI secolo da un personaggio che abbiamo già conosciuto lungo il nostro itinerario durante la tappa a Canosa, il principe Boemondo. La dominazione normanna di Corfù non durò troppo a lungo e il maniero passò nuovamente in mano agli imperatori bizantini sino all’arrivo degli Angioini nel 1266. Infine, il forte fu distrutto dai Veneziani nel XIV secolo, quando si impadronirono dell’isola. Fu solo agli inizi del XVIII secolo che, per arginare le incursioni ottomane, essi decisero di ricostruire il castello.

Il nostro pellegrinaggio alla ricerca della bellezza e alla scoperta di monumenti medievali, di storie e leggende, nate lungo le strade che abbiamo percorso e intimamente legate all’identità dei luoghi attraversati, si conclude su quest’isola, su questa rocca da cui è possibile dominare con lo sguardo lo stretto di Corfù, nella convinzione che la fine di questo viaggio possa diventare l’inizio di un nuovo itinerario o di un nuovo racconto.

Rovine del castello di Kassiopi
(By Dr.K., CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68635379)